Il meraviglioso viaggio di Cecil su Titano
La navicella era come una lama di luce. Avanzava placida ma costante in un paesaggio di gradazioni di nero, rese gialle quando i fari della navicella li toccavano.
Quel mezzo volante aveva la forma di un cilindro allungato, incurvato alle estremità. Sul davanti c’era una protuberanza che sovrastava la curva della parte inferiore. Sembrava davvero la lama di un coltello, vista di fianco.
Cecil, il suo unico abitante, in realtà non aveva bisogno di quelle luci per guidare. Il suo tragitto era già stato prefissato. La velocità della Kuiper era stata calibrata apposta per evitare ostacoli già previsti. Il sistema informatico di bordo era adiabatico, vale a dire che disponeva di molti computer, ognuno specializzato in una funzione, alla quale dedicava tutta la sua potenza valutando in contemporanea e ad altissima velocità tutte le opzioni possibili. Alla fine, cioè quasi subito, sceglieva la migliore.
Cecil comunque poteva godersi lo spettacolo, tetro ma grandioso, che gli offriva il paesaggio di Titano. Seduto in quella cupola che faceva anche da torretta di osservazione, vedeva il lago sotto di sé, nero e calmo. La sensibilità del suo apparato visivo gli permetteva di notare le increspature su una superficie scura e quasi immobile: quei minuscoli movimenti sarebbero stati impercettibili ad un occhio umano. Quello non era un lago d’acqua, ma dalle sue lente onde di etano e metano scaturivano barbagli e scintillii che duravano qualche secondo in più rispetto ai luccichii dei laghi e dei mari terrestri illuminati dal sole.
Cecil fece planare la Kuiper fin quasi a rasentare il lago. L’attrito dato dallo scafo sembrò tagliare la superficie del lago, movimentandola molto. Cecil amava quella visione, consapevole di aver creato un fenomeno altrimenti impossibile in quell’atmosfera così rarefatta. Pregustò il momento successivo, spense le luci, poi s’immerse.
Il nero lo avvolse. Non un nero assoluto – Cecil poteva coglierne le gradazioni – ma proprio per questo un’esperienza che lo affascinava. Gli ologrammi che scaturivano dai monitor e generati dai sensori lo tenevano aggiornato su quello che lo circondava.
Cecil esaminò i riflessi del magma liquido attorno a sé. Si gustò la sua densità vischiosa, i riflessi più o meno scuri. Poi accese di colpo tutti i fari. Quello di spegnere i fari prima dell’immersione e di riaccenderli subito dopo era un rito che compiva ogni volta.
All’inizio ciò che si spalancò davanti a lui fu molto simile a un qualunque ambito sottomarino terrestre. Solo senza alghe o pesci. E Cecil era venuto proprio per cercarli.
***
Cecil era un esperimento. Anzi era parte di un sistema sperimentale. Il sistema in questione, chiamato Prisma, aveva la funzione di visitare Titano, la prima luna di Saturno, raccogliere quanti più dati possibile, e soprattutto rispondere a tre domande: ci sono forme di vita? In che modo un essere umano può adattarsi a una permanenza su Titano? Sono sfruttabili su larga scala le sue riserve di idrocarburi?
Così era stata inviata una base orbitante intorno al satellite, la Christiaan. Da lì era partita la Kuiper. Il suo sistema adiabatico era a sua volta sperimentale, in quanto mai prima d’ora un compito di tale responsabilità e portata era stato affidato a un tale sistema senza la supervisione di un sistema digitale tradizionale.
Cecil era un esperimento in quanto era un prototipo di androide che accumulava diverse funzioni. Il suo aspetto era quello di un uomo sui trent’anni, moro, occhi azzurri, alto 2 metri, con spalle larghe e massicce, un viso attraente ma comune, alla Cary Grant. Il suo cervello era un miracolo di microingegneria genetica. Le sue capacità di immagazzinamento e discernimento dati erano impensabili per un normale cervello umano. E infatti era stato pensato per dare una prima organizzazione ai dati raccolti prima di inviarli alla Christiaan.
Le sue capacità fisiologiche non erano meno sorprendenti di quelle cerebrali. Per vagliare le diverse possibilità, Cecil era stato dotato di un sistema respiratorio e di uno cardiovascolare che potevano mutare ed adattarsi sia ad un’atmosfera a ossigeno come quella terrestre, che a una a metano, come quella titaniana. I suoi ingegneri genetici ne erano particolarmente orgogliosi. Non sapevano però con quanta frequenza e con quali conseguenze era possibile un simile scambio di funzioni. Cecil, forse a sue spese, doveva scoprire anche questo.
La Christiaan s’era fermata nel sistema di Saturno un mese terrestre prima. Cecil era stato disibernato e “attivato” nel giro di una settimana. Un’altra settimana era servita alla verifica di tutte le sue funzioni e programmazioni. Poi la Kuiper era partita per il polo nord di Titano. Era atterrata sulla vallata prospiciente al lago Kraken, il più vasto lago della luna, il principale luogo delle indagini di Cecil.
Dei suoi tre campi di ricerca quello riguardante le forme di vita era quello che più lo affascinava. Sì, perché in Cecil era stata inserita un’altra attività sperimentale: nel suo cervello erano stati incubati i germi di sentimenti umani quali la curiosità, lo spirito di autoconservazione, e qualcosa di simile alla suggestione romantica per la natura. Si voleva capire in che modo uno sfaccettato animo umano avrebbe reagito ad un ambiente extraterrestre.
***
La melassa oleosa che circondava la Kuiper aveva una consistenza simile all’acqua, e anche un aspetto simile, illuminata com’era. Ogni capacità sensoria della navicella o del suo conducente era aperta al massimo per captare la minima attività organica o biologica. Ma niente.
La cosa non avrebbe dovuto essere deludente più di tanto – gli scienziati avevano poche speranze di trovare forme di vita nella superficie di Titano, liquida o solida. Ma erano molto più fiduciosi che ce ne fossero nelle profondità.
Lì era possibile trovare abbondanza di acetilene e ammoniaca, che, miste agli idrocarburi, avrebbero potuto dare forme di vita basate sul metano invece che sul carbonio, che invece è il mattone della vita terrestre. In quei pochi giorni il germe della curiosità nel cervello di Cecil aveva dato vita a quella speranza anche in Cecil. Quel giorno si era tramutata in qualcosa di simile all’aspirazione.
Cecil doveva scendere sempre più in basso – faceva parte del progetto sin dall’inizio – ma ora Cecil ardeva dal desiderio di bruciare i tempi. Quel giorno sarebbe dovuto scendere fino a 100 metri di profondità. Lo scafo del Kuiper era progettato per resistere alle pressioni più forti, ma gli ideatori di Cecil volevano che la discesa fosse graduale e con una tabella precisa. Quel giorno Cecil avrebbe volentieri sfidato la tabella di discesa per spingersi… non sapeva neanche lui fino a quanto: solo scendere.
Intorno e dentro di lui i dati si accumulavano. Profondità, pressione esterna, composizione chimica del liquido, rilevazione di ostacoli: ogni computer lavorava a pieno regime, elaborando dati e dando responsi numerici. Solo un computer, pur lavorando quanto gli altri, consegnava sempre lo stesso risultato: 0,00. Il computer adibito alla rilevazione di attività biologica non rilevava un bel niente.
Cecil decise di dare attenzione alla profondità, cosa che illogicamente non aveva ancora fatto. 104 metri. Rallentò la velocità di discesa, già bassa.
Cecil aveva spostato l’illuminazione intensa con cui aveva iniziato il tuffo su una gradazione più soffusa, sia per mantenere il più possibile la “luce” (se così si poteva chiamare) naturale, sia per non spaventare o irritare eventuali forme di vita… delle quali però non c’era alcun sentore, né alla sua vista, né nel computer.
Comunque, lo spettacolo delle volute oleose del liquido gli riservava continue sorprese. Quelle microvariazioni fra il grigio scuro e il nero pece non sembravano monotone alla sua ipersensibilità ed erano anzi una conferma visiva ai micromutamenti chimici rilevati dall’apparecchiatura. E gli davano continuo piacere.
Gli idrocarburi miscelandosi formavano serpenti sinuosi che ora si allargavano, ora si restringevano, iniziavano danze ora lente e ammiccanti, ora frenetiche e impetuose. Creavano forme mai stabili, si arricciavano e si riallineavano. Si univano in macchie dense, poi si rilasciavano in filamenti tenui. Come amanti irrequieti, sentenziò Cecil, scovando quella definizione nel suo database poetico. I suoi creatori avevano fornito la sua memoria anche di una vera e propria biblioteca, composta di classici della letteratura, della poesia, dello studio scientifico. Libri che Cecil non aveva mai davvero letto, ma che conosceva a memoria, per grazia biogenetica.
Di tanto in tanto le su esperienze gli richiamavano ora questo, ora quell’episodio libresco, ed agivano sulla sua personalità: era quello che volevano i suoi ideatori, per studiarne gli effetti.
Cecil controllò la profondità: 112 metri. Decise di risalire.
***
«I dati che ci mandi sono sempre molto interessanti, Cecil.»
Cecil sorrise. Gli piaceva parlare con Osvaldo. «I dati relativi al Kraken stanno entusiasmando i geologi. Il metano sembra di ottima qualità. Dicono che se si riuscisse a trasportarlo sulla Terra, sarebbe un’ottima fonte energetica per i viaggi all’interno del sistema solare.»
Quest’ultima affermazione non sorprese Cecil. Infatti, riforniva la Kuiper proprio con i liquidi del Kraken. Nel 2072 la Terra non usava più i carburanti fossili per i propri fabbisogni quotidiani, ma non aveva trovato di meglio per i viaggi spaziali.
Negli abbozzi di sentimenti che si andavano formando in Cecil, Osvaldo era qualcosa di simile a un abbozzo di padre. Osvaldo, infatti, era il direttore della squadra di genetisti, robotici e informatici che lo avevano progettato e realizzato. Come un genitore, lo aveva seguito nei suoi primi approcci alla vita, aveva soddisfatto le sue prime forme di curiosità, lo aveva addestrato ai suoi compiti. E ogni giorno conversava con Cecil via Skype dalla Christiaan.
Cecil era compiaciuto di queste conversazioni.
Ci teneva ai complimenti di Osvaldo. Non aveva mai deluso nessuno, e nessuno lo aveva mai deluso, ma sapeva che la delusione era una gran brutta cosa. Infatti, i suoi progettisti gli avevano inculcato questa consapevolezza, come deterrente alla disubbidienza, qualora lo sviluppo dei sentimenti lo avesse spinto anche all’orgoglio e alla ribellione.
Cecil non doveva disobbedire, se no avrebbe causato in loro la gran brutta delusione. Al contrario, Osvaldo si era sempre mostrato caloroso con Cecil, prodigo di complimenti. Tutte cose che spingevano Cecil ad aspettare quei colloqui. Ma c’era una cosa che voleva dirgli.
«Non ho ancora trovato segni di vita.» Ecco glielo aveva detto.
«Non devi preoccuparti per questo,» rispose Osvaldo. «Tu devi continuare le tue ispezioni come da programma. Se troverai la vita bene, se no pazienza.»
Non era esattamente questa la risposta che Cecil si aspettava.
«È per questo che ieri sei sceso a 112 metri?» chiese Osvaldo. La trasmissione di dati dalla Kuiper alla Christiaan richiedeva tempo, e così i commenti di Osvaldo erano sempre sui fatti del giorno prima.
Cecil ebbe la cosa più simile a un tuffo al cuore che avrebbe potuto avere. Preso dall’ansia di immergersi non aveva pensato che sarebbero stati letti anche i dati di profondità.
«Volevi vedere se scendendo avresti trovato qualche traccia di vita, vero?» Cecil lo ammise, non poteva fare altro. «Devi seguire il piano di discesa stabilito, lo sai. Noi dobbiamo verificare i dati man mano. Possono esserci pericoli imprevisti. O scoperte che richiedano un cambio di programma. Ma dobbiamo avere tempo per stabilirlo. Per questo la gradualità è fondamentale. Stavolta non ci sono stati danni, ma la prossima? Non prendere mai più iniziative del genere, Cecil.»
Il tono di Osvaldo non era aspro, mostrava condiscendenza, ma il rimprovero era evidente. Era questa la delusione? Sì, Cecil lo sentiva. «Mi garantisci che non derogherai più dal programma, Cecil?»
Dopo qualche secondo, l’androide rispose: «Sì, Osvaldo. Seguirò sempre il programma.»
***
Cecil procedeva con andatura pacata, ma non goffa, con passi lenti ben ritmati e costanti. La sua figura rossa sembrava una fiamma, circondata dal buio del cielo e dal biancore della montagna. L’androide stava risalendo lentamente il costone di uno dei monti di ghiaccio che fiancheggiavano la riva nord del Kraken. La Kuiper era atterrata a mezzo chilometro di distanza, al limite del deserto roccioso che si slanciava a perdita d’occhio.
Stavolta stava seguendo il programma. Infatti, la scalata di quelle montagne ci rientrava in pieno. Cecil doveva salire il più in alto possibile – ma gradatamente – e in tutte le direzioni, raccogliere dei campioni e segnalare qualunque ritrovamento fosse secondo lui degno di nota. I suoi programmatori non si affidavano solo ai computer, volevano qualcosa che fosse simile al “tocco umano”.
La tuta scarlatta che lo avvolgeva aveva il compito di proteggerlo dal gelo di Titano, dalla sua atmosfera di azoto e da eventuali piogge di metano. Infatti, mentre l’acqua su Titano è presente solo in forma ghiacciata e in raggruppamenti giganteschi, il metano evapora dai laghi, forma l’equivalente del vapore acqueo e ritorna in forma di pioggia nera.
Un’altra funzione della tuta era compensare le conseguenze della gravità, che su Titano è un ottavo di quella terrestre. Grazie a un sofisticato sistema di pressione interno, Cecil poteva muoversi con sufficiente agilità.
Portava anche un casco a ossigeno, ma a un certo punto decise di toglierlo, per verificare quanto il suo organismo fosse capace di adattarsi all’atmosfera di Titano. Quei tentativi facevano parte del programma, del resto.
Il sistema di riscaldamento della tuta irrorava la testa di Cecil anche senza il casco, impedendole così di congelare a una temperatura che altrimenti sarebbe stata letale (o meglio, “irrimediabilmente dannosa”) anche per lui. I bio-ingegneri, infatti, se da una parte avevano tentato di risolvere il problema della respirazione, dall’altra parte non erano ancora stati in grado di creare una biologia capace di resistere a quel gelo infernale.
Cecil si fermò a guardare il cielo buio a occhi nudi in cerca di eventuali mutamenti del tempo. Dal giorno del suo arrivo non aveva ancora visto piovere, per cui se l’aspettava da un momento all’altro.
Il cielo non era molto più chiaro delle profondità, ma presentava una simile varietà di gradazioni, un’altra fonte di delizia per la vista di Cecil. Però sapeva solo in astratto quali fossero le avvisaglie della pioggia, non avendola mai sperimentata.
Si soffermò a guardare più a lungo del solito. Quello che vedeva era un addensamento di nuvole insolito. Pioggia in arrivo?
Abbassando lo sguardo, vide qualcosa che attrasse subito la sua attenzione. Gli sembrò di intravvedere una piccola figura rossastra, delle dimensioni di una vespa. Aguzzando la vista non ebbe dubbi. Era a una decina di centimetri di profondità, ma la limpidezza del ghiaccio – e le sue capacità visive – non lasciavano dubbi sulla sua presenza.
Cecil tolse da una delle capaci e munite tasche della tuta una piccola picozza, tenendola saldamente per non farla volare, poi cominciò a scalfire la superficie di ghiaccio. Era davvero densa e compatta. Cecil picchiò il ghiaccio con sempre maggiore energia. Non era un’impresa tanto facile.
Cecil era arrivato a 2 cm dal suo obiettivo quando vide una macchiolina nera sporcare il piccolo cratere che aveva scavato. Poi un’altra. Guardò in su. Le gocce nere scendevano una dopo l’altra, sempre più fitte. Il buco si sarebbe allagato.
Non ci aveva pensato prima di cominciare quel lavoro. Sì, per un attimo ci aveva pensato, ma non sapendo con sicurezza se sarebbe piovuto aveva deciso di scacciare quel pensiero… tale era stato il desiderio di catturare quella vespa rossa. Ancora una volta la curiosità aveva prevalso sulla prudenza.
Si rimise il casco, poi estrasse una minitenda gonfiabile da un’altra tasca, pensata apposta per proteggere da piogge improvvise, non tanto Cecil, ma eventuali scoperte preziose.
L’androide l’azionò ed essa si aprì in pochi secondi, piazzata sopra quella buca. Cecil avrebbe potuto rannicchiarsi dentro, o tornare alla navicella, ma preferì stare all’aperto, voleva sentire la pioggia su di sé, vederla scorrere sul visore. Sapeva quanto la pioggia emozionasse glia animi umani… quella Lady Chatterley, ad esempio, che danza nuda nel bosco sotto un acquazzone, dopo aver incontrato il suo amante… Cecil guardò in alto. La pioggia s’infittiva, gocce sempre più grosse e pesanti. Un cielo sempre più buio, la sua tuta sempre più nera… come la sua visiera. Anche il suo spettro visivo si andava scurendo.
Ora lo scenario davanti a lui era composto dalle striature di metano che colavano davanti ai suoi occhi. Il liquido di quelle piccole scie aveva una consistenza diversa rispetto a quello del lago. Altrettanto mutevole, ma più simile a una rete cristallina, formava geometrie molto più precise, meno sinuose. Ma sempre più fitte.
La visuale di Cecil a un certo punto fu del tutto occupata da quelle griglie iridescenti. E così tutta la sua capacità percettiva, rapita da quel caleidoscopio di linee che si univano e si incrociavano senza sosta, costruendo formazioni che si disfacevano e si riformavano diverse e sempre più numerose. Un affresco astratto ma vivente, sempre più vasto, sempre più vario.
Poi ci fu come un campanello, come il suono di una sirena venuto da qualche parte del suo cervello. Benché attrezzato, non doveva esporsi al maltempo più del necessario: faceva parte della sua programmazione. Sforzandosi di interrompere quello spettacolo, ripulì lo schermo alla meno peggio, poi s’infilò nella tenda. Rannicchiato col mento sulle ginocchia, passò una quindicina di minuti cercando di concentrarsi sulla sua missione e i suoi scopi. Era la seconda volta che si faceva prendere la mano da quella strana fascinazione.
La pioggia continuò ancora per un paio di minuti. Finì repentina com’era cominciata.
Cecil richiuse la tenda e riprese il suo lavoro. Cesellò con attenzione intorno alla “vespa” e ne estrasse un cubetto di circa 4 cm per lato. Il ghiaccio era nitidissimo e lasciava vedere quella macchia rossastra con grande precisione. Visto così sembrava più un minuscolo uovo, con dei corti filamenti.
Cecil si chiese se quello che provava fosse l’equivalente dell’emozione della scoperta. Galileo s’era sentito così quando aveva scoperto il moto dei pianeti? Cos’aveva provato Schiaparelli vedendo per la prima volta i canali di Marte? Che fosse una forma di vita intrappolata nel ghiaccio milioni di anni prima?
***
Seguendo la procedura prevista per i campioni di ghiaccio, Cecil aveva rinchiuso il cubetto in uno speciale contenitore termico, provvisto di un computer, ovviamente adiabatico, che ne esaminava la composizione. Ma stavolta Cecil non aveva accesso alle sue rilevazioni. I dati elaborati da quella macchina venivano inviati direttamente alla Christiaan, bypassando l’androide. La squadra di Osvaldo li avrebbe valutati e avrebbe deciso se e quali informazioni riferire a Cecil.
E Cecil, davanti allo schermo, fremeva in attesa del collegamento con Osvaldo, che sarebbe dovuto iniziare fra pochi minuti.
Quando vide apparire il volto sorridente di Osvaldo, Cecil non si trattenne. Come un bambino impaziente saltò i saluti: «Osvaldo, cosa c’è in quel cubetto di ghiaccio?»
Osvaldo non nascose il suo stupore. «Cecil, non ti riconosco.»
«Rispondimi, ti prego. Cos’è quella macchia rossa?»
«La curiosità è una grande qualità in uno scienziato, ma non deve avere la meglio sulla freddezza dell’analisi e sul rigore del metodo,» replicò Osvaldo con un sorriso condiscendente. «Comunque, Cecil, le analisi sono ancora all’inizio. Finora abbiamo scoperto solo l’acqua che la circonda. Purissima H2O in forma solida.»
«E cosa pensate che sia quella cosa rossa. Sembra un insetto. Potrebbe essere una forma di vita?»
Osvaldo ridacchiò benevolo. «Capisco la tua ansia, Cecil, ma è ancora presto per dirlo. Le analisi continuano. Ma credo che dovremo scongelarlo per esaminarlo come si deve. Forse potremo farlo solo una volta tornati sulla Terra, per esser sicuri di non danneggiarla. Le abbiamo dato un nome: Margherita.»
***
Cecil camminava senza sosta per la sala della navicella. Si torceva le mani, parlava da solo. Non aveva mai provato una simile agitazione.
Si trovava in mezzo a una tempesta dopo quel colloquio con Osvaldo. Una sequenza fulminea di sensazioni per lui del tutto nuove, inspiegabili, senza nome. Un uomo l’avrebbe chiamato un misto di rabbia, incredulità, amarezza. Sentiva che lo scienziato gli aveva mentito. Gli aveva detto qualcosa di diverso dalla realtà. Insomma, una cosiddetta bugia.
Cecil ne sarebbe stato incapace. Non aveva nessuna prova concreta per affermarlo. La storia raccontata da Osvaldo era plausibile. Ma Cecil sentiva che non era vera. Cosa lo rendeva così certo? Ripensandoci a lungo, dal fumo della sua rabbia emerse la ragione. Osvaldo era stato diverso dal solito. Le risposte non erano dirette, chiare. Sembrava più propenso a non rispondere che a rispondere. Le altre volte Osvaldo aveva sempre soddisfatto la curiosità di Cecil, stavolta l’aveva elusa.
Col tempo Cecil si calmò. Ora però sapeva cos’è la delusione.
Tornò a guardare il freezer dove era rinchiusa Margherita. Lasciò andare il flusso dei suoi pensieri. E se lo avesse tolto da lì per esaminarlo di persona? Il rischio di danneggiarla era forte, certo, su questo Osvaldo aveva ragione. Per non parlare di quanto grave sarebbe stata una simile disubbidienza.
Ma ora che aveva provato la delusione non si sentiva così in colpa nel causarla. Poi un principio di rimorso comunque sorse in lui. Si rese conto che il sentimento che stava prevalendo in lui su ogni altro, incluse la prudenza e la responsabilità, era la curiosità.
Un’ottima qualità, gli aveva detto Osvaldo. Ma secondaria rispetto ad altre… Per quanto si sforzasse di ragionare, la mente semi-artificiale di Cecil tornava come una spirale su Margherita: era una forma di vita o no? Doveva scoprirlo.
Cosa fanno gli uomini quando devono riflettere e tranquillizzarsi? Vanno a passeggio, prendono una boccata d’aria fresca. Di frescura ce n’era eccome su Titano.
***
La camminata lenta e regolare di Cecil lo portò davanti alla montagna dove aveva scoperto Margherita. No, avrebbe alimentato la sua ossessione invece che placarla. La oltrepassò e arrivò al deserto.
Il suo orizzonte era talmente piatto da annoiare persino un essere sensibile alle minime differenze come Cecil, ma avrebbe potuto consolarsi ammirando la varietà delle pietre e pietruzze che costellavano la sua sabbia arancione. Il cielo non mostrava nuvolaglie particolari, quindi Cecil non s’aspettava pioggia. Nemmeno la contemplazione delle gocce lo avrebbe aiutato. Quindi si tolse il casco ed entrò nella landa.
Ma Cecil non badò molto ai sassi, né alla sabbia che, calpestata, si alzava con grande lentezza, avvolgeva gli stivali in nuvolette vaporose e poi ricadeva, quieta, senza fretta.
Si sforzò di analizzare la questione dal punto di vista scientifico. La vita su Titano, forse era ancora presente, forse si era estinta. In ambo i casi aveva senz’altro avuto bisogno di mattoni diversi da quelli della vita terrestre per costituirsi e svilupparsi: metano, azoto, acetilene invece di carbonio, ossigeno, ferro. L’acetilene non si trovava in superficie, ma era probabile che si trovasse nelle profondità dei laghi. Per questo erano state programmate le immersioni nel Kraken. Le – eventuali – specie viventi avrebbero quindi dovuto essere qualcosa di simile ai pesci o ai molluschi.
Se Margherita è un fossile, come è finito nel ghiaccio di superficie? Era solo una delle domande conficcate nel cervello di Cecil. Ma è un fossile? Se fosse solo un minerale, o qualcosa del genere?
Dopo aver percorso circa 2 chilometri, l’androide si girò, guardando la strada che aveva percorso. Le sue orme erano ben visibili. Si chiese se rifarle all’indietro o se tornare alla navicella per una via più tortuosa.
Alla fine, ripercorse i propri passi, in linea quasi retta, ma quando si ritrovò davanti alla Kuiper si pentì di quella scelta, senza sapere neanche lui perché. Nel frattempo, aveva deciso di fare l’impensabile.
***
La scansione di Margherita era finita. I sensori avevano smesso di elaborare dati ed erano spenti. Cecil sapeva cosa doveva fare. Una luce rossa avvisava l’androide che toccava a lui ora.
Indossando una tuta pensata per proteggere i reperti piuttosto che l’operatore, Cecil avviò la procedura per aprire la tenuta stagna del frigorifero. Un sibilo profondo precedette di pochi secondi il lento dischiudersi del portello, composto da due valve. La condensa gelida ne fuoruscì, sempre più fitta, fino a coprire la visuale della cella. Poi a poco a poco svanì, e rivelò il cubetto di ghiaccio, con il suo prigioniero ben visibile. Nel frattempo, era infatti emerso automaticamente, sorretto dal supporto a stelo che lo aveva mantenuto collegato ai sensori durante l’esame.
Cecil allungò la mano guantata per prenderlo. Come un lampo gli balenò la consapevolezza di quello che stava per fare. Poi proprio quella consapevolezza lo spinse a continuare. Con una delicatezza che sfiorava la devozione, prese il reperto tra il pollice e l’indice destri e lo staccò.
***
Il bozzolo di ghiaccio s’era ridotto della metà ormai.
Tre ore prima Cecil l’aveva appoggiato dentro una bacinella, per poi portarla nella sala che fungeva da alloggio e mensa, appoggiata sul tavolo su cui Cecil consumava i suoi frugali ma energetici e ben calibrati pasti. Il mangiare per lui era il semplice compimento di una necessità chimico-biologica. Ogni suo cibo era studiato e bilanciato in ogni grammo e componente per soddisfare i bisogni del suo apparato semi-artificiale.
Osvaldo gli aveva promesso che un giorno gli sarebbe stato somministrato il gusto del cibo, e magari anche un programma di arte culinaria… ma a suo tempo, adesso Cecil doveva preoccuparsi solo del buon svolgimento della sua missione.
In quel momento il buon esito della missione era l’ultimo pensiero di Cecil.
In quelle ultime tre ore aveva osservato, con una certa emozione, l’apparizione dell’acqua liquida su Titano, la prima da migliaia, forse milioni di anni. Infatti, alla fine della formazione di Titano, la temperatura era scesa a una media di 179° sottozero, rimasta stabile da allora. L’acqua liquida sul satellite si era così solidificata, per non fondersi mai più. Fino a quel momento.
L’ipersensibilità di Cecil gli consentiva, come al solito, di godere di ogni dettaglio di quello spettacolo così banale sul pianeta Terra. Almeno di questo era grato alla squadra di Osvaldo.
Le prime increspature sulla superficie di quel pugno di ghiaccio, così liscio e compatto non erano sfuggite alla vista di Cecil.
L’ondulazione della prima goccia era stato un soprassalto al cuore dell’esploratore. Un’ennesima, ricchissima novità emotiva. Poi Cecil l’aveva vista scendere con lentezza lungo la sua forma cubica. Acqua pura come pochi esseri umani aveva mai visto o assaggiato, non contaminata da qualsivoglia elemento naturale o artificiale. Cecil, affascinato, ne esaminò lo scintillio, la trasparenza, fino a che non toccò il fondo della bacinella, formando una microscopica pozzanghera.
A quella goccia ne seguirono un’altra, poi un’altra e un’altra, a intervalli sempre più brevi. Cecil avvertì ogni differenza fra l’una e l’altra, nella dimensione, nella velocità, persino nella luminosità. Cecil notò infatti come ognuna perdeva qualcosa della brillantezza iniziale. Solo la loro purezza restava immutata. Ma queste minime differenze accrescevano la fascinazione di Cecil. Solo sulla Terra, forse, le gocce d’acqua sono tutte uguali, non certo su Titano.
La piccola pozza intorno al pezzo di ghiaccio si faceva sempre più vasta: una specie di laghetto intorno a un’isoletta sempre più piccola. E il rosso del suo ospite si faceva sempre più vivido, la sua forma sempre più chiara.
L’attenzione di Cecil ne era sempre semplicemente conquistata. Il rivestimento rosso gli sembrava sempre più rugoso, come una specie di pelle. I filamenti apparivano tutti della stessa lunghezza e piegati più o meno allo stesso angolo… come zampette? Cecil lottava per non farsi sovrastare dalla convinzione che si trattasse sul serio di una specie d’insetto. Non era certo un atteggiamento scientifico lasciarsi andare alle impressioni senza compiere le dovute verifiche… e adesso che sapeva che cosa fosse una delusione non voleva assaggiarne un’altra.
Ma subito si rese conto che, se la sua permanenza su Titano non avesse dimostrato l’esistenza di forme viventi, la delusione sarebbe stata ancor più cocente. Devastante persino. Cecil voleva trovare la vita su Titano, fosse pure estinta.
Di colpo sentì le note che annunciavano l’avvio dello streaming con Osvaldo. Era presto. Sarebbe dovuto cominciare un’ora dopo. Uscì dall’alloggio per andare alla sala comandi.
Dalla consolle comparve lo schermo olografico. Come al solito ci vollero alcuni minuti prima che la sintonia fosse completa. Infine, apparve, sempre più nitida, l’immagine di Osvaldo. Che saltò i preliminari
«Cosa stai facendo, Cecil?» Cecil non rispose. Sentì quello che poi avrebbe riconosciuto come imbarazzo. Cecil non si era seduto, diversamente dal solito, e guardava il suo para-padre con le mani incrociate dietro la schiena, torcendosi le dita. E non rispondeva.
«Sembri un bambino che ha combinato una marachella,» continuò Osvaldo, con un tono tra il sarcastico e l’aggressivo: due caratteristiche che Cecil non aveva mai visto in Osvaldo.
«Non sapevi che i nostri sensori colgono ogni variazione ambientale? E hanno percepito che non solo avevi tolto il reperto di ghiaccio dalla cella, ma che nel tuo alloggio era entrata una fonte di freddo. Poteva essere solo una cosa. I dati ci arrivano in ritardo, ma forse siamo ancora in tempo a salvare Margherita. Metti subito il cubetto nel frigo e poi relaziona sul livello di liquefazione. Subito, Cecil!» Non aveva aspettato un giorno, stavolta.
Quasi meccanicamente, Cecil tornò spedito nel suo alloggio, senza pensare né parlare. Quando si trovò davanti al tavolo si rimise il guanto e fece per prendere il ghiaccio, ma la mano si bloccò. Non voleva rinunciare a quel grumo rossastro, al suo segreto. Ma non poteva ingannare la Christiaan.
Lasciò Margherita dov’era e tornò da Osvaldo, molto più sicuro di sé di quando lo aveva lasciato.
«Osvaldo, non farò quello che mi hai chiesto.» Lo scienziato sgranò gli occhi stupefatto, ma prima che potesse replicare, l’androide continuò. «Lo esaminerò di persona, dopo averlo scongelato. Se è un minerale, non correrà grossi rischi. Se è un organismo, lo ibernerò di nuovo prima che possa subire dei danni.» In realtà nemmeno Cecil era sicuro di quest’ultima affermazione. Ma era deciso a correre il rischio.
Osvaldo divenne paonazzo e cominciò a dire cose che Cecil smise di ascoltare quasi subito. Era stato programmato anche come tecnico riparatore, quindi sapeva come funzionavano le tecnologie di bordo. E sapeva come riparare le malfunzioni. Quindi sapeva anche come causarle. Quello sarebbe stato l’ultimo collegamento di Osvaldo.
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I computer elaboravano dati alla consueta velocità. Margherita veniva scannerizzata in ogni sua componente. Gli ologrammi visualizzavano i dati e Cecil li leggeva, cercando di dar loro un senso.
Non temeva la reazione della Christiaan. Sicuramente qualcuno sarebbe venuto di persona per vedere fino a che punto Cecil fosse impazzito, per calcolare l’entità dei suoi “danni”. Ma ci sarebbe voluta almeno una settimana. Cecil avrebbe deciso giorno per giorno cosa fare. Si sentiva lieto di poter fare quello che voleva senza render conto a nessuno… senza ricevere delusioni. Ogni tanto pensava a quella sensazione, ma era dolorosa e la scacciava subito.
Di certo Cecil sarebbe stato “ritirato” e riprogrammato, ma non ne aveva paura. Era pur sempre un esperimento importante e impegnativo, perciò la sua ibernazione non sarebbe durata a lungo. Ne sarebbe uscito senz’altro diverso da adesso, ma la cosa in fondo lo stimolava e incuriosiva.
Cecil comunque ora era concentrato sui dati. Margherita risultava composta dagli stessi elementi di Titano e della Terra, anche se rimescolati un misure diverse. Metano, azoto, carbonio, ferro. Anche acetilene e ammoniaca, in misura minima. Alla fine, il responso fu incerto.
I vari computer preposti all’analisi di Margherita avevano sviscerato ogni minimo elemento, in ogni sua percentuale, ma non davano una risposta se si trattasse di un composto biologico o minerale. In ambo i casi era di un tipo ancora sconosciuto alla scienza terrestre, e quindi non classificato, nemmeno dai più sofisticati sistemi informatici.
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Cecil richiuse la cella frigo con fare mesto. Anche se in ritardo, alla fine aveva fatto come chiesto da Osvaldo: aveva raccolto l’acqua della bacinella in una guaina di plastica, ci aveva fatto cadere dentro Margherita e l’aveva chiusa nel frigo, dove sarebbe congelata di nuovo, preservando ancora quell’essere inqualificabile.
Era deluso di nuovo, benché in modo diverso da prima. Ma anche combattuto. Forse quella era davvero una forma di vita e le apparecchiature della Christiaan, più sofisticate, in mano a persone più qualificate di lui, lo avrebbero rivelato. Ma Cecil era ormai tagliato fuori da loro. E non lo avrebbero reso partecipe di quella scoperta. Per contro c’era qualcosa che accendeva ancora la sua speranza. In Margherita c’era la presenza di acetilene, il possibile combustibile della vita su Titano.
Ma voleva essere lui a scoprirlo. Cecil voleva vivere l’emozione di scoprire una forma che si potesse chiamare biologica al di là di ogni dubbio.
Non avrebbe saputo neanche lui spiegare il perché di quell’ossessione. Forse era il fatto che lui stesso non sapeva se considerarsi forma vivente o no. Ma Cecil non era certo portato all’introspezione, dal momento che persino la sua auto-coscienza era ancora in forma embrionale, e lottava per emergere da progettazioni artificiali.
A suo modo, aveva scoperto, era un uomo d’azione. Guardando un’ultima volta il frigo chiuso, decise di continuare la sua ricerca della vita. Aveva ancora una settimana: forse poco, forse molto.
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La navicella si immerse nel Kraken a una velocità altissima, sollevando una enorme ondata oleosa e nera. Cecil aveva fretta di immergersi nelle profondità del lago, al punto da rinunciare alla prudenza.
L’immersione procedette alla massima velocità consentita. Ciononostante, Cecil si sforzava di scrutare qualunque dettaglio che riuscisse a percepire dalla cupola del ponte di comando come pure dai dati trasmessi dai sensori. Ogni sua capacità sensoriale era al culmine.
Le luci dei fanali erano al massimo. Ci mise poco a superare i 112 metri. Stavolta non si fece rapire dai miasmi, ma restò attento a qualunque anomalia o novità gli venisse dagli ologrammi o dalla sua visione personale.
Oltre i 150 metri pensò che fosse il caso di fermare la discesa, concedendo a se stesso e agli strumenti una specie di riposo. E di riflessione.
Che cosa stava facendo? Che cosa sperava di trovare? Esistevano psicanalisti per androidi? Se no, li avrebbero inventati a causa sua! Per lui e per eventuali casi di disturbati futuri.
Dalla cupola d’osservazione della navicella sospesa, Cecil si guardò in giro.
I fanali, pur indeboliti, davano una buona visione di quelle profondità. Cioè del nulla. A parte i flutti di idrocarburi non si vedeva niente. Nemmeno un fondale. Non in quel punto almeno. Un’idea improvvisa. Perché viaggiare solo verso il basso? Forse avrebbe dovuto anche spingersi in orizzontale. Forse avrebbe trovato un fondale, o una grotta. O un qualche anfratto, sede di una colonia magari. Sì, poteva essere una buona idea, senza quella frenesia che lo aveva preso fino a poco prima.
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Il Kuiper riprese la sua marcia, con molta più lentezza e in rettilineo. Poi, come preso da un’altra folgorazione, Cecil decise di riprendere la discesa, ma con una direzione obliqua, non verticale come prima, e sempre molto lenta.
Lo scorrere del tempo era una delle poche cose di cui Cecil non si curava. Dopo tre ore, si accorse di essere arrivato a 350 m di profondità. Aveva autonomia ancora per altre 5 ore. Lo spettacolo davanti a lui cominciava a dare i primi segni di monotonia. Era la prima volta che Cecil sperimentava una simile sensazione. La prima volta nella sua simil-vita, tanto che gli ci volle qualche minuto per capire che quel senso di disagio era dovuto alla ripetizione di immagini ormai per lui familiari.
Poi, a 400 m, colse davanti a sé quello che sembrava una parete.
Raddrizzò la direzione e accelerò un po’, finché i fanali illuminarono una parete rocciosa, forse una specie di montagna sottomarina, come ce ne sono anche sulla Terra.
I sensori affermarono che era fatta di materiale pietroso, anche se di una composizione diversa dalla pietra terrestre e non di ghiaccio come i monti emersi.
A 5 metri di distanza, Cecil fermò la navicella, poi cominciò a esplorare la parete, muovendosi in alternanza sui quattro punti cardinali. Non mostrava particolarità rispetto a un rilievo terrestre… e forse era questa a renderla interessante. I sensori non riscontravano nulla che potesse essere definito “biologico”.
Spingendosi verso sud avvistò quella che sembrava una luminescenza. Scese con cautela. Il bagliore aumentava. Era a 440 m quando Cecil si trovò davanti a un’apertura nella roccia, la fonte di quella luce. Era una grotta, all’apparenza. La luminosità che emanava sarebbe stata appena percettibile ad un occhio umano, ma per Cecil era come un falò nella notte.
L’apertura era una specie di ovale di 3 m di diametro. Troppo stretta per la Kuiper, ma non per la sua scialuppa. La nave, infatti, era dotata di una minuscola scialuppa di salvataggio che poteva essere usata anche per esplorazioni in ambienti angusti. Come quello.
Cecil valutò la situazione. La curiosità era grande e il rischio pure. La scialuppa era dotata di navigatore e avrebbe trovato la strada di ritorno, qualora la grotta si fosse rivelata lunga e tortuosa, ma non di sensori. E il fattore tempo era determinante.
Nemmeno lui aveva previsto una discesa così lunga e non aveva caricato la nave di carburante e ossigeno quanto avrebbe dovuto. Ancora una volta la curiosità aveva vinto sulla cautela in quelle ore. Cecil avrebbe lasciato la Kuiper accesa con le funzioni al minimo, ma sarebbe bastato? Tutto dipendeva da quanto si sarebbe attardato nella caverna… non lo sapeva neanche lui. Era consapevole che, una volta entrato, la sua volontà sarebbe rimasta in balia di quello che vi avrebbe trovato. Forse nulla, forse un intero universo.
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La piccola scialuppa semisferica si staccò dalla Kuiper ed entrò nella grotta. La prima cosa che colpì Cecil era la maggior luminosità rispetto al resto del lago. Come se la raggiungesse una misteriosa fonte di luce. Cecil aveva ancora bisogno dei fari, ma a un’intensità medio-bassa.
Avanzando con la massima cautela, l’androide si trovò in quello che sembrava un cunicolo largo quanto basta perché la scialuppa vi si potesse muovere senza intoppi.
A un certo punto si trovò a seguire una curva lunga e sinuosa. La seguì. La luminosità aumentava. Alla fine della curva spense i fanali, tanto era forte. E poi il cunicolo finì e sfociò in una specie di vasta pozza. Il liquido nero era sovrastato da una grande luce, talmente forte da superare la sua oscurità. Cecil si fermò.
Era entrato in una seconda grotta interna, molto più larga della prima. E non del tutto invasa dal liquido. Cecil portò la scialuppa in superficie. E, guardando dalla vetrata della scialuppa, l’androide capì da dove veniva quella luce e contemplò lo spettacolo.
Per un qualche motivo, dovuto a uno strano gioco di dislivelli o della forza di gravità o delle correnti, l’altezza del liquido arrivava a metà di quella caverna. Proprio al suo livello si trovava una piccola piattaforma dello stesso colore e dello stesso strano materiale delle pareti. Una superficie sconnessa e porosa, rilucente di un colore simile all’oro, ma di una luminosità ben maggiore. Un simile bagliore avrebbe forse danneggiato le retine di un uomo, ma Cecil poteva auto-regolamentare l’esposizione del proprio diaframma oculare e subito la ridusse, riuscendo a mantenere anche una visuale adatta.
Anche la scialuppa era dotata di una tuta protettiva. Cecil decise di indossarla e di uscire, ma senza casco. Aperto lo sportello, Cecil notò che riusciva a respirare e si guardò attorno con attenzione.
La grotta aveva una forma a cupola, alta circa 5 m dalla superficie del lago. Il suo database gli suggerì il paragone di una cattedrale bizantina, coi suoi mosaici d’oro. Invece che composta di tanti tasselli quella cupola era di una sostanza uniforme, non liscia, che mostrava di tanto in tanto delle cavità tondeggianti, che l’androide calcolò larghe dai 2 ai 7 cm, le cui labbra sporgevano leggermente all’infuori. Come dei pori, appunto.
La scialuppa era circondata da una specie di bordo largo 20 cm. Cecil lo seguì e da lì, usandolo come trampolino, raggiunse il costone naturale. Una volta messi saldamente i due piedi sopra, s’inginocchiò per esaminarlo. Sì, era dello stesso materiale delle pareti, benché inumidito e annerito dal metano liquido che lo lambiva. Solo che i “pori” qui erano più rari e nel complesso ancor più piccoli di quelli sulle pareti, forse a causa del metano che ne limitava la formazione.
Cecil si rialzò e raggiunse la parete toccata dal costone. La sua brillantezza era impressionante. L’esploratore allungò le mani per toccarla. La sfiorò con delicatezza. I guanti erano muniti di sensori che imitavano la sensibilità tattile umana, migliorandola forse.
A Cecil sembrò trattarsi di una specie di materiale calcareo, non molto resistente né duro, anche se evitò di tentare di strapparne dei pezzi. Le cavità lo incuriosivano e tentavano. Individuò la più larga fra quelle alla sua portata e, con cautela, ci guardò dentro, illuminandola con una mini-torcia elettrica, un’altra fornitura delle capaci tasche della tuta. Vide che era profonda una dozzina di centimetri e al suo interno riposava una piccola massa spugnosa. Cecil ebbe un sobbalzo. Cosa poteva essere? Una forma vegetale? Un fungo? Un lichene? Forse una specie di muffa? Quella forma di vita, primitiva ma concreta, che era così ansioso di rintracciare?
Non seppe resistere alla tentazione e ci infilò il mignolo destro. La sensazione era proprio quella di toccare una piccola spugna. Estrasse il dito. Niente era rimasto attaccato. Cecil non pensava più ad altro che a quella spugnetta. Doveva prenderne un campione e analizzarlo. Tolse da una delle tasche un coltellino a serramanico e introdusse la lama nel buco. Raspò tutto intorno, anche con una certa forza. Non pensò all’ecosistema che forse danneggiava. Era in preda ad un’ansia irrefrenabile, quella di sapere.
Quando tolse la lama vide con stupore le proprie mani tremare. Nel suo database era un gesto tipico delle persone in preda a frenesia ed emozioni forti. Come lui. La lama era comunque coperta in abbondanza di una materia rossastra e appiccicosa, che, vista fuori dalla cavità, sembrava più una gelatina che una spugna. Una cosa colpì il suo sguardo: la somiglianza con Margherita! La consistenza era diversa, più gelatinosa appunto, ma il colore era lo stesso rosso vivo, e aveva un aspetto rugoso e filamentoso. Ma non poteva perdere tempo a guardarla. Gli erano rimaste meno di quattro ore.
Prese dalla tuta un sacchetto di plastica e, con delicatezza, ripulì la lama sulle sue pareti interne per lasciarci dentro la gelatina. Il sacchetto si richiuse automaticamente a tenuta stagna. Tornò alla scialuppa quasi di corsa, richiuse il portello e ordinò al computer di bordo di ripercorre il tragitto della caverna a ritroso. Ora l’accortezza e l’autoconservazione si alleavano alla curiosità.
Mentre tornava alla Kuiper Cecil pensò a quella gelatina con un sentimento che sfiorava l’amore, anche se non ne era consapevole. Aveva qualcosa da mostrare a Osvaldo, ma non era quello l’importante. La sua mente vagava vorticosa e rifletteva sul reperto che portava con sé. In breve, si convinse che Margherita fosse una sua antenata. Al momento della glaciazione era rimasta intrappolata nella montagna. Forse non era l’unico esemplare della sua specie ad aver incontrato quella sorte, forse invece, per qualche motivo si trovava lontana dai suoi simili. La sua specie nei millenni si era evoluta in una forma gelatinosa invece che chitinosa e le grotte erano diventate il suo habitat. Era andata proprio così? Sarebbero stati necessari esami comparativi per dimostrarlo. Solo congetturando, Cecil era però convinto di avere in tasca qualcosa di vivente.
Doveva esserlo. Era venuto fin lì per quello. Era lo scopo della sua vita. Non poteva andare deluso.
***
Osvaldo Pedersani, capo progetto del programma Cecil, chiuso nel laboratorio della base Christiaan, aveva appena finito di analizzare gli ultimi dati inviati dall’androide. Si sentiva soddisfatto. Quelle gelatine erano materiale biologico, capace di autoriprodursi in maniera spontanea. Esseri viventi, anche se – apparentemente – asessuati, di una vita diversa da quella terrestre, basata sul metano invece che sul carbonio. La missione poteva dirsi un successo, anche se si rendeva conto che era solo la prima pagina di un libro dagli sviluppi ancora del tutto imprevedibili. Quali altre forme di vita sarebbero state scoperte su Titano, quali ecosistemi? E quali fonti energetiche? Quanto vaste, quanto sfruttabili?
Ma Osvaldo era ancor più soddisfatto di Cecil… la sua creatura. In qualche modo era il figlio che non aveva mai avuto. Aveva sacrificato tutto, anche gli affetti, per la sua carriera, per i suoi progetti di di ricerca di vita extraterrestre, ma ora provava per l’androide un sentimento profondo e intenso. Aveva visto crescere, velocemente, i sentimenti e l’ambizione di Cecil, anche quando avevano assunto un aspetto autonomo, indirizzandoli e correggendoli come avrebbe fatto un padre con suo figlio. Del resto, tutti i figli a un certo punto cominciano a far di testa loro, staccandosi dalle direttive paterne.
E un po’ Osvaldo aveva persino sfruttato gli aspetti sempre più umani della personalità di Cecil, con un certo interesse verso la sua carriera. Ma a suo modo lo avrebbe ricompensato. Osvaldo aveva dei progetti per Cecil. Avrebbe potenziato ancor più le sue capacità, avrebbe usato la propria influenza per far sì che Cecil diventasse il pioniere della colonizzazione di Titano.
Sì, Osvaldo e Cecil sarebbero diventati una bella coppia.
Mario Luca Moretti
Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano