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CALIGINE, TERZA PARTE

CALIGINE, TERZA PARTE

L’immagine di anteprima è di Roberta Guardascione. World © di Roberta Guardascione. All rights reserved.

Scelti dal Direttore

Il racconto Caligine è pubblicato a puntate.


 

Quarta parte

7

Il gigante se la butta sulla spalla e la trasporta attraverso lo scheletro di metallo; ogni passo è un tuono in quell’inferno brulicante di vita. Un odore forte di cibo, di fumo, di cose bruciate le aggredisce le narici. Uno stuolo di ragazzini sporchissimi, ricoperti di placche di metallo e pelli, segue esultante il ritorno dell’energumeno. Andrea immagina quei bambini infestati di parassiti, ammalati, affamati.

Come vivono sul suolo inospitale? La struttura traballante di un ex quartiere è la loro casa?

Durante il tragitto vede anche qualche lurido animale, capre, cani: carcasse di pelo dagli occhi umidi la fissano dagli angoli delle sale vuote, dalle basi delle scalinate e da dietro le gambe di uomini e donne intenti a fondere sportelli e marmitte in altiforni ricavati in quelle che un tempo erano state camere da letto, cucine, salottini e che adesso erano antri foderati di ghisa e divorati dal fuoco.

Prima di essere afferrata, Andrea ha assistito alle procedure di sgombero dagli autoarticolati di decine di persone provenienti dalla sua Torre, tutti legati tra loro, seminudi e pallidi come spettri. Ha riconosciuto una delle maestre di Martina che al momento dell’attacco non era nella ludoteca, l’addetto all’ascensore del terzo livello, due dei colleghi di suo padre e un numero troppo alto di bambini tra i quali però non le pare di avere visto sua sorella. Ha provato a chiamare per nome la maestra nel disperato tentativo di domandarle se sapesse qualcosa, ma il gigante le ha tappato la bocca con una mano e se l’è messa in spalla.

Andrea viene scaricata, tutta tremante, su un tappeto sudicio in un corridoio largo e poco esposto al vento. Le pareti dello stabile sono ricoperte di disegni osceni e altri incomprensibili, forse codici di linguaggio, forse simboli legati alla spiritualità. Dagli enormi buchi nei muri che cento anni prima sono state finestre, non è possibile vedere nulla se non il chiarore opaco della nebbia che tutto cela, che tutto ingoia.

Una donna dalla pelle olivastra e capelli bianchi lunghi fino a terra stretti in tre pesanti trecce, le porta un involto caldo e una piccola borraccia. Senza dire una parola s’allontana. Andrea osserva le cavigliere di piccole ossa e il pesante mantello decorato da quelle che a prima vista sembrano conchiglie fossili.

Non ha sentito diffidenza in lei, se mai una sorta di indecifrabile rispetto. Intanto decine di occhi la osservano, i piccoli battono le mani come se la sua presenza fosse un dono arrivato dal cielo.

Dentro al panno c’è un pezzo di pane accanto a tre striscioline di carne essiccata. Andrea incrocia le gambe e trangugia tutto. Beve avidamente l’acqua che c’è nella borraccia di cuoio, senza chiedersi se sia buona. Se quella gente sopravvive nel mondo annebbiato, può farlo anche lei. Sopravvivere e fuggire. Tornare alla Colonia, da Martina e non lasciarla più.

8

Andrea si sveglia di soprassalto. I corridoi e le stanze dei locali in rovina pullulano di gente che balla e batte le mani. Qualcuno produce una rudimentale musica sfregando bacchette di osso su piccole spine dorsali bianchissime; la confusione aumenta d’intensità quando passa il gigantesco essere che l’ha rapita che, con un cenno della mano unghiuta, fa tacere la ressa. La voce è un tuono: annuncia qualcosa che provoca un’onda di eccitazione selvaggia nella folla. Andrea si schiaccia contro la parete, qualcuno le sfiora una spalla: «stai calma».

Parole comprensibili. La sorpresa è un tuffo al cuore, le gira la testa. L’uomo in piedi accanto a lei ha il volto nascosto in una folta barba divisa in complicati intrecci, ma Andrea ha già visto in passato quegli occhi, non si può sbagliare.

«Dottore!» sibila aggrappandosi al suo braccio: «dottore… credevamo che fosse morto nella missione di soccorso alla Torre Milano, ma cosa…»

«Sono morto quattro anni fa, infatti» lui le saggia la fronte. «Ti hanno fatto dormire e la febbre si è abbassata. Resta calma ora, qualsiasi cosa vedrai. Ti spiego tutto dopo».

I canti riprendono, accompagnano il passaggio attraverso il corridoio principale di sei persone vestite solo di collari e cinture di ossa: sono alcuni dei compagni della Colonia, diretti verso l’uscita. «Cosa… dove li portano?»

«Adesso li liberano» fa lui.

Andrea segue con gli occhi la marea subumana fino a che è possibile, poi si affaccia a una delle enormi aperture senza parapetto e scruta la fiumana occupare lo spazio antistante il palazzo, ora sgombro di nebbia per qualche decina di metri.

Il leader sprona i sei prigionieri nudi a camminare, allontanarsi. Non sono legati, nulla li frena, se non il muro di nebbia che circonda il cortile devastato. Andrea li vede tentennare, la pena le gonfia gli occhi di lacrime. Si tormenta le mani mentre l’orda subumana danza e intona orribili canti tribali e il gigante urla e solleva le braccia come se evocasse lo spirito stesso del mondo. Un grido così terrificante che i sei della Colonia si sparpagliano tutt’intorno e corrono via fino a svanire nella tetra caligine.

«Vieni» dice il dottore: «lo spettacolo è finito.»

Andrea piange mentre, qualche piano più giù, la festa impazza.

Quinta parte

9

L’ex direttore delle politiche di soccorso e cura della Colonia vive in un tubo di cemento arredato in modo semplice. Offre alla sua ospite acqua non corrotta da bacche sonnifere e siede con lei sul materasso logoro.

«Viviamo liberi, ci spostiamo a seconda del movimento dei banchi nebbiosi» spiega. «Nelle discariche intorno alle Torri troviamo quello che a voi non serve più e ce lo portiamo via. Con il cambiamento di vita non sono mutate certe dinamiche legate al consumismo, allo spreco e al valore che si dà al cibo e agli oggetti, vero? L’ho scoperto tardi, ma non troppo per cambiare la mia visione del mondo.»

«Un attimo, ma di che parli? Tu non sei come loro. Inizia col dirmi chi sono queste bestie.»

Lui ride e appoggia la schiena alla superficie arrotondata.

«Tu, come tutti gli abitanti delle Torri, sei convinta che esista una sola umanità: quella sana e salva nelle Colonie, vero?»

«Mi sbaglio?»

«Di brutto, sì. I vecchi e chi comanda sapevano ma hanno preferito dimenticare, o forse pensano che qua fuori la vita sia estinta. Tutt’altro.»

«Di che parli?»

«Quelli come te, invece, nati in gabbia, non sono stati messi al corrente di come andarono le cose, e del fatto che non tutta la popolazione delle città italiane ed europee trovò posto nelle megalopoli hi-tech di duecento piani, nelle nuove città del futuro sollevate da terra, no. Non tutti ebbero il privilegio. La maggior parte delle persone, ti parlo degli strati poveri della società, tutti quelli che non potevano pagarsi uno spazio nelle Colonie, restò fuori. Fuori restarono gli ammalati, le fasce deboli, i tossicodipendenti, i pazzi.»

«Che stai dicendo? Tutti furono salvati!» Andrea sta per piangere ancora.

«Eh no, principessa. Le selezioni per l’ingresso alle Colonie furono durissime e squallide, basate sul denaro: chi aveva i soldi entrava, chi non li aveva restava fuori e tentava di trovarli. Ti lascio immaginare a che livelli crebbe, in quegli anni, la criminalità. Tutto grazie alle multinazionali che gestivano e che gestiscono tutt’ora la catena coloniale europea. Vuoi saperla tutta?»

Andrea fa sì con la testa. È pallida. Il dottore sorride con l’aria di chi riveli uno straordinario segreto.

«Siamo molti di più noi, qui fuori, che voi, là dentro. La vera umanità in estinzione è quella che vive barricata nelle torri d’avorio, disabituata alle condizioni dure dell’esterno e dipendente da risorse che già scarseggiano e che presto finiranno. Cosa farete allora?»

«Basta!» Andrea fa per alzarsi, poi desiste. Quell’uomo è l’unico che può aiutarla e, anche se pazzo, potrebbe avere informazioni utili alla fuga.

«Basta, dici? Non vuoi sapere che questa gente che vive dei tuoi rifiuti è umana proprio come te? Gente più sfortunata che ha imparato ad adattarsi e che, col tempo, è involuta e cresciuta al tempo stesso; ha dimenticato il linguaggio e le regole morali e ne ha inventati di nuovi. Ha scordato le religioni e la storia del mondo, ma è ripartita da zero, dalla venuta della nebbia: 2017, esattamente novantadue anni fa. Una umanità giovane e geneticamente fortissima, contro un residuo di umanità debole e delicato, nato e cresciuto nella campana di vetro. Questo è il mondo oggi, mia cara. Nelle torri non si è rifugiata l’umanità migliore ma solo la più fortunata.»

«Perché ti hanno preso con loro?»

«Perché sono medico. Sono utile.»

«Perché hanno mandato via sei di noi prima? Cos’era quel macabro rituale?»

«Quei sei sono stati donati all’intelligenza che si nasconde nella nebbia. La collusione di questi popoli nomadi con la bruma è tra gli aspetti più affascinanti di tutta la storia» continua lui, gli occhi accesi: «la nebbia è viva. E come tutto ciò che è vivo, si nutre. E quando queste persone hanno capito che il cibo prediletto dalla nube è l’uomo, si sono industriati per procacciarglielo ed evitare che prendesse membri della comunità. E quale uomo è di qualità migliore di quello pulito e saporito delle Colonie?»

«Parli come se fossi uno di loro, mi fai schifo, tutto questo è orribile! E avevo capito perfettamente che la nebbia ha qualcosa di soprannaturale, non sono mica scema.»

«Assaltiamo i mezzi blindati e con quelli attacchiamo le Torri con la duplice intenzione di depredarle e di trascinare fuori o rapire più persone possibile da dare in pasto a…» lui s’interrompe. «Soprannaturale?» scoppia a ridere: «le stupide leggende che spopolano nelle Colonie di mostri e fantasmi eh? Poveri idioti.»

«Dimmi la verità allora!» Andrea nasconde il viso tra le mani.

«Quando tutto ebbe inizio, l’Europa era un fiorire di tecnologie all’avanguardia, programmi spaziali di altissimo livello che prevedevano l’invio di messaggi nello spazio, contenenti informazioni genetiche e biologiche riferite all’uomo e alle specie animali dominanti. Il narcisismo folle e ingenuo di credere che se fossero realmente esistite altre forme di vita, queste avrebbero interagito amichevolmente con noi mandandoci indietro una emoticon, tradì l’uomo. Qualcuno non solo rispose al messaggio, ma inviò sulla Terra una spora virale fatta ad hoc per sterminare la vita. Un virus intelligente, in grado di decidere, di scegliere, di comunicare. Ecco la divinità venuta dallo spazio che terrorizza i coloni e che fa squadra con noi, qua fuori. Una volta l’ho sentita parlare. È stato terribile e magnifico al tempo stesso.»

«Parlare?» Andrea ha gli occhi sporgenti e umidi di pianto, il respiro affannato. «Quando ti ha parlato?»

«È stato quando toccò a me camminare nella nebbia. È la nebbia a decidere chi va e chi resta. Non saprei tradurre quello che ho sentito ma so che non mi ha mangiato poiché ero utile alla comunità. E quando sono tornato, sano e salvo, mi hanno accolto con feste e gioia. Perché accade raramente che qualcuno torni indietro. Ho spesso pensato che se esiste un preciso intento nell’intelligenza aliena, potrebbe essere quello di riportare l’umanità al suo stato più autentico, al legame con la natura selvaggia, con la vita, il sangue, la terra. Ricominciare da capo insomma.»

«Tu sei impazzito, aiutami a scappare!»

«Io non posso fare niente. Dipende da quello che sei.» fa lui. «E ora spogliati, mi è stato chiesto di accompagnarti fuori per l’offerta serale, la più importante della giornata. Un onore che probabilmente non puoi comprendere».

10

Andrea trema nel vento. Le collane di falangi distali e prossimali bucate e infilate in pezzi di spago di cui è ricoperta, accompagnano ogni passo con un suono dolce e sommesso. La pianura brulla si estende per qualche decina di metri davanti a lei, tagliata dal muro soffice e pallido che s’innalza per almeno venti metri. Un’onda anomala fatta di bruma. Un immondo fantasma alieno che deciderà della sua vita.

Per quale motivo dovrebbe risparmiarla? Dice tra sé.

Non aspetta che qualcuno la spinga ad andare. Volta le spalle alla comunità rumoreggiante, all’umanità sconosciuta e selvatica che abita ancora il mondo, e al gigante che invoca il suo dio.

S’incammina verso l’intreccio di veli cerei che già le accarezza le caviglie e sale alle ginocchia, simile a vapore dotato di milioni di dita che la toccano, la studiano, la assaggiano.

Una disperata follia prende il posto della paura e la spinge avanti. Si domanda come deve essere morire divorata dalla bruma. Una fine poetica, pensa, mentre già i fianchi sono lambiti dalla marea lattea e ogni passo la conduce più in profondità nella bocca della bestia che vi si cela. E quando anche le spalle sprofondano nell’aura spettrale, sente qualcosa.

Che le stia parlando?

Un boato basso giunge lentamente a lei, profondo, oscuro. Un suono purissimo che pare salire dal sottosuolo e insieme scendere dalle altezze celesti la circonda e le rotea attorno come un invisibile sciame di insetti. La vibrazione antica aumenta d’intensità, fa tremare la radice della sua spina dorsale: un tocco intimo e potente che la commuove.

È come ascoltare molte voci e nessuna; forse un fiume sotterraneo, l’onda sonora di pianeti distanti o forse la risacca dell’oceano dentro una conchiglia.

Ancora un passo e tutto sarà finito. Andrea sorride nel bianco.

Fine

Emanuela Valentini
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Vive e lavora a Roma, ma è Londra la città dove il suo cuore si sente a casa. Adora i classici della letteratura ottocentesca per lo stile inimitabile e i temi trattati, ma legge di tutto. Scrivere, per lei, è essenziale come il respiro. Da qualche mese è entrata a fare parte della redazione di Speechless. Autrice di strane storie, ha un romanzo weird nel cassetto.

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