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METÀ DELLA VITA

METÀ DELLA VITA

La copertina è World © di Roberta Guardascione
disegnata appositamente per questo racconto.

Scelti dal Direttore

Olsen si fermò all’inizio del vialetto e guardò la casa. Lo stato di semiabbandono in cui versava era evidente; certo se ben conservata avrebbe rappresentato un magnifico esempio dell’architettura del secolo precedente.

Si avviò, percorse il viale e indugiò ancora un attimo a guardare la bella facciata della  casa. Mentre premeva il campanello pensò: “Speriamo non sia tempo perso”.

«Desidera?»

Olsen quasi sobbalzò. Il massiccio portone si era aperto silenziosamente mentre il suo sguardo stava girovagando ancora tra finestre e decorazioni. Sulla soglia era apparsa un’anziana signora.

Sorridendo:  «Buongiorno. Sono Dan Olsen del Tribune. Ho un appuntamento con Mr. Running

La donna lo ascoltò cortesemente. Aveva uno sguardo sereno e lontano, quasi vivesse al di fuori della realtà. Con un cenno del capo lo fece accomodare in una grande e buia anticamera, alquanto squallida, con i pochi mobili coperti da lenzuola ingiallite e il lampadario polveroso.

«Mi segua.» – Mormorò e il giornalista obbedì.

Percorsero un corridoio sulle cui pareti pendevano quadri d’uomini austeri, severe figure maschili in pomposi abiti d’altre epoche. A Olsen parve d’avere su di lui i loro sguardi e cercò di scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione. La donna aprì una porta: «Prego.» – e si fece da parte. Il giornalista entrò.

Si ritrovò in una stanza semplicemente assurda e il suo sbalordimento fu così grande da non fargli neppure sentire la porta richiudersi alle spalle. Era intento a guardare arazzi settecenteschi alle pareti, e armature, spadoni, scudi ancora più antichi sparsi ovunque, e tetri animali imbalsamati poggiati su neri ed elaborati mobili antichi e libri polverosi, statuine esotiche, lampade, seggiole e mille altri oggetti che non avevano alcun senso nello stare insieme. Infine, dietro il grande tavolo ovale situato al centro della stanza, un vecchio. Un vecchio che lo guardava con un’espressione tra il compiaciuto e il divertito, perché gli aveva letto in volto tanta meraviglia.

«Mi scusi… Buongiorno… Sono Olsen, Dan Olsen del Tribune» – si affrettò a dire, – «mi ero distratto a…»

«Non si preoccupi» – lo interruppe il vecchio, – «lei è il giornalista che mi ha telefonato stamani per un’intervista. Perché mai un giornale così importante dovrebbe interessarsi a me?»

Olsen osservava quel vecchio dagli occhi chiari; era benevolo e austero allo stesso tempo e aveva una strana, strana espressione negli occhi. Il giornalista prese il coraggio a due mani:  «Mr. Running, vorrei che mi parlasse di Koblac!»

L’espressione indefinibile del vecchio si accentuò e per un attimo diventò sognante. Quel nome aveva visibilmente richiamato vecchi ricordi alla sua mente. Il giornalista incalzò:  «Signore, Koblac è morto ieri sera. A me interessa stabilire una sola verità: era un mago o un ciarlatano? Lei può aiutarmi. Si dice che l’abbia conosciuto personalmente. Lei può aiutarmi a ricostruire almeno in parte la sua vita.»

Lui chinò lo sguardo, pronunciò in un soffio:  «Koblac »- e rispose:  «Credo, giovanotto, che forse la deluderò. Oh, no, non tema, le ho promesso l’intervista e manterrò la parola, ma una risposta alla sua domanda forse non ci sarà mai. Lei vuole da me una verità che io dopo quarant’anni non sono riuscito a definire. Lei mi chiede di scavare nel mio passato per stabilire se Koblac sia stato un maestro o un buffone. Io Koblac l’ho accettato. Solo questo. Io gli ho creduto perché vi sono momenti nella vita di ognuno in cui qualunque cosa o persona può diventare la verità, il credo. Una sola cosa è certa: quello che più desideravo l’ho avuto. E me lo ha dato Koblac – Riprese fiato ma senza mostrarsi affaticato nonostante l’età avanzata. Da un taschino della giacca tirò fuori una busta di tabacco e una pipa artistica che riempì meticolosamente.

Olsen si mosse a disagio sulla sedia che aveva occupato senza invito. Sperò ancora una volta di non star perdendo tempo. Il vecchio accese la pipa, aspirò due boccate emettendo un fumo azzurrognolo che si perse tra i grossi riquadri del soffitto.

Il giornalista non resistette più: «Mr. Running, ma lei cosa ha chiesto a Koblac?»

Il vecchio sembrò non udire. Aveva un’espressione assorta. Poi d’un tratto, riprese a parlare, anche se si intuiva lo faceva soltanto per se stesso.  «Conobbi Ann circa quarant’anni fa. Era bella, dolce, giovane. La volevo e doveva essere mia. – Tentennò il capo. –  Sa, sino ad allora nessuno aveva ostacolato il mio cammino. Conquistare Ann fu facile. Ero ricco, potente e la ebbi con l’inganno. Dopo poco me ne stancai e lei disperata sparì. Passò molto tempo senza che Ann si facesse più vedere, né io la cercai. Certo non guadagnerò la sua stima dicendole questo, ma ero giovane, ricco e molto sciocco.»

«Poi la rividi. Venne un mattino,  era pallida, aveva gli occhi cerchiati e il suo aspetto non aveva bisogno di alcuna spiegazione. Mi disse: “Nulla per me, ma per nostro figlio fa’ qualcosa”. E a vederla così trasformata, lei, Ann, un giunco affilato al vento, a vederla implorare per il frutto d’un mio capriccio sentii dentro di me qualcosa spezzarsi. Le dissi: “Ti sposerò, per nostro figlio, è tutto quello che posso fare. Ma per te stessa non chiedermi nulla. Io non ti ho mai amata.”»

«Era lo stupido orgoglio che mi faceva parlare in quel modo.  E così feci. Non ebbi neppure il tempo di impostare quello strano ménage matrimoniale che Ann si trovò alle prese col parto. Era venuta da me al termine della gravidanza, onesta sino in fondo, lo aveva fatto per il figlio e non per se stessa. Mi ritirai nel mio studio mentre nella camera da letto si compiva l’evento. E cercavo di pensare soltanto al figlio che stava per nascere, cercavo di convincermi d’aver dato il massimo a mia moglie. Nacque un maschio. Fui ancora più tronfio nel mio orgoglio. Brindai da solo a mio figlio. Poi decisi d’andarlo a vedere.»

«Non potrò mai dimenticare la scena che mi si presentò agli occhi. Ann era distesa sul letto e mi guardava implorante. Il suo viso era cereo, le sue labbra avevano tentato un sorriso al mio ingresso senza riuscirvi e io capii, capii che stava molto male. Il dottore molto anziano che l’aveva assistita nel parto le controllava il polso e molte rughe gli solcavano la fronte. Mia moglie stava morendo.»

«Sì, capisco la sua perplessità, pensi quello che vuole, ma io ne ebbi subito la certezza, come un’intuizione e quando in un eccesso di tosse vomitò sangue il mio cuore si fermò. Le fui accanto e per la prima volta dopo tanto tempo le strinsi le mani. “Cos’ha?” chiesi con voce tremante. Il medico scosse il capo e rispose: “È molto difficile dirlo. Dovrò fare delle analisi.” e uscì. Fu quello che successe dopo a piegarmi le gambe.»

Il vecchio restò imbambolato a guardare nel vuoto fumando lentamente poi abbassò lo sguardo sulla sua scarna mano libera che stringeva a pugno e con una breve inflessione della voce continuò: «Le stavano avvicinando il bambino, ma lei con uno sforzo immane lo allontanò da sé. Aveva intuito la gravità del male. Fissò il figlio con amore, fissò me e i suoi occhi m’implorarono: “Abbi cura di lui.” Un nodo mi strinse la gola.»  Tirò su col naso ma riprese subito: «Oggi sanno tutto sull’embolia post partum, ma non possono far molto. Quarant’anni fa si procedeva a lume di naso e non c’era nulla da fare. Le cure furono molte. Non lesinai denaro, ma la febbre era sempre più forte, Ann sempre più debole e la mia disperazione sempre più profonda. Le stavo vicino e lei nel suo delirio sapeva regalarmi sguardi di dolcezza. La mia ricchezza non poteva salvarla eppure mai come in quei giorni avevo desiderato la vita di Ann, per me stesso, per farmi amare e per imparare io ad amare quella ragazza straordinaria.»

«La vita di Ann, signor Olsen, ecco cosa potevo chiedere. Ma a chi? La scienza non poteva più venirmi in aiuto. La fede? Sì, ormai soltanto per fede potevo chiedere di riavere Ann. Così tentai tutto e la mia carta il settimo giorno fu Koblac.»

L’attenzione del giornalista si accese. Forse non aveva perso tempo.

«Avevo sentito parlare di un mago che faceva miracoli, ma ero molto scettico in proposito e confesso che se non fossi stato in preda alla disperazione l’idea non mi avrebbe neanche sfiorato la mente. Mi chiedevo se avessi tentato di tutto e la risposta che davo era sempre affermativa, ma un chiodo fisso mi pungeva l’anima: Koblac. E se…  e se… Avevo diverse volte cacciato dalla mente quel pensiero, ma il settimo giorno sembrava l’ultimo per mia moglie.»

«Maestro o ciarlatano? Non lo so, forse non lo saprò mai, ma questo allora non aveva importanza. Io volevo la vita di Ann e l’avrei chiesta a chiunque. La scienza mi aveva risposto di no. E io mi affidavo forse a un ciarlatano. Andai subito da lui. Volevo parlare, spiegargli, tuttavia non mi lasciò dir nulla. Quando giunsi dietro la porta della sua casa questa si aprì e sulla soglia comparve lui. Era incredibile il magnetismo che quell’uomo sprigionava. Era asciutto, con i muscoli a fior di pelle, il volto scavato; l’estrema magrezza lo faceva sembrare molto alto. Una fluente barba gli ornava il mento, era però ben curata, come pure i lunghi capelli neri. I suoi occhi, capaci di passarmi da parte a parte, erano stranamente dolci e stonavano su un volto i cui lineamenti duri sembravano tagliati con un’ascia. Aveva belle mani, con dita lunghe, affusolate, da pianista, non portava anelli né collane o altri amuleti ed era vestito in modo normale. Mi disse: “Presto, dobbiamo sbrigarci altrimenti non si potrà fare più nulla” e uscì di casa quasi correndo. Io che non avevo ancora aperto bocca, la spalancai per lo stupore. Presi a seguire quell’uomo di corsa per il suo lungo passo, lo seguivo quasi fosse una chimera, come si segue la speranza di un miracolo e le si rimane aggrappato rompendosi le unghie sin quando la realtà non ti fa lasciare la presa con un calcio. Entrò nella mia casa come fosse la sua, salì le grandi scale e infine si fermò dietro la porta della camera da letto e disse con voce glaciale che feriva come la lama di un coltello: “Pensa ancora d’aver fatto tutto per Ann?”»

Il tono del vecchio si era riempito d’amarezza. S’accorse che la pipa si era spenta e con calma la riaccese. Tirò nuovamente due brevi boccate e riprese: «Koblac entrò nella stanza di Ann, ma si fermò prima sulla soglia. Col capo quasi toccava l’architrave. Le sue lunghe braccia si posarono sugli stipiti. Guardandolo bene mi accorsi che pareva stesse soffrendo. Nella stanza l’aria puzzava di sudore e medicinali, mentre la penombra creava cupi effetti sui volti dei pochi presenti. Per un istante temetti il peggio, ma Koblac si girò verso di me, mormorò: “Siamo ancora in tempo.” ed entrò. Mi precipitai nella stanza e mi inginocchiai presso mia moglie; respirava affannosamente, scottava e grosse gocce di sudore le scendevano dalla fronte e dal collo bagnando il cuscino. Le presi la mano e mormorai: “Coraggio, ti ho portato Koblac. Ti prego credi in lui. È la nostra ultima speranza”.»

«Ann parve non udirmi poi i suoi occhi si posarono sul mago che le si avvicinò e nel silenzio più totale abbassò le mani verso il seno della donna gravido di latte sfiorandolo. Poi prese a muoverle seguendo i contorni del corpo sempre senza mai toccarlo, spostandole dalla gola all’ombelico, varie volte, su e giù.»

«Non sapevo cosa pensare. Guardai il dottore che mi rivolse uno sguardo scettico ma speranzoso. Gliene fui grato. Il silenzio si era fatto opprimente infine: “Polmone destro. Un grumo di sangue impedisce il suo normale funzionamento, il tutto aggravato da bronchite. È in fin di vita”.»

«Il dottore impallidì: “Come… come fate a saperlo? Solo io..”.»

«“Si può fare qualcosa?” chiesi interrompendo il medico. Ero sulle spine e bruscamente ripresi: “Cosa aspettate? Ogni attimo può essere l’ultimo.” Rivolse i suoi occhi verso di me e mi pentii di essere stato brusco: “Scusate ho i nervi a pezzi”.»

«Lui parve non badare alle mie banali scuse e mormorò: “Io non creo la vita, posso trasferirla.” Sì, questo fu il preciso termine che usò. Trasferirla.»

«Cosa vuol dire? chiesi.»

«”È semplice, posso infondere vita in lei solo prendendola da qualcun altro”.»

«“Darei ad Ann” esclamai “tutta la mia vita. Prendetela”.»

«Sa, giovanotto, non lo sapevo, né ne sono certo ora, ma quel modo di dire forse poteva sul serio costarmi l’esistenza. Oh, non che mi sarei tirato indietro, l’avrei fatto davvero.»

«“Il polso è ancora più debole.” Disse il dottore.»

«“Prendete la mia vita.” Ripetei.»

«“Io non prendo nulla” mormorò Koblac, “è ad Ann che la date, ma non tutta, solo metà. Ha bisogno di metà della vostra vita”.»

«“Vi prego, dategliela” risposi con convinzione.»

«Lui non attese più. Prese una mia mano con la destra, ne prese una di Ann con la sinistra e mi fece sedere.»

«“Non vi chiedo di credermi, ma pensate a vostra moglie.”»

«E c’era bisogno che me lo chiedesse? Fissai il volto di Ann e pregai: “Vivi, ti scongiuro… vivi”.»

«Koblac pareva assorto. I suoi occhi fissi guardavano il vuoto e teneva le labbra serrate. Aveva iniziato a sudare abbondantemente e ogni tanto era scosso da violenti brividi. Inizialmente non percepii nulla in me, poi soltanto una crescente debolezza. Sentivo molta energia abbandonarmi, le gambe non mi avrebbero retto, ne ero certo, per fortuna ero seduto. Poteva essere autosuggestione, non so, cercai di reagire, ma davanti avevo Koblac, la mia mente poteva non credergli, ma doveva accettare la sua presenza. I brividi si intensificarono poi divennero tremiti violenti.»

«Il mago era diventato rosso in viso, come stesse facendo uno sforzo immane. Sudava e ben presto i suoi vestiti furono inzuppati. In quel frangente capii l’estrema magrezza di Koblac e mi chiesi se ne risentisse. A vederlo in quel momento sembrava proprio di sì. I muscoli del collo erano tesi allo spasimo e una vena pulsava ben visibile. Ma starete chiedendovi di Ann. Non riuscivo a capire se stesse meglio o no. Aveva sempre gli occhi chiusi, la fronte tesa e pallida, l’altro braccio abbandonato lungo il fianco e i suoi bei capelli sciolti sul cuscino.»

«E basta. Non saprei dirvi più nulla perché svenni.»

«Quando ripresi i sensi, pochi minuti dopo, il dottore era chino su di me e mi aveva messo dei sali sotto il naso. “Come sta Ann?” chiesi subito. Lui parve incerto, forse deluso o seccato, non lo capii: “Come prima, non è successo nulla”.»

«“Sentivo il mio corpo forte come sempre. Mi sentii tradito.»

«“Koblac” gridai, “maledetto ciarlatano!”»

«Fu subito accanto a me. Il suo sguardo era duro, non cattivo e il volto tradiva una profonda stanchezza. Stava asciugandosi il sudore della fronte con un fazzoletto.»

«“Maledetto ciarlatano!” ripetei con rabbia.»

«Lui non si curò dell’insulto, forse ne era abituato. Fece per uscire dalla stanza poi si fermò sulla soglia e girandosi verso di me disse: “Ricorda, META’ DELLA VITA… DELLA TUA VITA.” e se ne andò.»

Il racconto aveva polarizzato l’attenzione di Olsen e non solo la sua. Per la seconda volta il vecchio si accorse che la pipa si era spenta. Tentò di riaccendere il fornello aspirando con forza, ma non c’era nulla da fare. Cercò nuovamente i fiammiferi, li vide sul tavolo e stava allungando la mano per prenderli quando ci ripensò e con un sorriso spiegò: «Sa, giovanotto, non posso fumare molto.» Pareva si divertisse a lasciare in sospeso il racconto e nell’aria, con il tenue profumo di tabacco, pareva aleggiare una domanda.

Olsen non si trattenne più e chiese:  «Ann morì?»

Il vecchio scrollò il capo, poggiò le braccia sul tavolo fissando il giornalista: «Ann è la donna che le ha aperto e l’ha fatta entrare. No, signor Olsen, non morì. La gente gridò al miracolo, il medico incredulo veniva a casa mia accompagnato da colleghi per studiare il caso. E io pensavo a Koblac.»

«Da quando era andato via, seduto presso il letto avevo vegliato mia moglie per tutta la notte, trasalendo a ogni sussulto, disperandomi per ogni goccia di sudore che versava. Fu una notte terribile che non potrò mai scordare. Un anno mi sarebbe sembrato più breve, ogni istante per lei poteva essere l’ultimo. Ma non morì e che sarebbe sopravvissuta me ne accorsi all’alba quando un debole raggio di sole illuminò la stanza. Al principio attribuii ad esso il colorito roseo di Ann, ma poi, guardando meglio, vidi che era naturale, spontaneo.»

«Mia moglie aveva superato la crisi. Le mani mi tremavano quando lei aprì gli occhi e tentando un sorriso sussurrò: “Grazie.”»

Questa volta Olsen aveva visto una lacrima scivolargli su una guancia.

Il vecchio non ci fece caso, pareva assorto in profondi pensieri. Il giornalista non voleva fargli alcun male, ma una constatazione gli bruciava sulle labbra. Lui parve accorgersene:

«Dica pure, giovanotto, so che vuol farmi una domanda.»

Incoraggiato Olsen non si trattenne più: «Koblac –  esclamò, – sempre Koblac! Mago o ciarlatano? Ancora non ho una risposta. Se il suo intervento salvò Ann, ripeto se, era un mago, o un guaritore, come preferisce, ma in questo caso lui chiese metà della sua vita. Lei ha superato i settant’anni. Nessun uomo può vivere più di centoquarant’anni.»

Il vecchio parve improvvisamente stanco e il giornalista temette d’averlo ferito, ma si sbagliava. Con una calma incredibile rispose:  «Metà della vita, signor Olsen, può voler dire molte cose. Io l’ho pagato, ho pagato la vita di mia moglie. Da quella sedia vicino al suo letto io non mi sono mai più alzato.» Con uno scatto delle mani, sempre seduto, si allontanò dal tavolo e uscì dalla stanza sulla sedia a rotelle.

Donato Altomare
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Nasce a Molfetta nel 1951. Narratore, saggista, poeta, ha vinto due volte il Premio Urania, il premio della critica Ernesto Vegetti e otto volte il Premio Italia. Autore del genere fantastico è stato pubblicato dalla maggior parte degli editori. Nel maggio 2013 è stato nominato Presidente della World SF Italia, l’associazione italiana degli operatori della fantascienza e del fantastico.

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