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EFFLORESCENZA CINABRO DI EMANUELA VALENTINI

EFFLORESCENZA CINABRO DI EMANUELA VALENTINI

Scelti dal Direttore

Io passerò in quel lato dove sono le stelle Imperiture
per esistere in mezzo a loro.
T.P.520

Se si sia trattato del down di una proiezione onirica io non so dirlo. Assumo droghe, sì. Annuso, inoculo, inghiotto, ma mai nessuna sostanza mi aveva condotto così lontano.
Mi sono perduta e vago su strade olografiche all’apparenza interconnesse, che il mio sistema però non rileva e anzi, a ogni nuovo aggiornamento il tessuto basale risulta totalmente discorde da ciò che era stato fino a un attimo prima; sono convinta che si tratti di un errore, forse una sovraesposizione di flussi incoerenti, o un blackout olistico di qualche centrale nei pressi del mio loculo.
A un ennesimo controllo risulto ancora collegata al netflow di quel dannato Club per sessuomani post-umani, ma il tappeto di algoritmi su cui mi muovo fluida non risponde ai codici per i quali sono settata e non capisco cosa aspettino a richiamarmi. Ho pagato per due giri? Questo non lo so, davvero. Devo interrompere le riflessioni perché la coscienza, ancora memore della potenza e delle suggestioni dell’orgasmo cosmico, non regge il pensiero individuale: si apre, si scuce, si strappa per lasciare passare le orbite di immani corpi celesti che compiono percorsi spiralici pineali attraverso le mie membra. Inspiro. Espiro e fiotti di luce violetta si esprimono in macroscopiche fusioni di lettere e cifre fuori dalle mie labbra, s’allontanano da me come codici di un linguaggio remoto e mi accorgo che alle loro code vagamente argentee resta impigliato uno dei miei sette corpi, il più volatile. Non ne sentirò la mancanza.
Eppure rammento con maniacale precisione ogni cosa accaduta nelle ultime ore – qualcosa in me ride e mi spiega che ragionare in ore è ormai obsoleto e inutile –; mi rendo conto che qualsiasi sostanza io abbia assunto meriti come minimo un secondo test, non appena sarò in grado di digitarmi indietro. Varo si sarà accorto della mia assenza prolungata? Tornerà a cercarmi, spero. Magari è già al Club che discute coi proprietari in perfetto netrunner style; mi sembra quasi di sentirlo imprecare. Non era d’accordo che entrassi nel Club, neppure di fronte all’invitante possibilità di guardarmi mentre mi accoppiavo con qualche post-umano trifallico, così, un po’ scazzata ci sono andata da sola.
Visto da fuori quel locale sembrava un bordello tradizionale, forse uno dei peggiori del viale ma pur sempre un puttanaio con le insegne al neon rosso cinese mezze scoppiate e l’entrata coperta da un pesante drappo di velluto nero. Anche dentro niente di anormale. Oltre il desk di plastica fucsia ricoperto di moquette rosa stinto, si apriva il solito dedalo di camerette lerce, anfratti rumoreggianti di guaiti e grida. Nell’aria fumosa puzza di urina e deiezioni, liquidi seminali di varia origine, incenso al patchouli oil e un odore nuovo, sconosciuto ai miei sensi, pungente e malefico.
La vecchia orientale che mi ha preso per mano sembrava camminare senza toccare terra. Continuava a parlarmi in un fitto mandarino come se sapesse con esattezza cosa cercavo, e io l’ho seguita ridendo lungo un corridoio tappezzato di blu e oro, tra settimini con su enormi vasi di ceramiche di dubbio gusto e specchi incorniciati da file di led intermittenti.
Qui le alcove erano stranamente silenti. Potevo vedere le proiezioni delle ombre di ruvidi amplessi canonici e di gruppo sincoparsi sulle tende che ne delimitavano gli angusti ingressi, ma non v’era traccia del consueto ansimare, degli insulti soffiati tra i denti né del suono ritmico di genitali che sbattono contro natiche paonazze. Immaginai dovesse trattarsi di sesso a connessione neurale inibitoria, quel giochino perverso in cui tutte le manifestazioni del piacere implodono all’interno della mente anziché essere esternate. Un bel casino in quelle teste, un vero casino.
A metà corridoio mi sono accorta di barcollare e la vecchia ha riso con quei suoi minuscoli occhi a fessura; l’odore nauseabondo che avevo avvertito all’entrata qui saturava l’aria. Ricordo di averle chiesto di cosa si trattasse e lei aveva gridato: solfuro di mercurio, baby! Cinabro! L’elemento cardine, l’incontro degli opposti, l’immortale totalità! E alle parole aveva accompagnato una risata così lacerante che per un attimo avrei volentieri abbandonato i propositi lascivi per raggiungere Varo nel loculo e unirmi alla consueta fumata serale.
Invece sono rimasta. Ho lasciato che la raggrinzita ospite mi conducesse oltre le tende blu e mi spingesse con una sorprendente forza oltre un sipario rosso scuro in una micro stanza non arredata, non fosse stato per uno di quei tori meccanici da luna park installato proprio al centro del piccolo spazio. Dettaglio non insignificante: ricordo che la vecchia ha preteso di essere pagata in anticipo, forse per un doppio giro, questo non so dirlo.
«Ma dove sono quelle vostre favolose troie post-umane bi-falliche? E non farà male respirare questo gas di merda?»
«Dal cinabro ha origine il giardino di tutti i giardini» ha detto lei in un inglese stentato: «e nel giardino, se sarai fortunata, troverai le perle di fuoco alchemico in grado di sospingerti oltre ogni limite conosciuto dai sensi umani e post-umani. Al diavolo le troie, prova questo nuovo gioco, qui. Enjoy!»
«A me basta una bella scopata, non ho grosse ambizioni.»
Ricordo di essermi trovata sola, in mano stringevo la fiche per la connessione, un gettone di plastica rosso che con tutta certezza ho lasciato scivolare nell’asola sul fianco lucido della cavalcatura e quella, in risposta alla sollecitazione, ha iniziato a muoversi in maniera quasi impercettibile in una lenta, sinuosa traiettoria a 8. L’attivarsi della bestia-macchina ha risvegliato il desiderio di perversione che mi aveva spinto a entrare nel Club, così mi sono liberata degli abiti e dei device. Davanti all’animale meccanico la consolle luminosa ospitava i pulsantoni con le varie scelte e l’intensità dell’esperienza: alzo al massimo. Non bisognava essere netrunner per capire che non era necessario digitarsi per entrare in rete. Immaginai dovesse trattarsi di un qualche tipo di nuova connessione tattile ma non riconobbi nessun visore per il riconoscimento delle impronte digitali o delle iridi.
Tra le varie opzioni ricordo di essere rimasta colpita da danza cosmica perché totalmente differente dai soliti titoli clichettati delle esperienze erotiche in connessione, così ho pigiato senza esitare. In quel medesimo istante il possente toro meccanico ha avuto un singulto e la movenza a 8 è gradualmente sfumata in lenti affondi lineari, mentre dal centro della sella sorgeva il più bel fallo che avessi mai visto. Di gomma semi trasparente, un tiepido lilla, era illuminato dall’interno da un sistema di led che mimavano complicati processi venosi e spillava stille di liquido seminale fluorescente che ne irroravano il glande affusolato.
Pensai che con tutta certezza doveva trattarsi di sperma sintetico conduttivo e l’idea di collegarmi a quella stupefacente macchina del piacere semplicemente attraverso la penetrazione mi costrinse ad aprire la bocca per respirare più profondamente.
È stato così che nell’aria impestata di gas celeste e zolfo, la mente ottenebrata dalla promessa di infinita impudicizia, ho cavalcato il toro e sono scesa lentamente su quel meraviglioso membro bagnato e caldo di luce pulsata, le mani strette alle manopole avvitate attorno al busto, le cosce aderenti ai fianchi di freddo metallo brunito.
L’impulso di cedere all’orgasmo alla sola ascesa del fallo luminoso tra le mie pareti mi ha strappato un gemito dalla gola. Mi sono mossa piano per assestarlo, per ospitare la connessione tra le mucose avide che già si stringevano attorno alle nodosità del tronco, lo avvolgevano anelanti quei pochi colpi che mi avrebbero portato al piacere, mi imploravano di assecondarne il lento scivolare avanti e poi indietro come una risacca gonfia di desiderio folle e inesplorato, buio, pelle e gomma luminosa.
Un rivolo di liquido seminale conduttivo è sceso a disegnare luminosi fiumi gemelli lungo i fianchi del toro e sulle mie gambe; è stato in quell’istante che io, completamente irrorata, ho saputo di essere connessa. Adesso ero tutt’uno col corpo meccanico vibrante. Un sistema di webcam trasmetteva la mia esperienza di danza cosmica sui siti di tutta la suburbe; ovunque vi fossero laidi occhi in cerca di gioia voyeuristica, ovunque vi fosse un device, là c’ero anche io, nuda, a cavalcioni di un toro meccanico.
Non ricordavo se la vecchiaccia cinese mi avesse chiesto di digitare la liberatoria per essere trasmessa in rete ma in quel momento non contava più e anzi, so di avere desiderato con tutta me stessa che Varo fosse sintonizzato: desideravo che mi vedesse mentre traevo piacere da una macchina sotto agli occhi dell’intera città.
Nulla più aveva senso se non il gas rosso che mi impregnava i turbinati e galleggiava ormai dietro alla fronte e la sensazione di scivolare in universi immateriali di brividi e scosse elettriche di intensità crescente, colpi forsennati contro il perineo, poi dolci, e carezze; e ancora gangli gelidi lungo la schiena, il fuoco di uno scudiscio di cuoio e latex sulle natiche aperte che mi costrinse a gridare e ridere e infine lui: il bacio schioccante del secondo fallo giunto a sorpresa.
Non ho potuto vederlo. L’ho sentito però emergere anch’esso dalla sella e sbocciarmi tra le pieghe dell’ano – un’esplosione in me, una pioggia di schegge lucenti (stelle?) no. La visualizzazione di una regale infiorescenza rosso e oro di una stagione estinta e primigenia, questo è stato – e scivolarmi su, fino a riempire lo sfintere e colmare ogni residuo di spazio in me, fluido, perfetto.
Il dolore mi ha svestito di ogni dissoluzione, mi ha compattato, ha ridisegnato i miei contorni. La gioia ne ha compreso il canto e s’è innalzata vivida, selvaggia; il cinabro: era questo che intendeva dire quella maledetta vecchiaccia con la tirata sulla totalità? Ma che importava. Io, non più me, io molti, io infinità di membra e di anime, incendiata di un solo intento – il piacere, il piacere estremo, la punta, il culmine, il nucleo, l’origine – viaggiavo nella trance ipnotica, nel coagulo di sensazioni che scorrevano sotto la pelle come sciami di virus vespoidi elaborati, come sistemi: sì. Interi sistemi stellari vivevano e proliferavano tra i miei strati di derma, ospiti, venite, entrate. Posso accogliere l’intero pungente universo tra le gambe, ora, sentire il flusso degli eoni divaricarmi l’essenza in petali cremisi, dissolvermi nella carezza quantica e rinascere in mille altre forme e tutte umide e gonfie di nettare astrale.
Pollini di nuovi universi respireranno attraverso i miei ventricoli e gemme di nuovi giardini germoglieranno da questo trionfo elementale, da questo… mi perdo. Tutto si muove, fuori e dentro la mia percezione, non sono più padrona della volontà e sperimento la vera gioia dei sensi. Spalanco la bocca in un unico immenso respiro, le mille bocche di cui sono composta gridano il primo vagito di una primavera lontanissima.
Godo fino a svanire in me stessa. In me si esprime la volontà del cosmo, estrema certezza, di cui sono signora e servitrice. Mi estinguo in una vibrazione infinita.
Non ricordo in effetti di essermi rivestita. Rammento solo questa strada e l’insegna stinta del Club luccicare appena. Non so dove sono ma di una cosa sono certa: qui non è casa mia. Il loculo. Varo. Tutto appare come velato eppure trasluce più vivido di un flashback.
Il down di una proiezione onirica? L’effetto fantastico di una droga che non rammento di avere assunto? Il cinabro, magnifico conduttore di energie cosmiche?
«Ciao.» una ragazzina che mi pare essere me a tredici anni si ferma e mi sorride. I suoi corpi astrali viaggiano a velocità inaudite attorno al piccolo involucro di carne e ossa.
«Ehi, ciao.» le faccio, «ma che succede? Dove siamo? Sai indicarmi un net-point qui intorno? Devo sistemare un errore di…»
Lei ride, le ridono gli occhi, la bocca, i capelli sottili. Tutta ride e dentro, mio malgrado, rido anche io.
«I net-point non esistono da centinaia di anni» dice «non ce n’è bisogno! Sei incisa nella materia perpetua adesso. Appena te ne renderai conto questa strada sparirà e avrai dinnanzi a te tutte le strade possibili, ma per ora resti impigliata a una visione bidimensionale, è normale, fidati. Sei ancora sotto shock. Ti sei divertita?»
«Che cosa? Che cosa stai dicendo, non capisco. Sono una net-runner, io! Tutto ciò che si connette deve prima o poi disconnettersi, dimmi dove… sono morta? Arresto cardiaco?» sussulto all’immagine di me accasciata sul toro meccanico.
«Sei oltre ogni connessione.» fa lei, paziente: «sei tu stessa materia conduttrice, piacere e stelle.»
«Piacere e stelle» ripeto e ho una vertigine. Un ricordo affiora e mi invasa di turbini, visioni e sciami di luci.
«Sei oltre la vita» sussurra la ragazzina che è me, svanendo come un ricciolo di fumo, o di neve. «Respira!»
Io rido del solletico degli astri, ascolto il consiglio e ne inspiro a milioni dalle narici dilatate, tutti in un solo attimo, tutti in un unico respiro e assisto alla nascita del mondo.
Luce. Aria pura. Profumo di alberi in fiore.
Stropiccio e schiudo ali nuove, umide di vita; mi stacco dalla crisalide vuota, il loculo che mi ospitava, e scivolo nell’alba.

 

Questo racconto è World © di Emanuela Valentini. All rights reserved

Emanuela Valentini
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Vive e lavora a Roma, ma è Londra la città dove il suo cuore si sente a casa. Adora i classici della letteratura ottocentesca per lo stile inimitabile e i temi trattati, ma legge di tutto. Scrivere, per lei, è essenziale come il respiro. Da qualche mese è entrata a fare parte della redazione di Speechless. Autrice di strane storie, ha un romanzo weird nel cassetto.

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