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CALIGINE, SECONDA PARTE

CALIGINE, SECONDA PARTE

L’immagine di anteprima è di Roberta Guardascione. World © di Roberta Guardascione. All rights reserved.

Scelti dal Direttore

Il racconto Caligine è pubblicato a puntate.


 

Seconda puntata

Seconda parte

3

Andrea è rannicchiata in un angolo con le mani premute sulle orecchie quando lui la scova e la solleva in aria con una mano. Se la butta sulle spalle e continua a camminare. Andrea vorrebbe svenire, morire; vorrebbe perdere i sensi ma questi restano vigili, lucidi nonostante il terrore.

Si aggrappa con le unghie alle pellicce ruvide di cui è ricoperta la schiena dell’essere e dondola tra scaglie e lame mentre lui cammina attraverso la hall devastata. La puzza è insopportabile; Andrea non ha mai sentito un odore simile se non, forse, ma con minore intensità, nelle stalle al quarantesimo piano che ha visitato da bambina. Afrore di animale, di urina e sterco, sudore e chissà cos’altro ancora.

Quando l’ha sollevata si è sentita sbattere contro il petto di metallo largo come il cofano di un furgone della Speed Line. Non l’ha visto in faccia perché ha il viso nascosto dietro un teschio allungato e dotato sulla sommità di brevi corna tozze e robuste.

Dopo un breve giro di ricognizione il mostro fa retro front. A larghi passi s’avvia verso l’uscita. I cancelli divelti sembrano bocche spaccate a furia di bastonate. In una lingua terribile la creatura dà ordini e decine di altri come lui s’inoltrano correndo nella Colonia. Adesso Andrea urla e si dimena; dopo il momento di stupore terrifico ogni muscolo del suo corpo reagisce alla paura. Quel pazzo la sta portando fuori, la sta portando a morire e dentro la Colonia c’è sua sorella.

Esplosioni dai piani superiori, spari. Dagli ascensori di tutti gli ingressi emergono mezzi blindati che convergono verso l’esterno. Andrea impreca, piange, urla con tutte le sue forze. Scalcia mentre vede la luce pallida dell’uscita avvicinarsi e lambire il pavimento dell’ingresso. Morirà. Farà una morte orribile.

4

L’impatto con l’esterno è una sciabolata di lanugine bianca e polvere. Andrea si avvolge sulla spalla del suo rapitore a proteggere gli occhi, le narici, le labbra serrate fino a sentire dolore, ma dopo qualche metro non resiste e socchiude le palpebre attraverso le dita.

Fuori ci sono due delle tre camionette militari della Colonia coi motori accesi, un tappeto di cadaveri ricopre la rampa d’accesso sud. La terza macchina giace rovesciata su un fianco, i treni di ruote oscillanti nell’aria immobile. Una distesa d’erba sottile, quasi bianca, ricopre il mondo a perdita d’occhio sotto un cielo livido. Sulla destra, in lontananza, le rovine di una immensa città. Andrea sa che è Roma per averla vista nei documentari e perché è da lì che la maggior parte degli abitanti della Colonia proviene, poi respira l’aria del suolo e non le brucia la gola, strabuzza gli occhi, trema: non c’è nebbia. Non ha mai visto una sola volta nella sua vita di sedicenne il mondo senza nebbia e, benché abbia sempre vissuto nei piani senza finestre, e da che ha memoria dichiari di schifare l’esterno, non è passato giorno senza che non abbia fatto una capatina al sessantesimo, da sola, giusto per gettare un’occhiata fuori, alla coltre grigia che ricopre il suolo per decine e decine di metri.

Fino a quel momento gli attacchi alle Torri sono state leggende pompate dal tam tam mediatico della rete; eventi sporadici avvenuti nelle Colonie del nord Europa, per lo più, e snobbate dalle centrali operative degli altri avamposti.

“E invece era tutto vero” pensa Andrea sconvolta.

La bestia che se la tiene in groppa grugnisce e avanza verso uno dei mezzi; nel via vai dei suoi, tutti coi volti nascosti dietro alle ossa o a placche di metallo, questi getta il leggero fardello sul retro quindi sale a bordo e parte, spingendo il motore al massimo. Arrotolata in un angolo, tra casse di armi e attrezzature militari, Andrea pensa a Martina e spera con tutto il cuore che l’esercito della Colonia sia in grado di respingere l’attacco e proteggere tutti quanti. Per lei è troppo tardi.

Terza parte

5

Il rivestimento interno della camionetta vibra e scricchiola come se stesse per disintegrarsi. Gli pneumatici sgommano, sbandano su quel che resta delle antiche strade. L’asfalto crepato è una lingua che spacca in due territori apparentemente senza vita. Vastissime lande brulle e deserte, costellate qui e là da rare costruzioni in rovina.

I proiettili sparati dalle forze militari della Colonia scheggiano il metallo esterno, si schiantano contro gli angoli smussati e fanno saltare via scaglie di vernice; le rifiniture in plastica e i coperchi dei fanali esplodono in mille frammenti.

«Ti prego lasciami andare, che te ne fai di me? Abbandonami qui e quelli per raccogliermi smetteranno di spararti addosso, ti imploro! Ho una sorella piccola alla Colonia… fermati… fermati!»

Schiacciata contro la lamiera nuda, le dita strette attorno agli appositi sostegni, Andrea non si stacca un attimo dalla finestrina posta sul retro del mezzo. Il vetro blindato è polveroso, ma le consente lo stesso una discreta visuale della Colonia che s’allontana e del mondo esterno, ferito e abbandonato da generazioni, la terra di cui sente parlare da quando è venuta alla luce. Grazie al finestrino ha la possibilità di seguire l’avanzata dei mezzi militari che li inseguono.

Quel mostro ha i minuti contati: dove pensa di scappare così, da solo, inseguito dalla milizia organizzata della Torre? Andrea scorge le sagome familiari delle camionette profilarsi nei sipari di polvere sollevati dall’accelerazione e si augura che non siano usciti proprio tutti, che non abbiano lasciato la Colonia incustodita, nelle luride manacce degli ominidi venuti dalla nebbia: tutt’altro che fantasmi. Sanno guidare, sparano e puzzano.

In quel momento qualcosa di molto simile a un siluro s’insinua tra le ruote, il fischio è insopportabile; “che fanno? Vogliono ammazzare anche me quei pazzi?”

«Fermati e fammi scendere prima che ci facciano saltare in aria!»

Andrea grida. La bestia alla guida grugnisce e sterza a sinistra come per lasciare la fascia asfaltata e tuffarsi sulla terra sconnessa e senza nome che scivola a perdita d’occhio fino a certi monti lontani.

“La visuale è sgombra” pensa la ragazza, “che la nebbia stia sparendo?”

«Perché qui non c’è bruma? Mi senti? Perché questo luogo è libero dalla nebbia che infesta il mondo?»

Lui borbotta smanettando con la radio, quindi blatera qualcosa che è come sentire il verso di un animale. Suoni gutturali come gargarismi gli rispondono da una frequenza disturbata.

«Vaffanculo. Mi hai sentito? Vaffanculo!»

Distratta dalla rabbia, Andrea molla la presa. Sbatte, rotola, si scontra con la parete prima di scivolare a terra tra mitragliatori e cassette di sicurezza. Grida perché ha la sensazione che il treno di ruote destro sia completamente sollevato dal suolo. La camionetta non rallenta, slitta, scarta lateralmente, adesso nell’altra direzione.

Attorno al corpo di metallo si susseguono le esplosioni. A fatica Andrea riconquista la finestrella giusto in tempo per scorgere banchi di caligine pallida e densa sorgere dal suolo e innalzarsi nell’aria, cancellare il mondo. Da quelle misteriose opacità vede emergere tre, quattro autoarticolati da guerriglia sconosciuti, immensi, tutti dotati di cannoni laterali e torrette di ferro simili a quelle dei carri armati.

Il terrore le attanaglia il petto. La vista ravvicinata della nebbia che ha decimato la vita sulla Terra le dà la nausea. Intanto gli ultimi arrivati affiancano i furgoni della Colonia, li accerchiano e ne fanno saltare per aria un paio a cannonate in pochi istanti. Il terzo sbanda e si schianta contro un traliccio dell’alta tensione corroso dal tempo.

Esaltato, il mostro alla guida vomita una risata acida che riempie l’abitacolo di un afrore folle; sporge l’enorme spalla dal finestrino spaccato, agita una piccola ascia e grida qualcosa di incomprensibile: poi si volta, le lancia addosso un paio di oggetti mollicci –un ratto dalla pelliccia ruvida come una scorza e una maschera antigas lercia – quindi devia verso sinistra e, ridendo delle grida disperate della sua prigioniera, s’immerge nella nebbia.

6

La nebbia, una densa coltre bianca, ricopre il mondo. La camionetta sobbalza per un tempo che Andrea giudica incalcolabile. Se non fosse per le buche e i tremendi scossoni potrebbe pensare di essere sospesa nel vuoto pallido.

L’assenza di punti di riferimento la confonde. Ha indossato la maschera e ignorato il topo; la faccia attaccata alla finestrella opaca, gli occhi puntati sulla vastità di nulla che circonda l’automezzo, Andrea crede di riconoscere sagome che si muovono nella caligine come dietro a spessi tendaggi polverosi. Terrorizzata s’allontana il giusto che le consente di vedere, nel riflesso della superficie opaca, che il dispositivo di sicurezza che indossa è privo del filtro e quindi inutile.

Se lo strappa dalla faccia, lo osserva e starnazza alla volta dell’autista ricoperto di squame e pellicce: «questa maschera è rotta! Mi hai dato una maschera rotta…» lui si volta e ride da dentro le ossa. La bocca sdentata è un orrido antro. Solo in quel momento Andrea si rende conto che neppure lui indossa una protezione contro il gas mefitico. Questo non basta: quella bestia informe sta masticando un secondo ratto, quindi quella che ha condiviso con lei era la sua colazione. Andrea si piega in due per vomitare ma è a stomaco vuoto e riesce solo a tossire e graffiarsi la gola. In lei si è acceso un inferno di ipotesi di cui il ratto è l’ultima preoccupazione.

“Le cose sono due” pensa “o questa bestia è geneticamente predisposta a vivere nella nebbia, il che mi sembra una follia, oppure …”

Vince il ribrezzo, si sporge tra i sedili per godere di una visuale più ampia e ha un colpo. Davanti al parabrezza della camionetta la strada è perfettamente visibile, non c’è l’ombra della foschia che invece attanaglia i fianchi del mezzo. È come se questo procedesse all’interno di una galleria di bruma, “pare che segua una strada indicata dalla nebbia, come se tra lui e la lattescenza là fuori esista una qualche intesa segreta…” il pensiero si arresta, Andrea tenta di riportare la mente a uno stato di razionalità: “no. Non è possibile. Per tutto c’è una spiegazione. Forse questi animali hanno imparato a conoscere gli spostamenti dei banchi nebbiosi e si muovono con destrezza nei labirinti che solo loro conoscono… ma chi sono? Da dove vengono e come hanno fatto a imparare senza morire?”

«Ehi scusa» esclama, rivolta all’unico altro occupante del mezzo: «la nebbia! C’è una specie di vita che la anima? Tu sei in contatto con lei? Puoi comunicare con lei?»

Lui grugnisce e rutta.

Andrea si lascia cadere sul retro, la schiena contro il sedile. I suoi, quelli della Colonia, sono andati. Persi. Confusi e sconfitti nella nebbia da creature disumane che vi si muovono attraverso con la massima destrezza. È sola e probabilmente non saprà mai se la Colonia, la sua casa, il suo mondo, è stata presa d’assalto o difesa dalla milizia. E adesso sa che non vedrà più suo padre che, con tutta certezza, ha fatto una fine orribile.

La paura le impedisce di piangere. Solo quando sente il motore scendere di giri trova la forza di alzarsi e tornare ad affacciarsi tra i sedili.

Sullo sfondo opalino vede profilarsi l’ombra di uno scheletro di dimensioni colossali; quella vista l’atterrisce, ci mette qualche secondo a capire che si tratta di un rudere architettonico, la povera ossatura di una serie di palazzi forse un tempo abitati, ora ridotti a un dedalo di impalcature in metallo vivo e cemento armato. “Un quartiere fantasma” dice tra sé. “O un’intera città, sepolta nella nebbia?”

«Abiti qui?» domanda all’autista, ora intento a posteggiare nello spazio buio sotto a un pilastro crollato addosso a una delle armature, ma lui non dà segno di ascoltare. La curiosità spinge Andrea a correre in fondo alla camionetta, azione che le costa la perdita definitiva di ogni speranza di uscire viva da quella sorta di incubo lucido. Sotto al suo sguardo la nebbia si chiude alle spalle del blindato, come a proteggerlo da eventuali inseguitori.

“Lo nasconde” pensa, di nuovo assalita da terribili supposizioni: “la caligine sembra viva… no, non può essere, non può essere.”

E mentre osserva, nella cappa bianca si aprono altri due, tre squarci chiari a svelare corridoi di aria trasparente e altrettanti mezzi – quelli enormi che ha visto attaccare la milizia della Colonia – irrompono rombando sotto ai palazzi in rovina.

Il racconto Caligine è World © di Emanuela Valentini. All rights reserved.

Emanuela Valentini
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Vive e lavora a Roma, ma è Londra la città dove il suo cuore si sente a casa. Adora i classici della letteratura ottocentesca per lo stile inimitabile e i temi trattati, ma legge di tutto. Scrivere, per lei, è essenziale come il respiro. Da qualche mese è entrata a fare parte della redazione di Speechless. Autrice di strane storie, ha un romanzo weird nel cassetto.

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