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Area 61

Area 61
Area 61 è un racconto che avevamo lì da un bel po’. Lo aveva ricevuto per noi Manuela Menci ed era stato inserito in una serie di cose da farsi. Dopo aver riportato alla luce un po’ di questa cose colpevolmente dimenticate, ecco che alla fine rispuntano delle proposte. Questo racconto è stato scritto da Fabio Calabrese e sarà il primo post a inaugurare l’anno 2023 qui a Cose da Altri Mondi.

 

“La guardi”, disse Sexton con aria entusiasta, “Non è una bellezza?”

“Da mozzare il fiato”, rispose Fowler, ricambiando con uno sguardo ammirato l’espressione estatica di Willard Sexton.

Se lo si fosse dovuto misurare in termini puramente estetici, l’oggetto sarebbe stato ben lontano dal meritare un simile entusiasmo.

Anche se il gigantesco hangar nel quale si trovava rendeva difficile valutarne chiaramente le dimensioni, John Fowler stimò che fosse lungo una trentina di metri: era un cilindro metallico dalle estremità tondeggianti lievemente bombate, tutto qui, ma naturalmente il criterio per valutare la bellezza di quell’oggetto non era certo estetico: era il primo veicolo, anzi il primo manufatto di origine certamente extraterrestre di cui si avesse conoscenza.

Fowler non provava certo meraviglia della trafila di controlli di sicurezza che aveva dovuto passare fin lì.

“Dottor Fowler”, disse Sexton, “tenga presente che tutte le informazioni che sto per darle sono classificate al massimo livello di sicurezza, e che la loro divulgazione a terzi, anche in forma confidenziale, è reato”.

“Lo so bene”.

“Ok”, proseguì Sexton, “Questa cosa, questa … astronave è stata trovata cinque anni fa in orbita attorno a Saturno, precisamente immersa negli anelli”.

Sexton fece alcuni passi indietro, ritraendosi dall’oblò aperto sull’hangar che ospitava l’astronave e ne consentiva la visione diretta, e accese il monitor di un computer lì vicino. Il monitor proiettava un’immagine della nave in lenta rotazione, in modo da visualizzarne la struttura da ogni punto di vista.

“Sappiamo che è un manufatto”, disse, “e sappiamo che non è di origini umane né proviene dalle zone interne del sistema solare. D’altra parte sappiamo per certo che, tranne le stazioni orbitali e i nostri sparuti avamposti sulla Luna e su Marte, solo il pianeta Terra è abitato. Faccia lei le opportune deduzioni”.

Fowler cacciò un profondo sospiro.

“Proviene da un altro sistema solare”, disse, “E’ un’astronave interstellare”.

“Noi riteniamo corretta la prima deduzione”, rispose Sexton, “La seconda sfortunatamente no”.

“Cosa?”

“Senta, sono cinque anni che studiamo questo veicolo, e creda che l’abbiamo fatto con la massima cura. Questo apparecchio ha una propulsione mista: un motore a razzo ed una sorta di jet che si alimenta con l’idrogeno interplanetario; dieci atomi al metro cubo se proviene da un sistema solare simile al nostro, il che non è molto, ma si possono concentrare. Insomma, è un po’ più avanti di quello che finora siamo riusciti a fare noi nel volo interplanetario, ma non di molto.

“Noi non sappiamo se qualcuno nell’universo possiede davvero il segreto del volo interstellare, dell’overdrive, della velocità superiore a quella della luce, e sempre ammesso che una cosa del genere sia possibile, ma a quanto pare non è racchiuso là dentro”.

“Allora”, chiese Fowler, “cosa pensate che sia?”.

“Un relitto, un relitto alla deriva. Probabilmente ha viaggiato per migliaia di anni prima di finire nel campo gravitazionale del nostro sistema solare. Una versione spaziale dell’Olandese Volante, se vuole”:

“Che età ha?”, chiese ancora Fowler.

“Impossibile stabilirlo con esattezza”, rispose Sexton, “Come le ho detto, è stato trovato in orbita attorno a Saturno cinque anni fa, ma poteva essere lì da millenni o esserci arrivato il giorno prima. Come che sia, la zona degli anelli è piena di detriti meteorici delle più svariate dimensioni, che formano gli anelli stessi, e ognuno ha la sua eco radar. Ci saremmo potuti passare vicini moltissime volte senza notarla. Noi però riteniamo che sia molto antica. Come le ho detto, deve aver impiegato migliaia di anni per arrivare lì dal sistema solare di origine. Esaminando da vicino la superficie dello scafo, si notano numerosi segni di abrasione, ma questi potrebbero essere dovuti alle particolari condizioni degli anelli di Saturno, che sono zeppi di micrometeoriti e “spazzatura” cosmica”.

“Ma”, obiettò Fowler, “so che esistono dei metodi di datazione basati sul decadimento degli atomi radioattivi”.

“Ovviamente”, disse Sexton, “abbiamo fatto analisi di questo tipo, ma non le riteniamo molto attendibili. I tempi di dimezzamento del materiale radioattivo sono costanti in tutto l’universo, ma la proporzione originaria fra elementi inerti ed isotopi radioattivi potrebbe essere differente rispetto a quella qui sulla Terra; ad ogni modo, presupponendola simile a quella terrestre, le nostre analisi indicherebbero un’età compresa fra i diecimila ed i centomila anni”.

John Fowler emise un fischio.

“E mi dica”, proseguì, “Voi pensate che questo  veicolo avesse un equipaggio?”

Sexton annuì.

“Pensiamo di sì, abbiamo trovato in varie parti del veicolo delle tracce di materiale organico che potrebbero essere quanto rimane dell’equipaggio”.

“Quindi, dei costruttori di questo gioiello non sappiamo praticamente nulla”, commentò Fowler.

“Beh, qualcosa sappiamo”, replicò Sexton, “Sappiamo che erano creature di dimensioni simili alle nostre. Lo spazio interno della nave è suddiviso in vani di dimensioni adatte a un equipaggio umano. Se le tracce organiche che abbiamo trovato sono i resti di questi antichi marinai, allora possiamo dire che la loro chimica era basata sul carbonio come la nostra. Personalmente, le dirò che non ho mai creduto in alieni basati sul silicio, che respirano fluoro invece dell’ossigeno e via dicendo. Le proprietà chimiche degli elementi sono le stesse in qualsiasi punto dell’universo. Ma la cosa più interessante è che probabilmente, esattamente come accade per noi, il loro senso principale doveva essere la vista. La strumentazione elettronica del veicolo è collegata a dei monitor molto simili ai nostri”.

“C’è un computer a bordo?”, chiese Fowler.

“Ovviamente”, rispose Sexton, “altrimenti, come sarebbe possibile pilotare un velivolo interplanetario? L’abbiamo studiato con grande attenzione, può starne certo: è molto simile a quello che avremmo potuto costruire noi. L’hardware è ancora relativamente in buono stato, ma la memoria è quasi completamente deteriorata”.

“Ho capito”, disse Fowler, “se vi aspettavate che questo prodotto di una tecnologia aliena facesse compiere un grande balzo in avanti alle nostre conoscenze, deve essere stata una bella delusione”.

“Beh, sì e no”, rispose Sexton. “È un po’ più avanzato di quel che disponevamo finora, un po’ come passare dal Saturno V alla Space Shuttle, non so se mi spiego”.

“Ma niente overdrive”.

“Niente overdrive, ma lei comprenderà che si tratta ugualmente di una scoperta d’importanza enorme. Per la prima volta abbiamo la prova certa che non siamo soli nell’universo. Naturalmente, vorremmo saperne qualcosa di più su queste creature”.

“Non vedo come”.

“Qui entra in scena lei, caro dottor Fowler”.

“Io? Ma cosa vi aspettate?” Era stupito.

“Lei non è uno dei maggiori esperti mondiali nel campo della crittografia? Io so che i miei superiori possono scegliere il meglio che c’è sulla piazza. Come le dicevo, la memoria del computer è per noi illeggibile, ma non possiamo sapere se questo dipende dal fatto che è del tutto deteriorata, o se ci sono delle parti che conoscendo la lingua e l’alfabeto degli alieni sarebbero ancora accessibili, In vari punti del veicolo ci sono quelle che sembrerebbero essere delle brevi iscrizioni in un qualche alfabeto. Vogliamo che lei tenti una comparazione”.

“Ora, professor Sexton, stia lei a sentire me. Siamo stati in grado di decifrare molte scritture antiche ritenute perdute, perché c’era sempre un punto di contatto con culture successive che magari attraverso una lunga catena sono arrivate fino a noi. L’esempio più classico è la pietra di Rosetta che ha permesso la decifrazione dei geroglifici egizi, ma qui abbiamo una cultura che non ha nessun punto di contatto con l’umanità. Lei s’immagina ricostruire la nostra lingua avendo a disposizione targhette con diciture come: “uscita di sicurezza”, “cuccette”, “pericolo, alto voltaggio”, “immondizia”.

Sexton assunse un’espressione pensierosa.

“Capisco, ma non le pare che valga la pena di tentare? In ogni caso, penso che il suo disturbo sarà ben ricompensato”.
“Allora è pronto per il nostro piccolo giro turistico?”
Willard Sexton era di un buonumore che John Fowler era lontano dal condividere.
“Non proprio”, rispose, “mi sembra di essere conficcato in mezzo al fango”.
“E’ l’imbottitura della tuta”, replicò Sexton, “Presto si abituerà”.
“Adesso capisco perché questo posto è chiamato l’Area 61”, disse Fowler.
“Non è la denominazione ufficiale”, replicò Sexton, “L’ho sentita usare anch’io, spesso, e non ne ho capito il perché”.

“E’ una storia che risale al XX secolo”, disse Fowler, “Una specie di leggenda. Si diceva che in una località del New Mexico, mi pare fosse Roswell, fosse precipitato un UFO con degli alieni a bordo, e che il velivolo e i corpi degli alieni fossero conservati e studiati in una base segreta chiamata Area 51. Questo è qualcosa di molto simile, solo che non è fantasia ma pura e semplice realtà”.

“Affascinante ma poco plausibile”, commentò Sexton, “A meno che qualcuno nell’universo non abbia davvero scoperto il segreto dell’overdrive, ma mi permetta di essere scettico sul fatto che una cosa simile sia anche lontanamente possibile”.

Sexton e Fowler avevano dovuto indossare due pesanti scafandri; praticamente vi erano stati calati dentro attraverso due complicate imbracature. Adesso gli assistenti stavano fissando ai polsi dei due scienziati dei guanti a tenuta ermetica, poi sarebbero stati calati i caschi già pronti sulle rastrelliere che li sovrastavano.

Fowler trovava che quegli scafandri fossero estremamente simili alle tute degli astronauti, eccetto che per il lungo tubo flessibile che si portavano dietro e attraverso il quale passava il ricambio dell’aria. Ebbe l’impressione che quegli scafandri fossero in grado di resistere a qualsiasi cosa, compresa un’esplosione nucleare.

“Tutto questo mi sembra un po’ eccessivo”, commentò.

“Ah certo”, replicò Sexton, “Se lei preferisce beccarsi direttamente sulla pelle la sventagliata di raggi gamma da cui saremo irrorati entrando e uscendo dalla camera di compensazione”.

Fowler stava per replicare a sua volta, ma dovette interrompersi mentre il casco veniva calato e fissato al “collo” della tuta.

La voce di Sexton gli gracchiò nelle orecchie attraverso gli auricolari radio.

“Adesso possiamo proseguire la nostra conversazione. Queste tute sono dotate di collegamento radio”.

John Fowler per il momento non rispose, cercò di muovere qualche passo: si sentiva terribilmente impacciato, gli sembrava di muoversi in un sogno.

Si avviarono verso la camera di compensazione che dava accesso all’hangar. Da una parte, e sicuramente anche da quella opposta, l’accesso era chiuso da un portello a tenuta stagna simile a quello di un veicolo spaziale. Nonostante l’ingombro di quella specie di scafandro, Willard Sexton si muoveva con una disinvoltura che Fowler invidiava, e che certamente derivava dall’abitudine.

“Mi scusi”, stava dicendo Sexton, “Lei prima mi ha chiesto qualcosa”.
“Si, infatti, volevo sapere il motivo di tutte queste precauzioni, che mi sembrano un po’ eccessive”.
“Pericolo di … contaminazione biologica”.

Fra le due metà, la frase fu interrotta da una scarica di energia statica mentre Sexton entrava nella camera di compensazione.

Fowler lo seguì entrando nell’ambiente irradiato, prima di obiettare a sua volta:

“Contaminazione biologica? Ma qualunque cosa si sia trovata dentro quel veicolo, deve essere morta da millenni”.
“Ne è sicuro?”, rispose Sexton.
“Cosa vuol dire?”
“Certo, l’equipaggio è morto da millenni, ed anche eventuali microrganismi, muffe e batteri, ma cosa mi dice dei virus?”
“I virus?”

“I virus”, proseguì Sexton, “sono creature virtualmente immortali perché non sono propriamente vive, sono delle “macchine biologiche,” un involucro proteico contenente un segmento di DNA o di RNA che “sa” fare una sola cosa: entrare in una cellula, impadronirsi dei meccanismi di produzione del materiale cellulare, e indurla a produrre milioni di copie di se stesso, fino a che della cellula non resta nulla. Ora lei consideri questo: le nostre cellule e quelle di tutti gli organismi viventi su questo pianeta, hanno imparato a combattere i virus terrestri e a bloccare la loro azione, anche di quelli che causano malattie da cui non si può guarire, come l’AIDS. Provi solo ad immaginare che un’infezione virale prosegua fino alle ultime conseguenze: un virus infetta una cellula, la distrugge, poi milioni di copie del primo virus passano a infettare le cellule vicine, è una reazione a catena. In pochissimo tempo di un organismo delle dimensioni di un essere umano potrebbe rimanere niente altro che un mucchio di particelle virali.

“Immagini che uno dei marinai del nostro Olandese Volante avesse, che so, l’equivalente del raffreddore, di un dente cariato, di un insignificante herpes labiale, un virus rimasto inattivo per millenni ma pronto a entrare in azione appena venisse a contatto con le cellule di un organismo vivente, un virus verso il quale né noi né alcuna creatura terrestre abbia avuto modo di sviluppare difese. Immagina quali potrebbero essere le conseguenze per la vita su questo pianeta?”

“Ma finora”, chiese Fowler, “avete individuato dei virus alieni?”

“No”, rispose Sexton, “ma lei sa che mentre è abbastanza facile vedere dei virus con un microscopio elettronico in un tessuto di coltura, è praticamente impossibile individuarli liberi nell’ambiente. In questi casi la NASA preferisce seguire il principio di prudenza”.

“Mi scusi”, chiese ancora Fowler, “ma non le pare che uscendo di qua con le tute irradiate da raggi gamma portiamo nell’ambiente un pericolo forse meno grave ma più certo?”

Attraverso le visiere dei caschi John Fowler riusciva a scorgere il volto di Sexton, su cui si era disegnato un mezzo sorriso”.

“Temo”, disse, “che dovrò ripassare un po’ le sue nozioni di fisica. I raggi X sono composti da radiazioni alfa, beta e gamma. Le radiazioni alfa e beta sono emissioni di particelle eccitate, alle quali si deve la radioattività residua. I raggi gamma no, sono semplice radiazione che cessa quando cessa l’emissione, esattamente come quando spegne una lampadina e si trova al buio. Quando usciremo di qui, non saremo più radioattivi di quando ci siamo entrati”.

“Ma allora perché”, insistette Fowler, “non irradiare una volta per tutte il veicolo di raggi gamma da cima a fondo?”

“Perché così danneggeremmo irreparabilmente il sistema elettronico del velivolo e quel che resta della memoria del computer, cioè proprio quel che vogliamo studiare. No, stia tranquillo, il sistema è sicuro: in cinque anni non abbiamo mai avuto problemi”.

I due uomini erano usciti dalla camera di compensazione ed erano entrati nell’hangar, che Fowler trovò enorme ed ingombro di attrezzature, la funzione di molte delle quali gli sfuggiva. Non avvertiva rumori, tranne la voce di Sexton che gli arrivava attraverso la radio del casco, e, immerso nell’imbottitura della tuta, non aveva la sensazione di contatto con il suolo e con il mondo esterno, gli sembrava di muoversi e di vivere in un sogno.

Sexton e Fowler salirono lungo la fiancata del velivolo alieno mediante una comune scaletta metallica, arrivando a un portello che sembrò a Fowler non molto diverso da quello che gli uomini avrebbero potuto costruire.

All’interno del veicolo c’era una serie di camere e di corridoi di dimensioni adatte a degli esseri umani, dove si poteva camminare senza dover quasi mai piegare la testa: l’interno appariva molto spoglio, e questo era probabilmente dovuto al fatto che dopo tanti secoli non era rimasto nulla che non fosse di plastica o di metallo.

Sexton condusse Fowler verso la parte anteriore della nave. Non era necessario da un punto di vista ingegneristico, ma – pensò Fowler – era logico per degli esseri dotati di visione frontale che si trovasse lì la plancia del velivolo.

C’erano dei parallelepipedi di un materiale plastico spugnoso: una sorta di sedili che non rivelavano molto dell’anatomia di coloro che un tempo vi avevano preso posto. C’erano due consolle ciascuna carica di pulsanti ed un grande monitor centrale. Sexton premette un pulsante su una delle due consolle e il monitor si accese, mostrando solo bande di energia elettrostatica.

“Dopo tanto tempo, questa nave ha ancora energia?”, chiese Fowler.

“Naturalmente no”, rispose Sexton, “La forniamo noi dall’esterno”.

Spense il monitor e il giro turistico proseguì oltre.

Quelli posti lungo le fiancate potevano essere stati gli alloggi dell’equipaggio, erano in tutto sei cabine di dimensioni non grandi, arredate solo con mensole metalliche collocate a varie altezze, potevano essere state scaffalature, cuccette, tavoli.

Sexton aveva indicato delle targhette, sia in plancia che nelle cabine, coperte da pittogrammi stranamente contorti.

“Ecco”, disse Sexton, “Quello è il materiale su cui dovrà lavorare. Si è fatto già un’idea su come procedere?”

“Di primo acchito”, rispose John Fowler, “direi che non posso procedere al lavoro di decifrazione qua dentro impacciato dallo scafandro. Prenderò un calco di tutte le iscrizioni”.

“E come intende fare?”, chiese Sexton.

“Beh, questo è piuttosto facile. C’è un gel che si può spruzzare su iscrizioni e bassorilievi, solidifica in pochi minuti e diventa un calco perfetto, che si stacca con facilità e poi può essere esaminato in laboratorio. Poi mi serve un microscopio elettronico”.

“Un microscopio elettronico?”, chiese Sexton.

“Certo, devo essere in grado di distinguere apici della scrittura e segni d’interpunzione da graffi accidentali”.

“Bene, non c’è problema, lo avrà”.

Sexton aveva un’aria soddisfatta. Fowler, soddisfatto si sentiva molto di meno, stava per iniziare un lavoro lungo e tedioso che probabilmente non avrebbe fruttato risultati.

“Venga”, disse Sexton in tono allegro, “Completiamo il giro turistico”.

Fece strada a Fowler nell’ultimo vano del velivolo, era una cabina non diversa dalle altre cinque che Fowler aveva già visto, ma Sexton doveva essersi riservato per ultimo il colpo di scena. Sulla mensola – tavolo (o almeno una mensola collocata proprio a un’altezza giusta per essere usata come tavolo da esseri umani, ma la cosa poteva anche essere un caso), c’era qualcosa… L’oggetto, collocato su di una base cilindrica, era alto una trentina di centimetri e aveva una forma che rozzamente si sarebbe potuta definire a cuore, ed era di metallo, ma di un metallo alquanto diverso da quello che formava  la struttura della nave e che aveva l’apparenza di acciaio brunito. L’oggetto era fatto di un metallo argenteo, lucente che poteva essere qualsiasi cosa: argento, platino, plettro, alpacca, silver plate o qualche lega simile la cui esatta composizione non era in uso sulla Terra.

“Su”, l’invitò Sexton, “Non abbia paura, la prenda in mano”.

Fowler sollevò l’oggetto, che non era troppo pesante né particolarmente leggero, forse di un paio di chili. Guardandolo da vicino, ci si accorgeva che aveva un design piuttosto elaborato: dalla base cilindrica partivano una dozzina di “rami” che si attorcigliavano a spirale salendo verso l’alto, e verso la sommità si ripiegavano verso l’interno dando all’oggetto nel suo insieme una struttura cuoriforme.

“Cosa può essere secondo lei?”, chiese Fowler.

“Mah, chi lo sa”, rispose Sexton, “Una scultura, una decorazione, un trofeo, magari un trofeo sportivo”.

“Interessante”, commentò Fowler, “Lei pensa che quest’oggetto potrebbe aiutarci a capire qualcosa della struttura di coloro che l’hanno realizzato?”

“Senta”, rispose Sexton, “Se più tardi verrà nel mio ufficio, le mostrerò un paio di coppe sportive. Quando ero più giovane, all’università, ero un giocatore di baseball piuttosto bravo. Se lei non sapesse niente dell’umanità, pensa che da una di quelle coppe riuscirebbe ad intuire la forma umana?”

Fowler tornò a posare l’oggetto, pensieroso.

***

Quel giorno, Fowler uscì di casa e si diresse a piedi verso l’ingresso della metropolitana, aveva con sé una grossa valigia. Scese dopo quattro stazioni, entrò in un bar e s’infilò nella toilette. Qui si cambiò i vestiti, mise anche una panciera che faceva sparire il po’ di adipe che aveva accumulato negli anni, e si cambiò le scarpe: quelle che indossava adesso avevano una doppia suola che aumentava la sua altezza di cinque centimetri.

Si collocò sulla fronte una calotta del tipo usato dagli attori teatrali, che gli creava una semicalvizie, poi si mise un paio di occhiali di vetro dalla spessa montatura e si appiccicò sul labbro un paio di baffetti grigi: l’effetto combinato di occhiali e baffi l’invecchiava di almeno dieci anni, e calcò in testa un berretto per non rendere la calotta troppo evidente.

Il signore anziano, alto, longilineo, un po’ calvo, baffuto, con gli occhiali e il berretto che aveva solo una vaghissima somiglianza con John Fowler uscì dal bar e salì su di un autobus. Scese nelle vicinanze di un autonoleggio. Noleggiò una vettura esibendo una carta di credito e una carta d’identità che portavano un nome diverso da quello di John Fowler e una foto dell’uomo anziano, semicalvo e baffuto.

John Fowler si allontanò guidando per circa un’ora fino a lasciarsi alle spalle la città e ad attraversare il confine dello stato.

Arrivato ad una città oltre la frontiera, parcheggiò la macchina e fece una chiamata con un telefonino che non era intestato a John Fowler, e che usava solo in quelle occasioni.

Dopo circa venti minuti, un’altra automobile passò a prenderlo. Accompagnato dall’autista, dopo un’altra decina di minuti di strada, arrivò a un anonimo edificio grigio con l’aria di un palazzo di uffici, ma, cosa strana, non c’erano targhette sui campanelli, e guardando attentamente si poteva scorgere un complesso sistema di telecamere che non doveva lasciare nemmeno un punto morto attorno all’edificio.

John Fowler entrò e, preso l’ascensore, schiacciò il pulsante dell’attico.

Dopo essere passato sotto gli occhi di un segretario insolitamente corpulento e dall’aria vagamente minacciosa che lo degnò di un’occhiata solo apparentemente distratta, Fowler entrò nel sancta sanctorum dell’edificio, e si trovò faccia a faccia con l’uomo cui doveva i nove decimi, quelli non dichiarati al fisco, del suo reddito.

Vincent Mariana era un uomo notevole; a osservarlo bene si sarebbe detto un uomo temibile: robusto senza essere grasso, piuttosto alto, di carnagione tendente all’olivastro ma con due occhi azzurri chiari che sapevano essere gelidi, era leggermente stempiato, e i capelli che un tempo dovevano essere stati nerissimi, erano solcati da qualche striatura biancastra.

Fowler sapeva che Mariana era nativo dell’Argentina e un’origine india poteva spiegare la pelle piuttosto scura. In Argentina di indios non ce n’erano quasi più ma si trovavano ancora parecchi loro discendenti meticci di vario grado. Di solito le persone di origine india avevano una corporatura ben più esile di quella di Mariana, ma era anche vero che gli indios argentini erano di taglia più robusta e di altezza maggiore dei loro parenti del resto del continente; gli Spagnoli li avevano soprannominati “patagones”, “piedoni”, e Patagonia era il nome che era rimasto alla parte meridionale dell’Argentina e del continente americano. I glaciali occhi azzurri, quelli invece dovevano essere l’eredità di qualche antenato inglese o tedesco.

Che un sudamericano fosse l’uomo di fiducia dei “narcos” negli Stati Uniti, non era per nulla sorprendente; lo era forse di più il fatto che Mariana fosse anche per il Nordamerica il fiduciario delle Triadi cinesi e della Yakuza nipponica, che avevano ormai estromesso dagli Stati Uniti la mafia russa e quella polacca dopo che queste ultime avevano eliminato quel che restava della vecchia Cosa Nostra italiana, e dimostrava come la criminalità organizzata avesse raggiunto la piena globalizzazione ancor prima dell’economia legale.

Mariana teneva in piedi diverse linee di contrabbando attraverso le quali passava di tutto: droga, armi, ragazze di ogni parte del mondo avviate alla prostituzione, immigrati clandestini, ricercati che tentavano di espatriare, auto di lusso rubate che venivano rivendute in Medio Oriente; e aveva il problema di eludere controlli e sorveglianze che si facevano sempre  più sofisticati, e per questo doveva mantenersi al livello tecnologico dell’avversario, trovare sempre nuove contro-contromisure per le sue contromisure, ma la criminalità organizzata, per quanto ben organizzata, non ha le stesse risorse di un governo  legale, specialmente di un governo come quello degli Stati Uniti coi suoi istituti di ricerca che godevano di ingenti stanziamenti. C’era solo una soluzione: essere pronti a rubare e a sfruttare la tecnologia dell’avversario, il governo legale, e per questo occorrevano ottimi hacker e crittografi ancora migliori per impadronirsi dei documenti cifrati. Vincent Mariana era entrato in contatto con John Fowler per gli stessi motivi per cui la NASA era ricorsa a lui.

“Allora”, chiese dopo aver risposto al saluto di Fowler con un breve cenno del capo, “che novità ci sono?”

Fowler si mise a raccontare della convocazione da parte della NASA, dell’Area 61, dell’astronave aliena.

“Amico mio”, disse Mariana dopo averlo ascoltato per un po’, “Mi allarga il cuore sapere che non siamo soli nell’universo, ma come lei sa, io sono un uomo pratico, e se questa cosa non presenta opportunità di sfruttamento commerciale, nemmeno, a quanto mi dice, una tecnologia spaziale e un’avionica granché più avanzate delle nostre…”.

Guardò in viso Fowler che aveva un’espressione delusa.

“Le faccio una proposta”, disse, “Mi procuri quella statuetta aliena”.

“Cosa?”

“Non faccia quella faccia, amico mio. Lei saprà che ci sono molti collezionisti un po’ particolari che si godono nel più assoluto riserbo il possesso e la contemplazione di opere d’arte uscite illegalmente dai musei. Io ho sempre avuto il desiderio di avere qualcosa del genere, ma doveva essere qualcosa di realmente unico, e non potevo mica far trafugare la cattedrale di Notre Dame o la Cappella Sistina. Un’opera d’arte aliena, ed io sarò il solo a possederne una”.

“Ma la NASA…”

“La NASA, dottor Fowler, non è la FBI, è abbastanza facile prenderla per il naso. Lei ricorderà che nel 2006 si accorsero della scomparsa inesplicabile dai loro archivi del filmato originale dello sbarco sulla Luna avvenuto nel 1969. Io so per certo che c’è qualcuno che si visiona quando vuole quel vecchio filmato, ma per farla stare tranquillo, faremo in modo che quelli della NASA non si accorgano di nulla. Lei ha la possibilità di fotografare o filmare la statuetta?”

“Certo”, rispose John Fowler, “Posso portarmi dietro una macchina fotografica adducendo la necessità di fotografare le iscrizioni all’interno della nave, nessuno sospetterà di nulla”.

“Allora è fatta”, disse Vincent Mariana in tono allegro, “Lei fotografi la statuetta da più angolazioni possibile, e noi faremo una copia perfetta che poi lei sostituirà all’originale”.

John Fowler si accorse di star trattenendo il fiato. Finora era tutto filato così liscio da non riuscire a crederci. Con la scusa di fotografare le iscrizioni, aveva fotografato la statuetta da una dozzina di posizioni diverse, poi aveva passato le foto agli uomini di Mariana, che ne avevano fatto realizzare una copia che almeno a Fowler appariva perfetta.

La cosa più complicata era stato trovare un contenitore per campioni biologici pericolosi. A Fowler la storia dei virus raccontatagli da Sexton non sembrava molto credibile ma non voleva correre rischi, ma in internet si trova di tutto: aveva acquistato il contenitore in rete pagandolo con un numero di carta di credito dal quale non era possibile risalire a lui, e se l’era fatto spedire ad una casella di posta dove era andato a ritirarlo sotto le sembianze di signore anziano – baffuto – occhialuto.

Portava a tracolla dello scafandro una borsa per attrezzature di cui nessuno avrebbe pensato di controllare il contenuto, dentro c’erano la copia della statuetta e il contenitore per campioni. All’interno del velivolo alieno non c’erano né telecamere né allarmi, sembrava proprio che nessuno avesse pensato all’eventualità di un furto.

Prese la statuetta e la ripose nel contenitore che chiuse ermeticamente, poi tolse la copia dalla borsa e la mise al suo posto; gli ci volle più di un minuto per compiere l’operazione, aveva le mani che gli tremavano.

“Oh Dio”, pensò, “Speriamo che la prossima volta Mariana non mi chieda di compiere un omicidio”.

Dopo aver sostituito il manufatto alieno con la sua copia, però si sentì meglio: nessuno poteva accorgersi di nulla, e anche Willard Sexton avrebbe potuto essere fiero della sua prudenza nel riporre il manufatto alieno nel contenitore per campioni biologici pericolosi.

Più tardi, quando lasciò l’Area 61, John Fowler dovette fare uno sforzo su se stesso per non premere a tavoletta l’acceleratore della macchina come se avesse il diavolo alle calcagna.

“Ce l’ha qui con lei?”, chiese Vincent Mariana.

“Si, è qui dentro”, rispose John Fowler poggiando il contenitore sulla scrivania.

Fowler aveva rifatto tutta le procedura consueta per venire fin lì senza  lasciare tracce e, a ogni passaggio, a ogni cambio di abbigliamento o di mezzo di trasporto, aveva avuto il timore di sentire la robusta mano di un agente calargli sulla spalla e di udire scandita la formula rituale:

“Lei è in arresto, dottor Fowler”.

Tutta la procedura gli era sembrata dannatamente lunga. Fino a un minuto prima, il suo solo desiderio era quello di posare quel contenitore sulla scrivania di Mariana come se scottasse, ma, cosa strana, adesso non gli riusciva di provare tutto quel sollievo che aveva immaginato.

“Bene, dottor Fowler”, disse Vincent Mariana, “Lei non immagina nemmeno la soddisfazione che mi dà, soddisfazione però guastata da un profondo rincrescimento”.
“Rincrescimento? … E per che cosa?”
“Per lei, amico mio, lei è davvero un uomo sfortunato”.
“Non capisco…”.

“Lei non conosce il mondo dei furti delle opere d’arte su commissione, vero dottor Fowler? Le interesserà sapere che di solito il committente prende ogni sorta di precauzioni per non entrare in contatto diretto con colui che esegue materialmente il furto, e perché la sua identità non sia nota a quest’ultimo. Sarebbe davvero un peccato se la contemplazione di opere d’arte esclusive fosse turbata dalla possibilità di un ricatto. Precauzioni che in questo specifico caso non è stato possibile prendere. Per quanto io detesti l’idea di porre fine alla nostra amicizia e di dover fare a meno di un collaboratore così brillante, lei sa bene che c’è un solo modo per assicurarsi il silenzio di un uomo per sempre. Lei è stato molto saggio, dottor Fowler, a prendere tutta una serie di precauzioni che impedissero di collegarla a me; adesso quegli stessi accorgimenti fanno sì che nessuno possa collegare me alla sua inesplicabile scomparsa”.

Premette un pulsante  della piccola consolle che teneva sulla scrivania attivando l’interfono.

“Il nostro rapporto di lavoro termina qui. Ragazzi, provvedete voi a saldare al dottor Fowler la sua liquidazione?”

Da una porta laterale che si aprì all’improvviso, si catapultarono nella stanza due energumeni che si scagliarono su John Fowler immobilizzandolo.

“No, no, aspetti!”, fece in tempo a gridare Fowler prima che una mano robusta gli tappasse la bocca.

Vincent Mariana non gli stava prestando più attenzione. Mentre i due gorilla trascinavano via John Fowler, la sua attenzione era tutta concentrata sul contenitore con la scultura aliena.

Appena la calma fu tornata nello studio, Vincent Mariana concentrò tutta la sua attenzione sul contenitore che John Fowler aveva lasciato sulla scrivania. Con impazienza un po’ infantile, sentendosi un po’ come un bambino goloso, l’aprì e prese in mano la scultura aliena: era davvero un bell’oggetto, ed era unico al mondo, ed era suo! Provò una sensazione di esultanza.

Un istante dopo si accorse che c’era qualcosa che non andava, le punte delle dita gli erano diventate grigie.

Sulla superficie della statuetta aliena c’era un virus, inattivo da migliaia di anni ma con tutta la capacità di rimettersi all’opera non appena fosse entrato in contatto con una cellula vivente. Per la creatura che l’aveva inconsciamente depositato sulla superficie della scultura, era stato un virus piuttosto innocuo, tipo quello di un raffreddore o di un herpes labiale, ma le creature terrestri, e Vincent Mariana era una creatura terrestre, non avevano mai sviluppato nessuna forma di adattamento ad esso, nessuna difesa immunitaria, né anticorpi né interferone.

Il virus penetrò allegramente in una cellula obbligandola a produrre milioni di copie del virus stesso, convertendo tutto il materiale cellulare in particelle virali, poi milioni di virus “figli” passarono ad infettare le cellule vicine in una reazione a catena che si espandeva sempre di più e sempre più velocemente.

Vincent Mariana vide le dita della mano diventare grigie e poi sbriciolarsi in una polvere sottile simile a cenere, e intanto la reazione saliva velocemente lungo il palmo, il polso, l’avambraccio, il braccio. Non faceva neppure male, perché le cellule delle terminazioni nervose erano convertite in materiale virale esattamente come le altre, non colava neppure sangue, solo polvere, polvere grigia.

Lo stupore di Vincent Mariana era tale che non riuscì nemmeno a provare paura, fece in tempo ad emettere solo un breve grido inarticolato che nessuno udì.

Dopo un paio di minuti, di Vincent Mariana rimanevano solo i vestiti stranamente afflosciati e un’ottantina di chili di polvere grigia.

 

Fabio Calabrese
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Nato a Trieste il 12 novembre 1952, laureato in filosofia, docente di scuola superiore. Fin dall'adolescenza sviluppa una passione per la letteratura fantastica e l’impegno politico. Negli anni ’70 ha fondato assieme a Giuseppe Lippi la rivista amatoriale del fantastico “Il re in giallo”. Ha pubblicato racconti e articoli di fantascienza, letteratura fantastica e politici.

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