

Seconda parte
Picnic a Hanging Rock, di cui abbiamo parlato nel precedente articolo, fu uno dei più fulgidi rappresentanti della New Wave del cinema australiano, quella stagione tra la prima metà degli anni Settanta e la seconda degli Ottanta molto fervida dell’industria cinematografica degli antipodi. Il regista Peter Weir, uno dei principali protagonisti di questo cambiamento, aveva esordito alla regia nel 1974 con Le macchine che distrussero Parigi (The Cars that Ate Paris), film che era stato d’ispirazione per Interceptor (Mad Max, 1979). Questo film, diretto da George Miller, darà origine a una saga cinematografica dove ancora una volta l’Outback australiano che dovrebbe fare da sfondo alla vicenda, ne diventa una parte integrante.
Il primo film con attori aborigeni e che mostrava la loro difficile integrazione con i bianchi fu Jedda (1955) di Charles Chauvel. La pellicola è considerata una delle più importanti e influenti per lo sviluppo della cinematografia australiana e fu anche la prima girata a colori nel continente. Ma la vera ondata di film che esplorarono la natura mistica della cultura aborigena e il rigido panorama dell’Outback australiano aveva avuto inizio nel 1971 con L’inizio del cammino (Walkabout) del regista Nicolas Roeg. Ipnotico, viscerale ed elegiaco, non privo di scene abbastanza dure, il film rappresenta una meditazione, sotto forma di racconto allegorico, sull’incontro/scontro tra due civiltà apparentemente inconciliabili. I titoli di testa recitano:
“In Australia, quando un aborigeno compie 16 anni, viene mandato nel deserto. Per mesi dovrà vivere solo con il deserto. Dormire nel deserto. Mangiarne i frutti e la selvaggina. Sopravvivere. Anche se questo significa uccidere i suoi amici animali. Gli aborigeni lo chiamano Walkabout.
Questa è la storia di un Walkabout.”
Il film ha avuto un remake omonimo nel 2008 diretto da Jamie Blanks.
Oltre ai film con elementi fantastici citati sopra, sull’argomento, cioè sulla contrapposizione tra l’uomo moderno e il mondo del sogno australiano, ne ricordiamo altri che, come L’inizio del cammino e Dove sognano le formiche verdi, hanno un impianto decisamente realistico.
Storm Boy (1976) di Henri Safran, per esempio, parla dell’amicizia tra un ragazzo australiano e uno aborigeno, accomunati dalla passione per i pellicani. Yolngu Boy (2001) di Stephen Johnson, rivolge invece l’attenzione ancora sul rito di passaggio del Walkabout già visto nel film di Roeg.
La generazione rubata (Rabbit-Proof Fence, 2002) di Phillip Noyce, è incentrato sulla pratica di integrazione messa in atto dal governo australiano fino alla metà circa del secolo scorso che allontanava forzatamente dalle loro famiglie i bambini aborigeni, soprattutto se meticci, per farli crescere secondo lo stile di vita occidentale. L’argomento è alla base anche di Australia, kolossal del 2008 diretto da Baz Luhrmann.
Negli ultimi decenni, un regista in particolare ha raccontato la vita del popolo aborigeno: Rolf de Heer. In The Tracker (2002), all’inizio del secolo scorso un poliziotto razzista usa l’abilità di un cacciatore di piste indigeno per inseguire un assassino. 10 canoe (Ten Canoes, 2006), diretto insieme all’attore aborigeno Peter Djigirr, è invece il primo film completamente girato in lingua aborigena. Charlie’s Country (2013) racconta infine il ritorno alle origini di un anziano aborigeno occidentalizzato.
Chiudiamo questo rapido e incompleto viaggio nel cuore di un continente agli antipodi dal nostro, non solo geograficamente, citando Wolf Creek, film del 2004 diretto da Greg McLean. A prima vista si tratta del classico horror con serial killer come ne esistono a centinaia, sullo stile di Le colline hanno gli occhi o Non aprite quella porta, ma con alcune caratteristiche che lo fanno invece apprezzare anche ai non amanti del genere. Intanto il protagonista è John Jarratt, uno degli attori di Picnic a Hanging Rock, qui nelle vesti di uno spietato assassino. La prima parte del film, supportata da una magistrale fotografia, è un lento inoltrarsi nella straniante e misteriosa bellezza dell’atavico e selvaggio paesaggio australiano. Peccato che nella seconda ceda alla tentazione di abbandonarsi ai più beceri effettacci splatter, assolutamente gratuiti ai fini del mantenimento della tensione fin lì accumulata.
(Caltagirone, 1970). Grande appassionato di cinema fantastico, all'età di sette anni vide in un semivuoto cinema di paese il capolavoro di Stanley Kubrick “2001: odissea nello spazio”. Seme che è da poco germogliato con la pubblicazione del saggio “La fantascienza cinematografia-La seconda età dell’oro”, suo esordio editoriale. Vive e lavora a Pavia dove, tra le altre cose, gestisce il gruppo Facebook “La biblioteca del cinefilo”, dedicato alle pubblicazioni, cartacee e digitali, che parlano di cinema.