Seleziona Pagina

Quelli che aspettano

Quelli che aspettano

Quelli che aspettano (The Wait) è un racconto che Ricardo L. Garcia ha rielaborato da una sua vecchia proposta che in origine contava non più di tre pagine. Ricardo aveva mandato il racconto ad Altrimondi, ma gli avevamo detto che così com’era il racconto era troppo stringato e francamente non si capiva bene quale dovesse essere la storia. Trascorsi quattro anni, lo scrittore cubano, che però abita e scrive negli Stati Uniti, ci rimanda questo nuovo tentativo, decisamente completo, anzi brillante e che noi dedichiamo ai nostri lettori.

 

Apro gli occhi e mi guardo attorno imbambolato.

Perfetto, sono nel mio letto, e va bene. Dalla finestra entra un raggio di sole: è mattina. Ma stamattina non mi va che sia mattina. Un motivo deve esserci, lo so, ma non riesco a ricordarlo.

A dirla tutta, non voglio ricordarlo. Ma sarà inutile; il cervello troverà prima o poi un modo per pugnalarmi a tradimento.

Provo a richiudere gli occhi, ma il sonno vero non viene più. Eppure, sono troppo teso per fare qualcosa di diverso dal rimanere a letto a far finta di dormire. Oggi, oggi, che cosa succederà oggi?

Suona la sveglia; la spengo senza pensarci. Mi lamento piano: c’è un motivo per cui ho impostato la sveglia a quest’ora del mattino ed è il medesimo motivo per cui non voglio che questa mattina sia proprio questa mattina. Va bene, ho fatto del mio meglio per farmi credere di essere troppo addormentato per ricordare la vera ragione, ma ovviamente la sapevo, fin da quando ho aperto gli occhi. Guardo la foto incorniciata sul comodino e cerco di ingoiare la mia malinconia, come tutte le mattine.

Non è facile, soprattutto oggi. Ho un appuntamento. Il mio senso del dovere, eccetera, eccetera… Devo lavarmi, vestirmi, mettermi a posto.

Terminate le attività mattutine, attraverso la sala da pranzo comune di fretta avviandomi verso l’infermeria.

“… ci potevano essere mille altre possibili traiettorie, ma è passato proprio dentro l’orbita terrestre. Non ha sfiorato nessun altro pianeta; a me non sembra normale…”

È Bob che fa colazione e che propone il solito argomento, mentre mangia i suoi toast; impossibile farlo parlare d’altro; nemmeno al mattino presto, come adesso. Le sue teorie le hanno sentite tutti un milione di volte; sono sensate come qualsiasi altra idiozia a caso.

Ma poi c’è Kate, la dolce Kate, che viene sempre in soccorso del gruppo – la nostra piccola tribù, ormai la nostra famiglia, con tutte le virtù e le maledizioni che ciò comporta – lei chiede, con sollievo di tutti, di parlare d’altro e vorrebbe recitare una poesia su cui ha lavorato ieri sera. Non mi fermo ad ascoltare.

Ma saltare la colazione mi va benissimo, perché non voglio vedere nessuno e non voglio parlare con nessuno. Bene, mi hanno visto passare. Non voglio leggere la pietà nei loro occhi. È chiaro che non direbbero niente, però… Ma sì, va bene così, come sempre.

Non sopporto quelle espressioni di simpatia, un po’ tristi, un po’ pietose che uso pure io quando è il loro turno. È così. Che si deve fare?

Detesto questo giorno. Odio il fatto che sia il mio compleanno.

***

“Buongiorno, signor Steinbaugh.”

“Chiamami Mike e dammi del tu,” dico automaticamente, come sempre. So che lo fa solo per educazione; è così che ci si rivolge ai vecchi. Con rispetto e a loro si dà del ‘tu’ solo se esplicitamente autorizzati.

E però – tra noi due è il Dr. Velez che sembra vecchio, anche se è appena sulla cinquantina. Ha i capelli grigi, certo in modo prematuro, per via della continua tensione nella sua professione di medico. Poi si nota una incipiente calvizie, tantissime rughe sulla fronte, occhiali spessi. La innegabile pancetta. È molto professionale e di lui ci si fida istintivamente.

È competente il giusto, quando basta, è comprensivo e simpatico; potresti facilmente classificarlo come uno zio, ammesso di voler inserire un qualche parente in quella posizione. Se dipendesse da tutti noi, vorremmo aver a che fare solo con lui per i controlli di routine. Il dottor Gallagher non è peggiore, per niente; è anche lui un signore come il Dr. Velez, altrettanto professionale ed efficiente. Eppure…

Il fatto è che il dottor Gallagher è davvero troppo giovane.

“Scusa, Mike,” lui si scusa sempre. “Forza dell’abitudine.” Allarga le braccia. Capisco tutto: il buon vecchio dottor Velez lavora anche con un gruppo di controllo che è una buona parte del suo lavoro. Quelli del gruppo forse non sono informali come vorremmo essere noi. O magari, noi siamo stufi di essere trattati come vecchie reliquie. O come eroi. Non so bene.

 “Ma no… scusa tu. Solo che…”

Faccio fatica a trovare le parole giuste e lascio perdere. E poi, che vuoi spiegare; lui capisce benissimo, per quanto può capire uno che non fa parte del nostro gruppo. Comunque, capisce più di quelli che non ci conoscono; meglio del Dr. Gallagher di sicuro.

Mi stringe brevemente la spalla che, in definitiva, è il miglior gesto affettuoso che possa fare per noi un essere umano. Non serve la solita serie di “gran coraggio, grazie per quel che fate per noi, vi vogliamo bene, vi proteggeremo,” bla, e bla.

“Ok, si comincia, Mike.”

La solita routine. Salgo sulla bilancia. Ho un paio di chili in più rispetto a questo stesso giorno dell’anno scorso: penso sia stato un po’ troppo tiramisù, ma nella vita un vizio ci vuole. E la nuova cuoca sa far bene il suo mestiere, alé. Pressione sanguigna, mamma aveva la pressione bassa e papà alta, io sono dunque nella fascia media; non ho mai avuto problemi. Il caffè resta nella lista degli alimenti consentiti, alé. Riflessi, coordinazione muscolare, respirazione, tutto bene. Senti male da qualche parte? Ah, il campione di sangue; l’ago sì che fa un po’ male. Spero che il campione di feci puzzi abbastanza da far vomitare il tecnico di laboratorio: una piccola vendetta.

Mi sforzo di non pensare. Non ricordare! Ma è difficile. Soprattutto oggi. E quando non ce la fai a bloccare un ricordo in un momento di debolezza, è allora che fa davvero male. Per esempio adesso. Vorrei poter scambiare questo tipo di dolore con quello di un ago che ti tira via un po’ di sangue.

Sue, la mia Sue, amore mio, mi manchi tantissimo. Sarò sempre con te, e solo con te. Vorrei poter…

Ma ovviamente è impossibile. Quindi al lavoro. La lista di controlli è ancora lunga.

La vista è a posto, e dire che quando ero piccolo portavo occhiali. Anche l’udito è a posto. Tutto perfetto. A quel punto il dottor Velez dice, “Dipenderà da quel che trova o non trova il laboratorio, poi mi dà la notizia con la solita delicatezza, “Direi che non vedo cambiamenti, Mike.”

Non gli serve aggiungere che per la mia età, la mia vecchissima età, io sono in ottima salute. In ottima salute per qualsiasi età, in realtà. Da medico, dovrebbe essere felice per il paziente, ma sento che vorrebbe dirmi dell’altro.

“Sono a posto, Doc,” dico per consolarlo un po’. “Non è colpa tua.”

“Eppure,” scuote la testa, “non mi sembra giusto.” Sospira. “Non so a cosa servite voi interpreti? È una cosa che mi tormenta.”

Bella domanda. Ma avere gli interpreti, come ci chiamano loro, è piuttosto sensato. Noi, siamo un piccolo gruppo di ultra-vecchi – e si pensa esistano anche altri come noi in altre parti del mondo; non sembra possibile che siamo gli unici, se la teoria più accettata è almeno un po’corretta. Speriamo.

***

E vabbè, adesso il dottore sembra anche più depresso di me; capisco che affrontare tutti i giorni questa cosa come lavoro, possa finire per essere logorante. Noi, ormai siamo abbastanza rassegnati, ma deve essere difficile per uno da fuori. Molto meglio parlar d’altro, prima di imboccare tutti e due una china scivolosa.

“Beh,” dico simulando il divertente accento meridionale di un famoso comico, “spero proprio che mi fai lo sconto anziani.”

Per quella che sembra un’eternità – ma non fu più che una frazione di secondo – trattengo il respiro, fino a quando una grassa risata di Doc allevia la tensione. “Eccolo qua.” Lui alza lo sguardo, agita un dito verso il soffitto. “Ci siamo, amico, ecco quel che ti spetta.” Mette i palmi delle mani sul tavolo, poi… “Va tutto bene, mio caro. Abbiamo finito e sei a posto.”

Meno male. Questo non significa che il resto della giornata sarà più facile, lo so benissimo e intanto lo ringrazio con un brontolio e improvviso due o tre saltelli uscendo dall’infermeria come se fossi contento. Ma, sono abbastanza sicuro che abbia visto le lacrime scendermi dalle guance.

***

Prima è arrivata Oumuamua.

È molto probabile che, prima dell’avvento dei moderni mezzi di rilevazione, sia successo altre volte nel tempo, ma non ci sarebbe stato modo di capirlo con certezza. In ogni caso, però, il passaggio di A/2017 U1 attraverso il Sistema Solare è stato accolto dalla comunità scientifica con il giusto timore reverenziale: il primo oggetto certamente interstellare che abbia attraversato lo spazio nei dintorni della Terra.

Secondo le rilevazioni standard, l’oggetto andava molto piano nel suo passaggio; una qualsiasi cometa precipitando verso il sole dalle profondità della Nube di Oort, sarebbe andata più veloce. Si sa che perfino la nostra Terra gira intorno al Sole a più delle sedici miglia al secondo sviluppate dal misterioso viaggiatore, un oggetto lungo 400 metri e proveniente più o meno della costellazione della Lira…

Piuttosto lentuccio, già.

L’oggetto non ha mai rappresentato una minaccia di collisione con nessuno, perché sulla sua strada non c’era proprio niente. L’asteroide A/2017 U1 proveniva da sopra il piano dell’eclittica e poco dopo aver ratificato la sua origine extrasolare, lo hanno chiamato Oumuamua, il primo messaggero,” a indicare che era la prima volta che qualcosa arrivava nel sistema solare dalle stelle. L’oggetto si è tuffato sotto al sole come una pietra che cade in acqua, senza subire l’attrazione dell’astro, che lo avrebbe fatto tornare indietro, per riemergere accanto alla stella più in là e uscendo infine dal Sistema Solare.

In verità, qualcuno aveva temuto che si ripetesse il dramma dei dinosauri e quindi per loro era rassicurante vedere Oumuamua passare in sicurezza oltre il nostro pianeta a circa sessanta distanze lunari. All’epoca si pensò di mandare una sonda spaziale senza equipaggio verso l’asteroide nel suo viaggio oltre il Sistema Solare, ma nella migliore delle ipotesi, si sarebbe trattato di un lavoro affrettato, con un carico utile ridicolo e troppo poco margine di errore.

Purtroppo, alla fine non furono i problemi di tempo a mandare all’aria il progetto, ma piuttosto le preoccupazioni di budget. I sostenitori più accesi del progetto, purtroppo disinformati sul suo carattere economico, insistettero che non mancava certo il tempo per sviluppare tutto quanto. L’uomo aveva raggiunto la Luna in tempi record e in tempi altrettanto record l’aveva abbandonata; quindi, esisteva certamente la possibilità di produrre razzi con la potenza sufficiente a quel progetto, visto che erano già trascorsi molti anni.

Tutto sommato era però stato emozionante vedere passare un pezzo di roccia innocuo, proveniente da un’altra stella.

Ammesso che quell’oggetto non fosse qualche altra cosa.

Ma ecco, rientra la giuria signori: forse non sappiamo esattamente che cosa fosse il presunto asteroide interstellare, ma siamo piuttosto certi di sapere cosa non fosse. Non si trattava di un innocente pezzo di roccia che sfrecciava nello spazio.

C’è voluto un settantennio per raggiungere tale verdetto. Ironia della sorte, il nome hawaiano affibbiato al visitatore interstellare significava “primo esploratore” … che col senno di poi è stata un’ottima intuizione, un esploratore che butta un’occhiata preliminare. Intuizione tanto più valida quando, sessantanove anni dopo, comparve un secondo oggetto, sospettosamente simile al primo, proveniente anche lui da fuori Sistema Solare e sulla medesima traiettoria. Anche questo volerà nei pressi dell’orbita terrestre, senza però avvicinare nessun altro pianeta importante.

Ma questa volta l’oggetto cambiava improvvisamente rotta, in maniera che ha subito fatto pensare a una manovra deliberata. La nuova rotta si avvicinava in modo sorprendente all’unico mondo del Sistema Solare che poteva vantare la vita intelligente molto più velocemente di quanto avesse fatto il suo predecessore.

Così Malihini Kipa Lua, “Secondo Ospite,” come è stato giustamente chiamato lo strano oggetto, è passato molto vicino alla Terra; a una distanza ottimale di appena cinquecento chilometri, uscendo poi dal Sistema Solare. Un’impresa che ricorda i leggendari viaggi delle sonde Pioneer e Voyager. Plausibilmente, raccogliendo una grande quantità di informazioni in analoga modalità…

Nello spionaggio, purtroppo, il vantaggio reciproco è improbabile. Forse fu solo per mera sfortuna che il razzo rabberciato per inviare una sonda verso l’oggetto invasore sia esploso sulla rampa di lancio, cancellando il tentativo anche in questa occasione. I computer, si sa, non sono umani, eppure qualche volta sbagliano proprio come gli umani. Quindi non sapremo mai con certezza che cosa fosse l’oggetto che ha voluto dare uno sguardo tanto ravvicinato alla Terra; forse da adesso in poi, l’uomo potrà solo fare ipotesi.

Tuttavia, parve fin da subito molto probabile che quella seconda visita non fosse una coincidenza.

Altre ipotesi, vennero obbligatoriamente in seguito. Per esempio l’idea di noi Interpreti.

Ci sono voluti parecchi anni per notare i primi segni e molti più anni perché la sorpresa inizialmente piacevole si trasformasse poco per volta in incertezza, poi in sospetto, poi in allarme. Ancora non abbiamo la cognizione di cosa significhi e siamo stati salvati dalla totale follia avendo capito che, dietro a quanto era successo, doveva esserci uno scopo.

O meglio, noi speriamo che ci sia davvero uno scopo.

***

Come dice il vecchio saggio, scappa pure, ma dove ti nascondi?

Il che è vero soprattutto in una giornata come oggi. Sì, io vorrei scappare il più in fretta possibile. Quel che è certo è che è impossibile evitare le cose che non ti piacciono. Ok, impegnati nel lavoro in modo intenso. O meglio, fa finta di impegnarti in modo intenso nel lavoro. E io stavo appunto provando a fare così, quando Betania mi ha beccato.

Secondo me è estremamente probabile che fosse stata lì tutto il giorno per incontrarmi.

E infatti, eccola qui. Mi guarda.

Il lavoro è ciò che mantiene sani di mente noi ultra-vecchi, più o meno: sani di mente al massimo possibile, dato il terribile peso che ci portiamo sulle spalle. Non tutti riescono a fare il lavoro che siamo costretti a fare, nel modo in cui ci piacerebbe. Dopo aver gestito una ribellione iniziale da parte del nostro gruppo, i poteri forti hanno capito come aiutarci, entro certi limiti.

Per Kate, diciamo che è probabilmente più facile: lei è una poetessa, una poetessa incredibilmente brava. A lei non serve altro che qualche libro e pochi viaggi all’esterno, mantenuti sempre segretissimi. Ma per lei sarebbe sufficiente poter guardar fuori dalla finestra. Kate dà volentieri in beneficenza tutti i diritti d’autore di ciò che scrive sotto vari pseudonimi. Per Marvin, è un’altra storia. Dategli i suoi cacciaviti e una birra e sarà in paradiso; basta che possa riparare in modo anonimo e gratuitamente vari aggeggi rotti, roba che arriva da un vicino magazzino dell’Esercito della Salvezza.  A lui non serve altro che il lavoro e un televisore olografico per seguire lo sport. Poi, c’è Bob, e va bene. Lui è un progettista di software ed è felice se gli lasci fare le sue cose in qualsiasi posto si trovi; in una grotta, in bagno, dappertutto. Nella sua vita non ha mai visto un raggio di sole. A lui va bene così.

Poi ci sono io: nasco come commercialista e sono decisamente introverso, anche se il più delle volte nascondo la mia timidezza con battute leggere e un po’ di sarcasmo. Comunque, visto che ci sono, gestisco i conti del centro e qualsiasi altra cosa serva. È una soluzione buona per tutti e questo accordo mi va a pennello.

Ma tra noi ultra-vecchi, alcuni sentono dolorosamente la mancanza dei loro precedenti lavori; le attività a cui molti hanno dovuto adattarsi non bastavano per riempire la loro vita come prima. Per evidenti ragioni, l’accordo di cui facciamo parte, assomiglia fin troppo a un programma di protezione dei testimoni, per cui non possiamo apparire in pubblico apertamente. Qualcuno potrebbe riconoscerci, con conseguenze impossibili da immaginare.

Non piaciamo a tutti, purtroppo. Ci sono persone là fuori – speriamo poche – che ci considerano molto sospetti, addirittura pericolosi, incredibile. Per cui… Quelli di noi costretti a scegliere tra una lista di lavori poco graditi, si trovano in difficoltà, ma sia chiaro: nessuno ha tempo per annoiarsi. Come Betania, che è qui e che mi fissa.

Betania lavora in politica – cioè lavorava una volta. Secondo i più era avviata a grandi risultati, politica a livello nazionale, pare. Avrebbe potuto essere una personalità importante, una donna d’azione, una pioniera. E poi è andata così.

I politici sanno che prima o poi dovranno lasciare, ciao, ciao e uscire di scena con un bell’applauso – ammesso di evitare errori nel loro periodo. Un saluto e via dalle luci della ribalta. Lo sanno. Ma essere costretti ad andar via prima che la festa sia finita e non per colpa loro, è un boccone difficile da digerire.

Per poi essere buttati dentro a un gruppo come il nostro!

Sì, per alcuni di noi è stato difficile trovare qualcosa di cui occuparsi, un nuovo lavoro. Una di queste persone è Betania, che di certo ha avuto fin troppo tempo per pensare ad altro.

Qualcos’altro, come per esempio per innamorarsi. E di me maledizione.

Vorrei aver la forza di odiarla per questo.

“Ciao, Mike. Tutto bene?”

“Bene,” mento d’impulso e cerco maledettamente di non guardarla. Già, devo uscire da qui in fretta, subito. Oggi non voglio parlare con nessuno. E soprattutto non con lei. Non va bene. Sia chiaro, lei non ha mai dichiarato i suoi sentimenti, almeno non a me. E non so se possa essersi confidata con una delle sue compagnie femminili. Però ci sono tutti gli indizi: credo che nessuno me ne abbia mai parlato perché è tutto molto ovvio, anche per un idiota come me.

Ma tutti sanno che io appartengo a Sue, e solo a Sue.

Ero riuscito a evitarla e avevo addirittura saltato la colazione, mi ero fatto portare in stanza sia il brunch che la cena prima che il personale di cucina se ne tornasse a casa. Ma mi ero stupidamente dimenticato del caffè.

A quest’ora della notte, tutti sono già nella loro stanza da un bel pezzo. Io, sono un nottambulo e spesso mi godo un sorso di caffè prima di andare a letto: è un’abitudine che non mi tiene sveglio, ci sono abituato. Pensavo di poter fare in un minuto e tornare in camera di nascosto. Perfetto, non è stato così.

“Ottimo,” dice Betania, sospira ed è chiaro che non mi crederebbe nemmeno se lo giurassi su una montagna di Bibbie. Cerca con gli occhi di catturare i miei e balbetta: “Qualunque cosa ti serva, io sono qui, Mike. Lo sai, no?”

“Certo. Ti ringrazio.” Cerco di produrre una specie di sorriso rassicurante. Vorrei dire qualcosa per farle davvero credere che non prendo alla leggera la sua offerta, ma si capisce che non la accetterò. Non so cosa dire. Accidenti, vorrei fare qualcosa per lei; non posso vederla soffrire così. Non va bene.

Dovrebbe essere lei la mia donna, lo so; è intelligente, appassionata e stare con lei è divertente, soprattutto per tutto l’amore che sa dare. In altre circostanze… ma c’è Sue. Ci sarà sempre Sue.

Dal momento magico in cui ho incontrato Sue, ho sentito di voler passare con lei il resto della vita; Sue, che un giorno è apparsa inattesa e improvvisa, ma che da allora ha per sempre riempito il tuo cuore. Era lei che cercavi, anche se non avevi la minima idea di quel che stessi cercando. Ora vorresti invecchiare con lei, condividere risate e dolori, sogni e piccole meraviglie con lei. Adesso vorresti amare le sue rughe e i suoi capelli grigi, come prima hai amato la sua pelle morbida e i capelli neri.

Purtroppo, alla fine, ti accorgi – prima perplesso, poi con orrore – che tra voi due è solo lei che ha le rughe e i capelli grigi ed è solo lei che invecchia.

Sue, mia dolce Sue. Perché hai voluto lasciarmi? Perché ti sei tolta la vita? Sarei stato tuo e solo tuo per sempre, a qualunque costo.

***

Ma qui c’è Betania. Ha l’aspetto della ragazza dei sogni di ogni uomo vivo e vitale. Il suo corpo è giovane e spettacoloso, i capelli sono come fuoco, come tutti noi ultra-vecchi Betania è fresca e bella.

È così. Noi ultra-vecchi, Betania, Marvin e gli altri, siamo giovani. Non è che sembriamo giovani, siamo innegabilmente giovanili e vigorosi, sani e conservati come se fossimo stati congelati nel momento in cui il Secondo Ospite ha scansionato la Terra. Eppure, il più giovane di noi ha già superato i novantuno anni.

Come qualcuno ha ipotizzato quando si cercavano spiegazioni, se ritorni in un posto che hai visto moltissimi anni fa, ti servono dei punti di riferimento, dei luoghi simbolo, qualcosa che aiuti a riorientarsi dopo così tanto tempo. Hai bisogno di amici, gente già vista, qualcuno che hai già incontrato e che possa spiegarti le differenze, che ti aiuti a capire i nuovi dettagli, colmare il divario tra le vecchie informazioni e le nuove.

È quindi utile che le vecchie conoscenze siano ancora vive, ovvio.

È qui che entriamo in gioco noi ultra-vecchi – gli interpreti, come veniamo di solito chiamati da quando un giornalista ha tirato fuori quel termine. Noi, siamo la speranza.

Una tecnologia molto avanzata è molto simile alla magia, qualcuno ha detto. Ed è stata usata quella magia su di noi per uno scopo che non sappiamo per certo.

Ci deve essere un motivo per cui noi serviamo. Perché ci sia stata concessa questa immunità all’invecchiamento; perché dovevamo essere noi, e non altri. Sappiamo che esiste un confine che va da nord a sud alla longitudine di 90 gradi ovest in cui, nel momento in cui il Secondo Ospite ha lanciato uno strano segnale, ci trovavamo tutti noi ultra-vecchi. Per tutti noi il gruppo sanguigno è lo Zero positivo e forse c’è una serie di altre cose condivise di cui non sappiamo nulla più in là di poche ipotesi. Siamo assolutamente impossibilitati ad avere figli, sia tra di noi che con altri – questo è verificato in modo certo, e non solo per delle semplici ragioni scientifiche.

Ma questi sono solo scarne osservazioni. Una delle teorie preferite da Bob è che quando ci hanno scansionati, i nostri dati – personalità, ricordi, sentimenti, tutto ciò che ci rende noi – siano stati trasferiti in corpi capaci di resistere al tempo, corpi appositamente realizzati sulla base dei nostri originali soggetti a decadimento, che sono poi stati smaltiti in modo sicuro. Potrebbe anche avere ragione.

Però, l’unica ragione di cui vorrei davvero una risposta, è perché io ho dovuto perdere la mia Sue.

“Prego,” conclude Betania rispondendo al mio precedente Grazie tanto.

La sua voce mi allontana dai miei pensieri e dal mio imbarazzo: ormai ci siamo scambiati quelle che spero possano essere considerate utili formalità e per me è il momento di correre finalmente nella mia caverna a spremere il mio cuore. Il cuore di un uomo che sempre si pentirà di non aver insistito abbastanza perché l’amore della sua vita non lo accompagnasse in quel viaggio di lavoro a New Orleans.

Le volto le spalle e faccio per andar via.

“Ah, Mike…”

Donna, lasciami! “Sì?” Cerco il di nascondere il fatto che ho una paura del diavolo per ciò che potrà dire…  Non oggi, ti prego; non adesso, per favore.

“Ah, be, niente.” Betania fa spallucce. “Domani mattina lo dirò comunque a tutti. Ho ricevuto un messaggio personale, mezz’ora fa più o meno.” Fa un debole sorriso. “Conosco ancora qualcuno, sai. Non smettere di sperare, Mike. Insomma, io parto per Washington.”

La guardo; questa volta non posso fare a meno guardarla.

“Hanno individuato quello che si direbbe – per quanto possono capire, sì, be’ – un altro ospite; la NASA lo ha appena confermato. Stessa direzione, come gli altri. Però…”

“Però…”

“Però questa volta è più grande,” conclude. “Molto più grande, dicono almeno tre volte le dimensioni degli altri due.” Poi prosegue calmissima. “Be’, la terza volta è fantastica, no? Vorrei proprio fossero loro, sai. E ci tenevo a fartelo sapere subito. Spero che questo possa aiutarti un po’. E spero anche che tu possa perdonarmi, se non sarà così.”

Mi aiuta, sì; ma certo. In un certo senso, è il miglior regalo che potessi avere e, addirittura, da qualcuno che ho evitato per tutto il giorno. Soprattutto in una giornata come questa. Ma guarda! La devo davvero ringraziare la mia amica. Vorrei proprio che la lunga attesa possa essere finalmente terminata. Capiremo per cosa eravamo necessari e perché non potevano essere altri che noi.

Forse non potevano scegliere. Forse non sanno nemmeno cosa significhi scegliere. Non sappiamo nulla dei loro piani per l’umanità. Potrebbe anche rivelarsi un buono scambio. Capire cosa ottiene l’umanità al prezzo dello sconvolgimento delle nostre vite. Chissà. E poi…

Non so come sia successo, ma all’improvviso, Betania e io ci siamo ritrovati in un casto, breve abbraccio. Poi ci siamo di nuovo separati un po’ goffi, in silenzio, io senza più guardarla, lei… quel che è.

Perdonami, Sue, perdonami.

Mi rendo conto solo adesso che non ho mai pensato a cosa possa essere passato nel cuore di Betania. Mi sono preoccupato solo del mio dolore e ora mi rendo conto che è sempre stata lei che ha provato ad aiutarmi.

“Buona notte e buon viaggio.” E aggiungo in tutta sincerità: “Grazie.”

“Certo, Mike. Buona notte anche a te.”

Farò davvero del mio meglio per avere una buonissima notte; preferibilmente una di quelle senza sogni. Anche se i sogni peggiori sono quelli che si fanno da svegli.

Però, non credo che quelli, con tutta la loro magica tecnologia, potranno far risorgere la mia Sue dalle ceneri che ho conservato in tutti questi anni. Già. Ma posso sempre sognare, posso sognare…

Sognerò fino a quando il mio sogno non sarà infranto dalla realtà e immagino che non ci vorrà molto.

Ma, nel frattempo, ho avuto il mio regalo di compleanno. Il che potrebbe farmi passare la notte.

© 2023, Ricardo L. Garcia
Copertina, © 2023, Giorgio Sangiorgi
Traduzione, © 2023, Franco Giambalvo

Ricardo L. Garcia
+ posts

Nato a L'Avana nel 1955 è uno degli autori che appartengono a quella che molti considerano l'età dell'oro della fantascienza nel suo paese natale, Cuba, gli anni '80. Abita nel Texas, e scrive di preferenza in inglese. Ha scritto numerosi racconti e due libri, TIME OF THE PHOENIX MAN (2013) e QUANTITATIVE FACTOR (2015).

1 Commento

  1. Ricardo L Garcia

    Grazie mille!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ricevi la NewsLetter

Scrivi la tua email:

Prodotto da FeedBurner