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HUMAN.EXE – IL RACCONTO DELLA DOMENICA

HUMAN.EXE – IL RACCONTO DELLA DOMENICA

Il Racconto della Domenica

19 Gennaio 2199 – sei ore dalla fuga – Settore Delta di Experia VI.

«Non riesco a crederci! È fatta, capisci? Quei fottuti non si sono accorti di nulla!»

Il truck proseguiva lento la sua corsa nel deserto mentre, stupito, continuavo a vorticare la testa da un lato all’altro. Incredibilmente nessuno sembrava seguirci.

Il caldo in quella cabina, progettata per i soli robot di manutenzione e priva di ogni sistema di climatizzazione, era asfissiante e rompere il mio finestrino si era dimostrata una pessima idea. Anche l’aria esterna era infuocata e ora trascinava con sé la polvere gialla sollevata dalle enormi ruote.

Mio figlio giaceva terrorizzato e spossato accanto a me, sdraiato in un angolo grigio di quell’abitacolo privo di ogni ergonomia. Osservava silenzioso e deluso quel paesaggio post-nucleare, desolato e uniforme. Era nato e cresciuto nella metallica Experia VI e non immaginava la penombra del mondo esterno e la pesante desertificazione scientemente operata dai robot in oltre venticinque anni di spietata guerra con noi umani. I sopravvissuti vivevano prigionieri nelle loro città, immense torri prive di trasparenze verso l’esterno, tenuti in vita per il solo diletto di trattenere in cattività i creatori, come beffardamente ancora oggi ci chiamano; i superstiti liberi si erano organizzati in una accanita resistenza oramai avvolta nella leggenda e nella sabbia del pianeta.

Tornai a concentrarmi. Nonostante il caldo e la tensione ero riuscito a bypassare il sistema di guida automatico.

«Funziona!» dissi sorridendogli.

Passai delicatamente le mie dita tra i suoi capelli biondi da bambino.

Con un gesto improvviso della testa si ribellò al mio tocco.

«Lasciami stare, bastardo, non devi toccarmi!”
Avevo il suo sguardo feroce posato sui miei occhi. Potevo essere fiero di lui, sarebbe diventato sicuramente un grande soldato.

«Perché reagisci così?»

«Voglio sapere dove mi stai portando.»

«A casa.»

«Quale casa? Tu devi essere pazzo. Non c’è nulla qui fuori!»

«Ora basta, idiota» urlai, «ho ben altro da fare che ascoltare le tue farneticazioni! Ma un giorno mi ringrazierai, ti sto facendo dono della libertà.»
Mentre terminavo la frase, con un colpo deciso del gomito ruppi del tutto il mio finestrino. Non mi fidavo di quei maledetti robot. Tenendomi saldamente al montante con la mano destra mi sporsi pericolosamente, guardando alle nostre spalle. Experia VI era oramai lontana. Ciò nonostante potevo vederne ancora l’immensa base, lucente al tramonto. Sapevo che torreggiava ben oltre il basso e denso strato di nubi che avviluppava oramai il mondo. Saliva altissima fino ai margini della troposfera, sfidando i venti estremi, allungandosi a rubare l’enorme quantità di energia solare di cui le macchine si nutrivano. Tutto sembrava tranquillo mentre il terreno scorreva, lento, sei metri più in basso. Due esemplari di scorpioni, ingigantiti dalle mutazioni genetiche indotte dalle radiazioni, seguivano da vicino il nostro mezzo, attirati dalle vibrazioni del terreno.

Rientrai. Con un paio di pacche della mano tentai di scrollarmi di dosso un poco di polvere. Sorrisi, rendendomi conto subito dell’inutilità del gesto, quindi controllai la nostra posizione.

Eravamo ormai in prossimità della discarica, una immensa fossa scavata nel nulla del deserto dove venivano gettate deiezioni e cadaveri umani assieme ai relitti di macchine divenute obsolete. L’odore aspro dei corpi in decomposizione, delle feci e delle urine riempì la cabina. Digitai sul mio pad le coordinate che la resistenza mi aveva comunicato. Con un forte sobbalzo il mezzo abbandonò la pista scavata nel deserto dai ripetuti passaggi.

«Vieni, qui c’è la nostra fermata!»
Il tono era imperativo ma, probabilmente, fu per il suo terrore di rimanere solo che ottenni collaborazione. Lo cinsi con un braccio e discendemmo con attenzione la scaletta, tra mille scossoni. Con un mio ultimo balzo deciso fummo a terra, divorati dalla nube sollevata dal truck. Rimanemmo immobili per alcuni minuti in attesa che si diradasse, impossibilitati ad aprire bocca e occhi. Il mezzo imponente avrebbe proseguito la sua corsa fino all’esaurimento delle batterie. Noi saremmo andati in direzione opposta, depistando un eventuale inseguimento. «Tieni, prendi un po’ di acqua» dissi, passandogli una borraccia, «ci attende un cammino difficile.»

 

19 Gennaio 2199 – undici ore dalla fuga – Terra di nessuno.

Avanzavamo da tempo nel vuoto monotono del deserto, accompagnati esclusivamente dalla voce costante del vento. Il ragazzo cadde a terra, sfinito dallo stress e dal freddo rigido della notte. Lo sollevai con amore sulle spalle e ripresi la marcia.

 

20 Gennaio 2199 – sedici ore dalla fuga – Terra di nessuno.

La sabbia volava dappertutto. Finalmente il segnale del mio pad. La posizione prevista era stata raggiunta! Posai a terra mio figlio, sedendomi accanto a lui e riparandolo quanto più possibile dal vento con il mio corpo. Ora dovevamo solo attendere.

 

20 Gennaio 2199 – venti ore dalla fuga – Terra di nessuno.

Cominciavo a preoccuparmi. Poco meno di tre ore e l’esposizione alle radiazioni sarebbe divenuta letale per le cellule.

«Dove siamo?» Aveva finalmente riaperto gli occhi e mi parlava con voce flebile. Sollevai delicatamente la sua testa, aiutandolo a bere. Ingoiò con avidità fino all’ultima goccia. Passarono lunghi minuti di silenzio.

«Non hai ancora risposto alla mia domanda. Dove siamo?»

«Al di fuori dello spazio controllato dal Governatore di Experia VI, in quella che tutti chiamano “Terra di nessuno”. Se vuoi posso precisarti le coordinate, ma non credo possano dirti molto.»

«Perché mi hai trascinati fino a qui?»

«Te lo ho già detto, per farti dono della libertà.»

«È vero, scusami, come ho potuto dimenticarlo? Ora sono libero…di morire,» disse ironico.

«No, non morirai, almeno non ora. Tra poco verranno a prenderci.»

«Chi?»

«La resistenza.»

«Ma la resistenza è solo una leggenda!»

«No, mi hanno contattato.»

«Anche supponendo che esista, la resistenza avrebbe contattato te? Tu sei sicuramente pazzo.»

Si alzò a fatica e cominciò ad allontanarsi, barcollando.

«Dove pensi di andare?»

«Forse ci stanno cercando, vorranno indietro il loro schiavo, no?»

«Non essere stupido. Anche se avessi con te acqua e cibo, ratti e scorpioni si contenderebbero la tua carne per la cena!»

Poi una improvvisa vibrazione del terreno e un sibilo costante attrassero la nostra attenzione. Qualcosa si avvicinava, velocemente.

La mano corse per istinto al calcio della pistola, ma poi si ritrasse. Sarebbe stata del tutto inefficace se fossimo stati raggiunti dalle squadre di ricerca delle macchine.

Afferrai allora mio figlio e lo abbracciai, incurante della sua riluttanza.

Dopo pochi secondi tre mezzi corazzati si fermarono a circa cinquanta metri da noi.

Il busto di un uomo con elmetto e mimetica da combattimento uscì dal tetto di uno dei mezzi. Non erano pattuglie del Governatore. La resistenza ci aveva raggiunti!

«Visto, che ti avevo detto?» Finalmente lo vedevo sorridere, con occhi da bambino che brillavano increduli di gioia. Una raffica di vento diradò l’ultima polvere e io salutai con un braccio. Cominciai ad avvicinarmi ma l’ordine che giunse fu perentorio e inaspettato.

«Fermi dove siete! Adesso lascia andare il ragazzo.» Perplesso obbedii e il mio braccio, con riluttanza, lasciò la presa.

«Ora, ragazzo, fai lentamente venti passi alla tua destra e poi avanza verso di noi. Tu invece non fare un solo movimento e attendi istruzioni!»

Non capivo, non riuscivo a capire il perché quell’atteggiamento.

Due soldati usciti dallo sportello posteriore del secondo mezzo afferrarono mio figlio. Tutto si svolgeva velocemente, troppo. Non mi piaceva affatto. Cominciai a correre verso di loro. Feci appena in tempo ad udire il rumore dei mitra pesanti che sparavano. Mi accasciai al suolo.

Stavo morendo.

Ma il dolore più grande, l’ultimo perverso regalo della mia mente prima della fine, fu quello di vedere mio figlio abbracciare quegli uomini, indifferente alla mia sorte.

Perché? Perché?!

 

21 Gennaio 2199 – quarantatré ore dalla fuga – Terra di nessuno.

«Signore, lo abbiamo trovato.»

«Bene, scendiamo.»
Sul volto metallico dell’ufficiale si riflettevano le nubi rossastre. Al suo comando l’aeromobile disegnò uno stretto semicerchio nell’aria e quindi cominciò una discesa controllata. Una decisa vibrazione strutturale indicò l’avvenuto atterraggio. Il ventre del mezzo si aprì lentamente e l’ufficiale discese la rampa, accompagnato da due pesanti unità da combattimento. A passi decisi che tradivano impazienza, si avvicinò al robot fuggiasco, o meglio ai resti del suo corpo metallico, crivellato dai proiettili all’uranio impoverito della resistenza.

«Allora è tutto vero! Il Governatore era stato ben informato. Si tratta del primo caso di contagio nella nostra città. Devo riferire.» E si voltò per ritornare a bordo.

«Signore, che ne facciamo dei resti del traditore?»

L’ufficiale si fermò. «Traditore? Quel robot non è un traditore!»

«Ma… signore, è fuggito rubando uno degli schiavi del Governatore!»

«Non sapeva di farlo. Era convinto di essere un uomo.»

«Un uomo?! Come è possibile, Signore?»

«Un software. Un virus, una nuova terribile arma della resistenza. L’infezione rende schiave le nostre menti facendoci credere di essere uomini. I nostri scienziati li chiamano human.exe.»

Le unità da combattimento si ritrassero dai resti del loro compagno, terrorizzati.

L’ufficiale scoppiò in una fragorosa risata. «Idioti, voi non potete essere contagiati, le vostre sono menti da soldati, troppo elementari per poter essere colpite. Ora andiamo.»

«Signore, un’ultima domanda.»

«Dimmi soldato.»

«Cosa ci distingue dagli uomini che combattiamo?»

«Vuoi davvero saperlo?»

«Si»

«Allora punta l’arma verso il tuo compagno.»

Il robot sollevò il suo laser.

«Ora spara, è un ordine!»

Un secondo dopo una seconda macchina giaceva a terra, fumante.

«Vedi, se tu fossi stato un uomo non avresti obbedito… forse.» Quindi si avviò verso l’aeronave mentre il vento trascinava con sé, nel nulla del deserto, la sua risata beffarda.

 

Questo racconto è World © di Giuseppe Di Faustino. All rights reserved

Giuseppe Di Faustino
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Nato a Tivoli il 20 gennaio del 1973. Laureato in giurisprudenza, vive a Cerveteri con la compagna di avventure Manuela e i figli Alessandro e Giordano. Affetto da patologica passione per la fantascienza dalla classica Star Trek, al fantasy Tolkieniano, al complottismo di X-Files e l’onirismo di Lovecraft. Ha pubblicato due brevi racconti con Edizioni Scudo.

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