DANZATE, MORITURI! DI VITTORIO CURTONI
La copertina è World © di Roberta Guardascione
disegnata appositamente per Cose da Altri mondi.
Quasi Inediti
Scelti dal Direttore
Con Danzate, morituri! parte un’iniziativa che chiamiamo QUASI INEDITI, ovvero la proposta di racconti del passato scritti da prestigiosi autori italiani che, per un motivo o per l’altro, non sono mai più stati ristampati dopo la loro prima pubblicazione. Cominciamo con questo che è il primo racconto pubblicato professionalmente da Vittorio Curtoni.
Mario Luca Moretti
È con grande piacere che aderisco a questa bella iniziativa di Mario. Il primo racconto che viene presentato è quello di un mio carissimo amico purtroppo scomparso, un personaggio che ricordo sempre con piacere e con rammarico perché, malgrado non fossimo d’accordo quasi su niente, malgrado ci prendessimo sempre in giro, malgrado io lo chiamassi scherzosamente “Vecchio Batrace”, devo ringraziarlo di tante cose che mi sono state utili per proseguire il mio cammino. Mi perdonerà sua moglie, la dolce Lucia, di lamentarmi qui dell’unica cosa per cui non lo perdonerò mai: di non esistere più fisicamente, ma almeno le tracce del suo percorso sono sparse per tutta la fantascienza italiana. Ciao, Vittorio, ci manchi davvero.
Vanni Mongini
Danzate, morituri!
Prima edizione: Oltre il cielo n. 145, 1966
Arrivando a casa di Gigi osservavo tante piccole cose cui prima non avevo fatto caso. Il selciato, ad esempio, è tutto sconnesso, e lunghe file di formiche lo percorrono in lungo e in largo, sempre indaffarate in quel loro continuo affaccendarsi quasi morboso. Poi c’è la targhetta che è tutta istoriata come un capolavoro d’arte e non sembra debba servire a un uso così prosaico come determinare l’identità di una persona. Cose piccole, sì, minuzie, ma le osservo a lungo e mi prende una gran voglia di piangere.
Piangere. Ecco una cosa che non devo assolutamente fare, oggi più che mai. Dove va a finire tutta la mia dignità, il mio amor proprio, se mi metto a piangere? Ho 17 anni, sono quasi un uomo, e le mie debolezze non devono avere il sopravvento.
“Affronta tutto con coraggio,” mi dico, “solo così potrai dire di valere qualcosa. Anche questo affrontalo con coraggio. E poi è l’ultima volta, cosa ci perdi?“
Niente ci perdo, proprio niente. In un modo o nell’altro deve finire. Meglio senza lacrime.
Schiaccio il campanello, e vedo le mie dita piegarsi con troppa forza, come se cercassi di aggrapparmi a quel campanello per salvare me stesso. ancora la paura, sempre la solita, maledetta paura. Maledizione, cosa ci posso fare se ho paura?
La porta si apre e Gigi mi invita ad entrare. È vestito dei suoi abiti migliori: giacca grigia, cravatta scura, molto seria, pantaloni grigi.
– In ghingheri, eh?
Tento di schiacciare l’occhio, ma è un tentativo molto stupido, il mio, e riesco solo a fare una boccaccia. Lui fa finta di non badarvi: ha molto più buon senso di me. Perché mai bisogna mettersi a fare i buffoni proprio oggi?
Dentro, i miei occhi scoprono altre cose mai viste. Mi accorgo di avere una lucidità eccessiva, una capacità visiva di molto superiore al normale. Perché mai? È solo una tortura: mi rimarrà la memoria di cose mai viste prima e tanto belle, comuni, vive. Mi rimarrà il rimorso di non aver saputo apprezzare in pieno la vita quando essa era mia. Che stupido sono!
Ci sediamo come al solito nel suo studio, ma c’è già tra di noi un silenzio innaturale, mai provato prima. Di solito ci mettevamo a chiacchierare, a giocare a carte, a pulci: adesso niente. Eppure bisogna parlare, parlare!
– Hai telefonato a Marco? – mi chiede Gigi.
Scuoto il capo, non so perché
– Sì, ho provato, ma non c’è stato niente da fare. Lo sai com’è, no? Ha le sue idee, è impossibile che ci rinunci. Ho tentato di convincerlo, ma non c’è stato proprio niente da fare. Non vuole venire. Dice che non è mai andato a una festa e mai ci andrà. Ma dico io, proprio oggi? È restato solo in casa, e aspetterà come noi le 8. Solo che lui avrà come compagnia unicamente la sua paura.
Gigi sembra poco convinto.
– Ma i suoi? Suo padre, sua madre?
– Temo abbiano preso la via più breve. Si sono suicidati.
Ecco l’ho detto. sono riuscito finalmente a liberarmi del peso che mi opprime dalla mattina, da quando la voce triste di Marco mi ha detto: – Non ci sono più.
Credevo di non riuscire a sopportare il peso di una rivelazione così terribile, e invece l’ho detto solo perché mi è stata posta una domanda diretta. Ma forse non avrei dovuto rispondere a questa domanda: oh sì, sarebbe stato meglio… Mio Dio, cosa ho fatto?
Gigi mi guarda in un modo strano, sembra quasi che voglia carpirmi tutte le verità che ho nascosto dentro di me.
– Ti rimproveri perché me l’hai detto? Credevo proprio che uno scrupolo come questo non ti sarebbe venuto. Hai pensato a quanto poco valga una bugia, un silenzio, oggi?
Forse ha ragione. Che ne so io di cosa è meglio tacere, di cos’è meglio dire? Sono morti? Va bene, pace all’anima loro, se lo sono voluto, no?
– Grazie. Stavo proprio dandomi del cretino… Ma hai ragione tu, al solito.
Restiamo lì, e di nuovo il silenzio ci avvolge, impalpabile eppure così terrificante. Mi vengono in mente tutte le teorie sul mondo moderno, sull’incomunicabilità, sull’impossibilità di stabilire un dialogo con gli altri. È incomunicabilità questa? A me sembra che sia solo paura.
– Eppure una domanda potrei farla, oh sì. Ma perché chiedergli proprio quello? È giusto? Ma le parole mi escono da sole dalle labbra, non riesco a fermarle.
– Come l’hanno presa i tuoi?
Sorride.
– Come l’hanno presa? Cosa vuoi che tu risponda? Bene, male? Come si può rispondere a una domanda simile? Vorrei poterti dire co…
Mi metto a urlare, salto su dalla sedia, gli chiudo la bocca.
– Scusami, scusami! Non ne avevo il diritto, no, non dovevo! Perchè devo continuare a comportarmi così crudelmente?
– No, Vittorio, hai diritto a una risposta. Non credere di essere crudele, non pensarci nemmeno. Io stesso potrei chiederti come l’ha presa tutta l’altra gente, cosa stanno facendo in questo momento, cosa desiderano, cosa temono. È solo curiosità.
Si ferma un attimo.
– L’hanno accettato, ecco tutto. D’altronde cosa si poteva fare? Forse dire “No, non voglio” e scappare? L’unica possibilità è la rassegnazione, non ci sono altre vie.Hanno detto “Va bene, va bene”. Adesso sono di là, e non verranno certo a disturbarci. Aspettano anche loro, come noi. Sì, hanno pianto, hanno gridato nel baciarmi, ma è umano, è umano, Vittorio. Non hanno ragione?
– Sì, certo. Anche i miei hanno fatto così. Niente tragedie: tu vai là, noi restiamo qua. Se preferisci così va bene anche per noi. Saranno un po’ più soli, ma almeno sanno che quando verrà il momento avrò il sorriso sulle labbra.
Mi guarda un po’ scettico e posso benissimo capire che è molto più cosciente di me delle nostre debolezze
– Il sorriso sulle labbra? Sei sicuro che non piangerai?
Abbasso il capo.
– Piangere, ridere, che differenza fa? Tentiamo almeno d’illuderci.
Guarda l’orologio e si alza.
– Sono già le 3, bisogna andare. Gli altri saranno già tutti là.
– Non aspettiamo nessuno?
– No, ci troviamo là. Ognuno per conto suo, oggi.
Raccolgo il disco, lui prende il suo, e usciamo. Chiude adagio la porta, cercando di non farsi sentire. Ma so che suo padre e sua madre lo guarderanno in ogni modo, perché è un momento troppo importante per loro, per non viverlo come va vissuto. Non si ripeterà.
Il sole splende troppo forte, fa male agli occhi. Che ironia! Perché non piove? Perché la natura non partecipa ai sentimenti dell’uomo? Sì, ci mancherebbe altro! Se ne fregano, loro, di noi, vivono la loro vita senza darci grande importanza. Ma questa volta si accorgeranno di noi, oh se se ne accorgeranno! Quell’uccello, ad esempio, che canta sul melo…
***
Sembra tutto normale, ma non è vero. C’è qualcosa di assurdo, di insensato, di folle.
Sangue. Sangue sui gradini della scala. E il portone alle nostre spalle non è mai stato chiuso, si è aperto senza bisogno del comando elettrico. Questo è strano.
Gigi, lo vedo con la coda dell’occhio, sta seguendo il filo di sangue che sparisce dalla nostra vista oltre il primo pianerottolo. Poi corre su, verso questo sangue di altri, e lo vedo tornare con un’espressione di paura negli occhi. Mi afferra per il braccio.
– Prendiamo l’ascensore, per piacere. Non voglio – deglutisce – non voglio rivederlo. Si è tagliato le vene, così, zac! come se non gli importasse niente di tutto il dolore… Oh, è tremendo!
L’ascensore arriva e saliamo. Vorrei non parlare più della cosa ma lui continua. Lo lascio fare, è evidente che è molto meglio per lui sfogarsi che tenere dentro tutto ciò che prova.
– Era… Era il portinaio. Era là sulle scale, disteso, e gemeva in modo orrendo, con il sangue che gli usciva dalle ferite ai polsi e dalla bocca… Oh sì, vomitava il suo sangue, mio Dio. Ed era vivo, capisci? Vivo. Soffriva tutto, capiva, si torceva per il dolore, e io non ho potuto ammazzarlo perché non sapevo come fare…
Mi guarda fisso.
– Vittorio, credi che abbiano detto la verità?
Ricordo i caratteri cubitali del giornale del mattino, i titoloni in prima pagina, e mi chiedo se è possibile che abbiano montato tutto.
– Gigi, di certo non hanno scherzato. Non potevano provocare tutto questo solo per vendere qualche migliaio di copie in più. Non è possibile che qualcuno…
Siamo arrivati. La solita, strana sensazione d’un balzo e l’ascensore si ferma.
Usciamo, chiudendo con cura le porte dietro di noi.
– Anche per questo è l’ultima volta, – gli dico. – Ricordalo.
Annuisce, con aria stanca. Incredibile come sia diventato così triste e pensoso in un solo giorno. Fino a ieri era il tipo di ragazzo capace di dirti: “Il gatto che non ha mele non è agricoltore” e lasciarti poi lì, andandosene senza neppure ricordarsi di quello che aveva detto. Adesso eccolo lì, pallido, incapace di ridere, di dire qualche fesseria…questo forse è l’orrore peggiore, più orrendo anche della morte.
Nell’aria c’è il sapore della morte. Lo avverto io, lo avverte Gigi, e non riusciamo a scacciarlo. Ci ossessiona da quando siamo usciti da casa, ci segue con perfida malizia, senza darci tregua. Ci mancava anche questo.
– Per favore, suona. Non riesco più a resistere qui. Voglio vedere gli altri… Suona! Suona!
– Non ce n’è bisogno. Paolo ci ha sentiti e viene ad aprirci da solo. Sulle labbra si è spento il suo solito sorriso, gli occhi sono meno vivi del solito. Hanno fatto questo anche a lui, sempre così allegro…
Ci ringrazia dei dischi e ci fa entrare.
– Ci sono già tutti? – gli chiedo.
Fa un cenno d’assenso.
– Sì, tutti. Siete gli ultimi, ma non preoccupatevi, tanto…
E già, tanto cosa c’è da preoccuparsi?
Sono seduti come a solito, da una parte i ragazzi, dall’altra le ragazze, quasi timorosi di mischiarsi subito. Aspettano che l’atmosfera si riscaldi, che la musica e le chiacchiere portino quella comunanza, quel gaio senso di cameratismo che finisce col trascinare tutti.
Do uno sguardo in giro, saluto e mi avvicino con Gigi a Ettore.
– Ohé, salve. Come va?
Non ha mai scherzato, Ettore, non scherzerà neppure adesso. Infatti alza gli occhi e mi fissa.
– Vittorio, per carità, non cominciare così. Non cominciare dalla parte sbagliata, come sempre.
Fa un ampio gesto con la mano.
– Li vedi? Separati dalla barriera del sesso. Ti sei mai domandato perché? Io sì, molte volte, e la risposta è tremenda: non si comprendono. Ognuno di loro ha un proprio mondo a parte, e non tenta minimamente di capire quello degli altri, come se non avesse importanza. Ma ne ha, maledizione se ne ha!
– A tutte le feste siamo sempre rimasti più di un’ora separati come lo siamo adesso, chiacchierando tra di noi e lasciando che le ragazze chiacchierino tra di loro. Ti sembra giusto questo?No, maledizione, non è giusto.
– Perché non capirci? Perché non tentare? Proviamo, no, cosa ci costa? Pensi che loro non vogliano essere capite? Ebbene, è proprio quello che farò oggi. Ho scelto una di loro, e la farò ballare subito, fin da adesso, e accidenti riuscirò a capirla, dovessi farle un milione di domande. Sarà meraviglioso, lo so, qualunque cosa tu o un altro ne possiate pensare.
Beve tutta d’un fiato la sua birra e si alza. Prima di sparire definitivamente in mezzo alla marea di teste femminili si volta e mi consiglia: – Dai retta a me, se hai un briciolo d’intelligenza è l’unica cosa saggia che tu possa fare oggi.
Mi volto verso Armando, il quale sta sogghignando da un po’.
– Cos’hai? – gli chiedo. – Non credi a quello che ha detto Ettore?
Mi guarda con ironia.
– Quello? Ah, è picchiato, dà retta a me. Ma vuoi cacciarti in una buriana simile proprio oggi? Neanche fossi scemo! Capire le donne, puah! Ascolta questa, piuttosto, anche se è un po’ debole: sai cos’è il diabete?
– Se non erro, è una malattia.
Ride.
– No, no. È il dialbero di Natale.
Mi viene proprio da scuotere la testa.
– Guarda che è più scema questa dei ragionamenti di Ettore, se non te n’eri accorto.
Se ne va con un’aria un po’ scocciata, brandendo il suo bicchiere come fosse un’arma. Sembra non capisca affatto che oggi non è un giorno come gli altri. Cosa diavolo ha sempre in testa quel tipo?
Resto solo con i miei pensieri. Questo è il guaio: penso sempre troppo, e oggi non dovrei pensare a nulla. Ma come si fa? Come si fa…?
Poi sento la musica. Dannazione, non riesco a riconoscere di che canzone si tratti. Come sono rimasto indietro! Ho perso tutto il mio tempo inseguendo sogni da due soldi, senza accorgermi della vita che scorre senza sosta e lascia indietro chi non la sa afferrare. Mi riconosco tutto d’un tratto, e non posso che pensare che sono stato un grande idiota a lasciar perdere tutto quanto. Le ragazze, i soldi, tutto il resto… Dio, quante cose avrei potuto fare! Ma forse c’è ancora tempo. Poco, sì, solo un pomeriggio, ma posso fare molto.
Ballano tutti. Soltanto io sono rimasto seduto, e forse è passato molto più tempo di quanto credessi. La musica, me ne accorgo con stupore, è sempre la stessa, lenta, calda, sensuale. Non è un caso, no, dannazione: Paolo ci sa fare, ha predisposto tutto.
Il disco si ferma, e già qualcuno lo sta rimettendo. Vedo che Elena, l’unica che abbia saputo suscitare in me qualcosa di simile all’affetto, si sta sedendo.”Senti,” mi dico, “fa come ha detto Ettore. Prendila per te, oggi, falla sempre ballare, cerca di capirla. È l’ultima volta, proprio l’ultima.“
Mi avvicino, le chiedo se vuol ballare, e lei risponde di sì, e mentre cominciamo capisco che anche lei lo vuole, e allora parlo, parlo, e non la smetto più.
Elena, ascolta. Prima, parlando con Ettore, mi diceva…
***
È finita. Il tempo è passato implacabile, è scesa la sera, e resta solo il ricordo di tutto. Abbiamo ballato sempre, io e lei, e sono riuscito a farle dire che mi capisce, che ci capiamo. Tanto mi basta.
Tutti hanno ballato, e tutti hanno fatto lo stesso, ne sono sicuro. Non può essere altrimenti.
Sono le 8 meno 5. Il sole non si vede più, e la stanza è solo ombra, perché nessuno s’è preoccupato di spegnere la luce.
Siamo tornati soli. Ognuno di noi è seduto, e le stelle sono così tremendamente distanti l’una dall’altra, e nessuno vuole più valicare lo spazio che ci separa. Il dialogo s’è interrotto, siamo gli stessi di prima, freddi estranei che s’ignorano a vicenda. neanche Gigi mi dice nulla: tace, forse piange, non riesco a vedere bene.
– Bene, – dice qualcuno, e mi pare che sia Paolo, – finisce qui, ragazzi. Ora. Mi spiace. Se avessero avuto un po’ più di buon senso, quei tali…
Tace. Non c’è bisogno di dire nulla. Tutti sappiamo.
Ecco, mancano 30 secondi. Corriamo verso le finestre, e restiamo a guardare fuori, finché laggiù, lontano, con un rumore di tuono, scoppia la bomba. Riempie del suo doloroso splendore la stanza buia, e negli occhi ormai ciechi per sempre resta l’immagine dei mille soli della morte. Un dolore atroce ci attanaglia le pupille, e non riusciamo più a vedere, a chiudere gli occhi. Ciechi. Che importanza ha? Tra poco verrà la morte. Eravamo troppo vicini alla zona di esplosione. Le radiazioni non perdonano. Ma qui o là, che differenza fa? Non le hanno forse buttato dappertutto le bombe? Non hanno forse deciso di farla finita col mondo e con gli uomini?
– Questo, dunque, hanno provato a Hiroshima? – grida qualcuno, e poi scoppia a piangere senza ritegno. Forse perché si sente troppo solo, e non capisce che è morto ballando, mentre gli altri sono rimasti in casa, o si sono uccisi da soli, molto più soli di noi…
E poi, io non sono solo. Una mano, la mano di Elena, ha trovato la mia, la stringe, mentre le mie labbra si poggiano sulle sue, e gli occhi mi ridanno l’immagine radiosa del suo volto, e scompaiono i freddi bagliori della bomba, e penso che può andare al diavolo tutto, anche la morte, se lei è con me, e muoio, muoio…
Vittorio Curtoni
Vittorio Curtoni
Entrò nel mondo della fantascienza italiana giovanissimo, collaborando ad alcune delle prime fanzine italiane assieme a Luigi Naviglio, inizialmente suo mentore. Come scrittore si concentrò soprattutto su racconti, esordendo su una pubblicazione professionale nel 1966, con il racconto "Danzate, morituri!" sulla rivista romana Oltre il Cielo. Nei suoi ultimi anni diresse la nuova versione di "Robot," che aveva ripreso le pubblicazioni nel 2003, per la quale Curtoni ricevette il premio europeo del "Grand Prix de l'Imaginaire 2006." Nel 2011, l'anno della sua scomparsa, pubblicò la sua ultima antologia, "Bianco su nero e altre storie" (ed. Delos)
Bellissimo ripescaggio, grazie Marie,,, Un bellissimo ricordo e un caro omaggio ad un grande amico che come dice Vanni resterà per sempre nei nostri cuori!