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UNA NOTTE DI 21 ORE

UNA NOTTE DI 21 ORE

La copertina è World © di Roberta Guardascione
disegnata appositamente per Cose da Altri mondi

Scelti dal Direttore

Dudley Hustin guardava dall’oblò di quarzo.
La pianura si stendeva all’infinito, grigia e uniforme, e verso l’orizzonte leggermente azzurra. Nessuna roccia interrompeva la monotonia di quel deserto, né un albero, né una traccia di vita. Già da un pezzo Dudley stava guardando fuori dell’astronave finalmente posata su qualcosa di solido e sicuro, ma in lui non c’era traccia di gioia o di sorpresa o anche di semplice curiosità. Il suo volto immobile esprimeva soltanto dolore.
Pat Wheaver uscì dalla sala di navigazione e si avvicinò, posando una mano sulla spalla di Dudley.
Dudley chiese a voce bassa: «Perché siamo qui, Pat? Dammi tu una spiegazione perché io non riesco a trovarla.»
«La conosci  bene quanto me la risposta.»
Dudley scosse la testa, «No, Pat, credevo di conoscerla, o forse cercavo di convincermi che una ragione ci doveva essere, ma ora tutto è confuso. Ci siamo spinti troppo lontano e tutto quello che stiamo facendo è  inutile, ammettilo anche tu…»
«È il dolore che ti fa parlare così. Fino a poche ore fa avevi più entusiasmo di qualsiasi altro, ora hai la mente un po’ annebbiata, è normale e logico, ma vedrai che presto tornerai a essere te stesso. Però devi sforzarti, lasciarsi andare non serve a nulla e recheresti solo danno a te e a tutti noi, proprio adesso che come mai prima abbiamo bisogno di aiuto reciproco. Credi forse che a noi non si spezzi il cuore a pensarci?»
Dudley continuava a guardare fuori e scuoteva leggermente la testa, «Ma perché proprio a Peter? Lui non faceva parte della Orione, era là soltanto come revisore, non era la sua nave quella!»
Pat prese l’uomo per le spalle con fermezza e lo girò verso di sé, «Senti, Dudley, tu ora non parli sensatamente. E perché allora Mike e Vasco e George e Burt? Loro non erano forse come Peter? D’accordo, Peter era tuo fratello, ma dovresti ormai saperlo che una volta nello spazio non esistono più gradi di parentela e nello stesso tempo si diventa automaticamente un’unica famiglia.»
Dudley si passò una mano sulla faccia e si allontanò dal compagno. Attraversò la stretta cabina e guardò il deserto dall’altro fianco della nave, “Ecco cosa è rimasto”, disse tra sé.
A qualche centinaio di metri dall’astronave, la piatta vastità desertica era interrotta da una massa nera, contorta e fumante. Per largo raggio tutto intorno erano sparsi oggetti dalle forme più disparate, alcuni accatastati, altri buttati alla rinfusa. Alcuni uomini si affaccendavano per recuperare tutto ciò che era ancora utilizzabile.
«Non sapremo mai come è successo,» disse Dudley, «Forse un’improvvisa riduzione del getto.»
«O forse un guasto agli stabilizzatori,» soggiunse Pat, «Prima di precipitare si è inclinata.»
«Qualcosa di inconcepibile al giorno d’oggi.»
«Senti, Dudley,  ora dobbiamo dare una mano.»
«Va bene, verrò tra poco.»
Pat uscì dall’astronave e si incamminò verso il luogo del disastro. Nella mente aveva come fotografata la terribile scena vissuta poche ore prima. Le due astronavi avevano girato a lungo intorno al piccolo pianeta cercando il luogo più adatto per scendere, ma tutti i luoghi erano buoni o cattivi in uguale misura data l’uniformità della superficie. La Orione, quale nave appoggio, si era apprestata a scendere per prima. La Vega l’avrebbe seguita a poca distanza.
Attraverso lo schermo di dritta Pat aveva seguito le fasi di atterraggio della grossa nave fino a poche centinaia di metri dalla superficie, poi, all’improvviso, l’aveva vista inclinarsi e cadere come un masso. Tutto era stato così repentino che nessun allarme era pervenuto dalla nave appoggio, e sulla Vega tutti erano rimasti ammutoliti, pietrificati.
Mettersi in viaggio per una spedizione esplorativa senza una nave appoggio non veniva nemmeno preso in considerazione date le possibilità minime che una sola nave, di modeste proporzioni e adatta essenzialmente a scopi scientifici, aveva di tornare sulla Terra.
Le difficoltà non sorgevano tanto durante il viaggio di avvicinamento quanto una volta arrivati sui pianeti, dove bisognava affrontare ambienti a volte talmente ostili che l’assenza di adeguati equipaggiamenti avrebbe significato un vero e proprio suicidio. Malgrado ciò, molte spedizioni non avevano ugualmente fatto ritorno sulla Terra, fermate da chissà quali forze ignote, o perché incapaci di superare chissà quali inimmaginabili pericoli.
Di volta in volta le navi erano partite disseminandosi sui punti più diversi della galassia tracciando le prime rotte siderali. A volte era subentrato il silenzio, o erano state captate urla di terrore o la descrizione di una lenta agonia, oppure era rimasta solo la registrazione di un boato.
Altre volte erano tornate soltanto le navi appoggio. Le vedette, da sole, mai. Soltanto una volta era arrivata sui cieli della Terra una vedetta senza la sua nave appoggio, la 62 Cygni, ma lo scafo poteva paragonarsi a una enorme bara essendo due soli gli uomini rimasti ancora in vita.
Pat osservava  distaccato i suoi compagni che tiravano fuori dai rottami un mucchio di roba come da un bazar distrutto da un’esplosione devastante. Ormai già da parecchie ore si stava lavorando intorno ai resti della nave appoggio. Il groviglio di lamiere era tale che per poter entrare nelle diverse stive era necessario tagliare il metallo. Buona parte dei rifornimenti e delle apparecchiature era andata distrutta. Ora, senza nave appoggio, la permanenza prevista sul pianeta e il lunghissimo viaggio di ritorno sarebbero stati praticamente impossibili.
Intanto una delle tre lune era sorta dall’orizzonte della grigia distesa di sabbia, aveva attraversato velocemente il cielo del pianeta ed era scomparsa dalla parte opposta dietro un uguale scenario di sabbie grigie lasciando nella mente degli uomini una sconcertante sensazione. Con il suo fantomatico apparire, grossa sfera infiammata che attraversava silenziosa il cielo di quel pianeta sconosciuto, faceva rinascere ricordi atavici di inquietanti divinità portatrici di sventura.
Pat aveva notato lo sguardo degli uomini rivolto apprensivamente verso l’alto e pensava. Sono passati milioni di anni da quando l’uomo è apparso, ha soggiogato il suo pianeta d’origine, si è sparso in tutto il sistema solare. Ormai si è adattato allo spazio, si è plasmato secondo le sue incredibili leggi e si è spinto verso altri sistemi planetari. Sono passati milioni di anni e con la sua capacità e il suo ingegno l’uomo ha dominato l’universo finora conosciuto. Ma basta lasciare quest’ uomo in una casa abbandonata, solo e di notte, e si troverà completamente indifeso dall’assalto di nemici invisibili contro i quali non avrà armi per difendersi: la paura dell’ignoto, di ciò che a volte lui stesso crea e deforma involontariamente a seconda delle circostanze, del buio che può nascondere qualsiasi cosa…
Tutti avevano guardato con ansia la sfera rossastra sopra di loro, la distesa grigia di sabbia, le volute basse di nebbia, avevano ascoltato il silenzio del pianeta. Ancora una volta si trovavano tutti rinchiusi in una casa abbandonata, soli e al buio, circondati dall’ignoto.
Poco prima era precipitata una nave. Equipaggiamenti e viveri e armi e pezzi di ricambio che sarebbero stati di importanza vitale erano adesso un mucchio di rottami. Cinque uomini erano morti schiacciati tra tonnellate di acciaio e i loro corpi non erano ancora stati trovati tra le macchine della sala di navigazione. Ma tutto questo era ancora nulla, si trattava di cosa tangibile, che si vedeva con gli occhi e si toccava con mano. D’accordo, si trattava di un incidente che quasi di sicuro avrebbe significato la morte anche per tutti gli altri, ma almeno avevano armi per combattere queste avversità, cioè spirito d’iniziativa, istinto di conservazione,  razionalità, armi che davano a quegli uomini una cosa di cui avevano assolutamente bisogno, la speranza.
Tramontata la prima luna, il cielo era tornato una uniforme lastra turchina striata da lievi scie di vapore. All’intorno, fin dove l’occhio poteva spaziare, non un oggetto che interrompesse l’uniformità grigia e piatta del deserto; soltanto lì, a poca distanza, due masse nere, una altissima, slanciata, potente; l’altra, una cosa enorme stritolata dalla mano di un gigante e  scaraventata a terra, entrambe così  estranee al pianeta.
Dai rottami della Orione Lorry Anderson chiamò. Gli altri accorsero. Pat era con loro. Dudley rimase a guardare dall’oblò della Vega. Sapeva cosa avrebbero trovato prima o poi.
Mike Shepleton era stato un ragazzo alto quasi due metri; benché giovane aveva al suo attivo un buon numero di imprese, naturalmente entro i confini del sistema solare. Quella era la prima volta che si era lasciato alle spalle l’avamposto di Plutone.
I suoi compagni lo identificarono dall’orologio che portava al polso. L’avambraccio sinistro era l’unica parte del corpo che sporgesse intatta da un intricato cumulo di lamiere contorte.
Individuata così la sala di navigazione, gli uomini tagliarono le lamiere superiori e  scoperchiarono quella zona come una scatola. All’interno, vicino al corpo di Mike Shepleton, trovarono anche Vasco Ramirez e il fratello di Dudley, Peter Hustin.
Vasco Ramirez aveva soltanto metà cranio, l’altra metà gli stata asportata nettamente da una lastra di quarzo. Il resto del corpo sembrava integro, ma ciò era dovuto solo alla robusta tuta di navigazione che manteneva la conformazione di un corpo umano. Quando gli uomini sollevarono il corpo di Vasco, non sentirono ossa.
Peter Hustin era disteso sul fianco della nave che ora faceva da pavimento, e guardava verso l’alto. La parte destra del corpo era nascosta sotto il calcolatore orbitale. Cercarono di sollevare il grosso apparecchio ma senza un paranco sarebbe stato impossibile. Tentarono allora di districare cautamente il corpo del loro compagno da quella morsa. Alla prima pressione il corpo di Peter uscì facilmente, o meglio, la parte visibile del suo corpo ne uscì, tutto il resto rimase sotto.
Quando la seconda luna cominciò a compiere il suo arco nel cielo divenuto ormai nero e sfolgorante di luci, Pat Wheaver stava dicendo le ultime parole di addio ai compagni caduti. Poi chiuse il libro che aveva in mano e si segnò. Gli altri quattro uomini, posti a semicerchio, ripeterono il gesto e stettero silenziosi a guardare i cinque rigonfiamenti del terreno sotto i quali, avvolti in sudari di plastica, riposavano i cinque astronauti della Orione. Le croci erano state ricavate dai rottami d’acciaio. Su cinque piccole placche di metallo Eb Doyle aveva  inciso col fuoco  nomi e  date.
Pat Wheaver disse: «Va bene, ragazzi, inutile dire che ci troviamo in una situazione piuttosto critica senza nave appoggio, e questo pianeta non sembra disposto a concedere molto. Quindi non ci rimane che serrare i tempi e compiere, se possibile, i rilevamenti essenziali e poi togliere subito le tende. E che il Signore ci protegga durante il viaggio di ritorno. Lorry, come siamo andati con le perdite di materiale?»
«Circa il settanta per cento è andato perduto. Il rimanente trenta per cento è stato separato e stivato. Però molte apparecchiature rimaste intatte o in buone condizioni non possono funzionare in quanto mancano degli allacciamenti e dei pezzi complementari. Si può calcolare che un altro dieci per cento sia da considerare inutilizzabile.»
Pat Wheaver si grattò il mento.
«Sentite,» disse dopo una lunga pausa, «Per questa notte cerchiamo di riposare il più possibile. All’alba faremo un inventario e vedremo quali rilevamenti si potranno effettuare. Appena finito, caricheremo sulla Vega solo quello che sarà di vitale importanza e poi  via.»
Ma ognuno pensava che le probabilità di ritornare sulla Terra erano minime.
«Ora,» proseguì Pat Wheaver, «Bisognerà istituire dei turni di guardia. Qui la notte dura ventun ore terrestri. Faremo turni di quattro ore ciascuno. Possiamo calcolare che già un’ora sia trascorsa, quindi sincronizziamo il secondo quadrante degli orologi sulle 00:00. Il primo turno lo farà Dudley fino alle 04:00, poi Lorry Anderson dalle 04:00 alle 08:00, poi Cliff Donovan dalle 08:00 alle 12:00, poi Eb Doyle dalle 12:00 alle 16:00 e infine io dalle 16:00 all’alba.»
«Pat,» disse Eb, «Pensi sia proprio necessario fare i turni di guardia? Io la trovo una cosa ridicola in questa circostanza.»
«Come sarebbe?» chiese aspramente Pat, «C’è qualche differenza dalle altre spedizioni?»
«Sì, Pat,» si intromise Lorry, «E le differenze sono due. Prima, questo è un pianeta formato da un immenso deserto di sabbia. Non ci sono montagne né vallate né boschi, nessun luogo che possa nascondere  pericoli. Non c’è vita su questo pianeta, le uniche cose vive qui siamo noi, almeno per il momento.»
«Allora state a sentire tutti,» replicò Pat. Ma Lorry lo interruppe: «Seconda ragione. Oltre al fatto che togliere quattro ore di riposo a ciascuno di noi per tenere d’occhio la sabbia è una cosa insensata, c’è che, tutti lo sanno ma nessuno finora ne ha fatto cenno, a casa nessuno ci torna più.»
«Ora basta!» scattò Pat, «Ti proibisco di parlare così. Il turno di guardia si farà come sempre. Non è un’esperienza nuova trovarci su un pianeta sconosciuto e difficoltà ne abbiamo avute ancora, ma nessuno si è mai sognato di andare contro le norme di esplorazione. Che succede questa volta? Abbiamo perduto cinque uomini quando non avevamo ancora messo piede sulla superficie, okay, la spedizione non è incominciata bene, e allora? Non significa che dobbiamo fare di tutto per toglierci anche quelle poche probabilità che abbiamo di tornarcene a casa.»
«Pat,» disse ancora Lorry con voce stanca e guardandosi la punta degli stivali, «Anche ammesso che riusciamo a portarci fuori dall’attrazione di questo pianeta senza cambiare il motore quattro, a un certo punto dovremo pure accendere i razzi di rotta e quelli di frenaggio, e non ne abbiamo nemmeno uno di ricambio. E quando il primo meteorite di dimensioni un po’ più grosse di un fagiolo riuscirà a passare lo schermo e ci trapasserà lo scafo, con che cosa sostituiremo i pannelli? E una volta che lo scafo sarà completamente privo d’aria ci basteranno le riserve della Vega? E poi…» Lorry adesso parlava guardando negli occhi Pat e la sua voce si faceva sempre più stridula. Allora Pat Wheaver afferrò l’uomo per il risvolto della tuta e gli sibilò in faccia: «Sta a sentire, Lorry Anderson, e anche voi, lo so meglio di chiunque altro a cosa andiamo incontro e so anche quello che dovremo fare e quello che non potremo fare. Ma dal momento che mi hanno messo a bordo di questa bagnarola come comandante farò di tutto per riportarla a casa e con il maggior numero di noi dentro, è chiaro? E con questo non c’è altro da dire. Dudley! Prendi il necessario e sistemati a un chilometro da qui e qualsiasi cosa vedi o senti, chiama.»
Dudley fece sì con la testa e si allontanò. Gli altri  si avviarono lentamente verso l’astronave, in silenzio, ognuno perduto nei propri pensieri.

***

Dudley Hustin era seduto sopra il tascapane. Guardò l’orologio. Le 02:15. Due ore e un quarto della lunga notte erano passate.
Dal suo posto di osservazione non riusciva a vedere né l’immensa distesa grigia di sabbia né il cielo sfolgorante di stelle, e nemmeno la svettante sagoma della Vega con accanto la carcassa nera della Orione. Le tenui fasce di vapore formatesi verso il tramonto erano gradualmente aumentate acquattandosi basse tanto da coprire tutto. Era una specie di nebbia.
«Anche la maledetta nebbia ci voleva!» imprecò ad alta voce, poi proseguì dentro di sé: “Forse Pat aveva ragione. Quando è giorno tutto sembra sicuro e amico e ti sembra che nessun pericolo possa minacciarti. Ma quando cala l’oscurità ogni cosa cambia aspetto, si trasforma e la senti ostile. Questa nebbia! Potrebbe nascondere qualsiasi cosa, e magari potresti essere aggredito alle spalle all’improvviso…
Si girò istintivamente a fissare il sipario grigio che si stendeva dietro di lui, poi fece un brusco scatto con la testa come per scacciare quei pensieri che improvvisamente si erano fatti strada nella sua mente. Di cosa poteva avere paura? Il pianeta l’avevano sorvolato completamente varie volte. Non c’era nulla, assolutamente nulla, solo sabbia grigia, dappertutto.
Ma quella nebbia…
Si alzò e fece alcuni passi. Poi si fermò con le orecchie tese e gli occhi sbarrati cercando di perforare la parete grigia. Un fruscio come di sabbia mossa. Il vento che muoveva la sabbia? Ma l’aria era immobile…

***

A bordo della Vega tre uomini dormivano. Il quarto se ne stava con gli occhi aperti e una sigaretta tra le labbra. Pat pensava che molto probabilmente quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Ora che poteva dar libero sfogo ai pensieri, doveva essere sincero almeno con se stesso. Non c’erano probabilità sufficienti. Ad ogni modo avrebbe tentato anche l’impossibile.
Qualcuno si mosse nel sonno, si rigirò nella cuccetta brontolando, poi si assopì nuovamente. Pat si alzò e guardò fuori. Non c’era niente da vedere. Sembrava che la lastra di quarzo fosse stata dipinta di grigio.
Stava per tornare a distendersi, quando intravide nella semioscurità Lorry mettersi seduto e rimanere  in quella posizione, immobile. Guardava la parete. Poi Lorry si girò  e scese dalla cuccetta. Pat osservava attento. All’improvviso il cuore gli dette un balzo in gola perché si accorse che Lorry aveva gli occhi chiusi.
Adesso Pat seguiva ogni minimo movimento del compagno il quale sembrava perplesso, ma subito parve decidersi e si avviò verso la sala di navigazione. Il suo volto aveva una strana espressione gioiosa, le sue labbra erano schiuse in un sorriso fanciullesco.
Pat non riusciva a capacitarsi di quell’atteggiamento; un caso di sonnambulismo non si era mai verificato nel suo equipaggio e, d’altra parte, si trattava di cosa inammissibile per un astronauta. Scartò subito l’idea.
Si guardò bene dallo svegliare Lorry ma lo seguì in silenzio fino alla sala di navigazione. L’uomo sedette sul suo seggiolino e repentinamente la sua espressione cambiò e divenne una maschera di dolore, come dovesse sopportare uno sforzo tremendo. Si portò le mani alla testa e rimase così, i gomiti appoggiati sul quadro di accensione, la testa stretta fra le mani serrate a pugno.
Pat osservava le reazioni del suo compagno, studiava la sua faccia che di volta in volta mostrava i segni di una disperata lotta interiore per poi distendersi in una gioconda espressione di allegria.
Alla fine decise di interrompere quella situazione straziante e fece per toccare le spalla di Lorry, ma un rumore di passi lo fermò all’ultimo momento. Eb Doyle veniva deciso verso di lui con la fronte aggrondata. Anche Eb aveva gli occhi chiusi.
Pat credette di impazzire. Si scostò per lasciar passare il compagno, e questi andò dritto al pannello della trasmittente. Sedette, aprì il ripostiglio degli accessori, tirò fuori una grossa chiave inglese e con un’espressione di felicità fece per colpire con forza il pannello.
Pat gli si precipitò addosso. Un secondo più tardi la confusione più completa regnava a bordo della Vega. Eb e Lorry se ne stavano pietrificati, il primo a fissare la chiave inglese che teneva ancora stretta in mano, l’altro cercando di rendersi conto come mai si trovasse seduto al suo posto in sala di navigazione. Cliff Donovan aveva fatto irruzione in sala per vedere cosa stava succedendo. Pat gridava cercando di scuotere i due uomini.
Poi Eb svenne.

***

Cliff Donovan guardò l’orologio. Mancavano pochi minuti alle 10:00.
«Quanto abbiamo ancora da stare qui?» chiese stancamente Lorry Anderson.
«Poco più di due ore. Come ti senti?»
«Bah!» fece Lorry guardando in giro e vedendo solo vapore grigio, immobile, opaco, «Essere in due è già qualcosa.  Mi sono assopito.»
«Hai dormito quasi un’ora ma eri inquieto, parlavi nel sonno.»
«Che dicevo?»
«Non sono riuscito a capire. Solo qualche parola senza senso. E alle volte ridevi. Sembravi…»
«Uno scemo, vero? Già, come ha detto anche Pat a bordo. Io non riesco a capire cosa mi succede. È la prima volta che mi capita, Cliff, lo giuro. Forse il mio cervello se ne sta andando.»
«Non credo. Fosse capitato solo a te si potrebbe pensare a uno squilibrio, ma è molto improbabile che succeda di impazzire in due nello stesso momento e con i medesimi sintomi. No, ci deve essere un’altra spiegazione. Forse dipende dalla disgrazia della Orione. Ci ha toccati tutti e in misura niente affatto trascurabile. Perdere una nave appoggio e cinque uomini in quel modo non è mai successo, almeno per quanto io ricordi.»
«È un pianeta maledetto, questo, ecco cos’è!» Lorry sputò sulla sabbia, «Tutto è andato storto fin dal primo momento e vedrai come andrà a finire, diventeremo tutti pazzi prima di crepare!»
«Non comincerai a essere anche superstizioso, adesso!»
«Tu parli così perché non l’hai provato. Ti dico che è stato  terribile, sembrava non fossi più io, sentivo che qualcuno o qualcosa mi spingeva con una forza incredibile ad agire contro la mia volontà. Ma nemmeno questo è esatto perché ero sempre io che a tratti volevo farlo, e lottavo per poter agire così, ma poi non riuscivo a resistere e allora mi trasformavo e vedevo con orrore quello che stavo facendo e contemporaneamente lottavo per tornare a farlo… e sempre così… fino a che non avevo più la forza di lottare e poi… solo quando mi sono svegliato ho provato sollievo. Ma è durato un attimo perché mi sono reso subito conto dove mi trovavo e che quello che mi era sembrato un incubo era la realtà…  non so come non sia svenuto anch’io, come Eb.»
Cliff gli batté una mano sulla spalla, «Vedrai che non  succederà più. Quello che ti ci vuole, che sarebbe necessario a tutti, è un vero riposo. Cerca di dormire ancora un po’.»
Lorry si distese sulla sabbia e rimase con gli occhi aperti a fissare il cielo invisibile. Poi si alzò di scatto, «Cliff! Guarda il cielo, sta diventando rosso!»
I vapori non erano più grigi ora ma tendevano a un tenue colore rosa, e in un punto verso l’orizzonte erano indiscutibilmente rossi. I due uomini stettero a guardare silenziosi il fenomeno, poi Cliff scoppiò a ridere, «Con le tue paure fai diventare nervoso anche me. È una delle lune che sta sorgendo. Con questa maledetta nebbia non ricordavo più che il pianeta aveva dei satelliti e per di più rossi.»
Lorry non disse niente. Tornò a distendersi sulla sabbia. Ma non riusciva a tenere gli occhi chiusi.
All’interno della Vega, Pat, Eb e Dudley erano seduti davanti a tre tazze di caffè nero e forte. Avevano discusso e discusso sulla faccenda e non erano arrivati ad alcuna conclusione soddisfacente. Quindi, adesso, ognuno seguiva in silenzio i propri pensieri personali, troppo infausti per poter essere espressi a voce alta.
Pat si alzò e si avviò verso la cabina di riposo portandosi dietro la tazza di caffè. Dudley lo seguì dopo pochi secondi.
«Senti Pat,» disse un po’ impacciato, «C’è ancora qualcosa che volevo dirti.»
«Immagino sia qualcosa che non ha spiegazione. Questa è la notte delle cose inspiegabili. Possibile che quando manca la luce di un sole qualsiasi… sputa, cosa c’è ancora?»
Dudley si girò e fece per andarsene. Pat lo prese per un braccio, «Avanti, vieni qui. Cosa c’è che non funziona adesso?»
«Se la prendi in questo modo tanto vale…»
«Lascia perdere, lo sai che dovete dirmi tutto, anche i particolari che sembrano insignificanti. Non tener conto di quello che ho detto.»
«È stato durante l’ultima mezz’ora del mio turno. Ho sentito come un fruscio di sabbia smossa, come qualcuno che stesse avvicinandosi. All’inizio ho pensato che fosse uno di voi, e anzi ho chiamato, ma nessuno ha risposto.»
«Continua.»
«Be’, mi è venuto di pensare a un mucchio di cose che potevano causare quel rumore, ma ho dovuto scartarle tutte data la natura di questo pianeta. Poi ho cominciato a vedere le ombre.»
«Le ombre?»
«Sì, la nebbia mi impediva di vedere i dettagli ma erano senz’altro i contorni di figure umane. Le ho viste due volte aggirarsi a una decina di metri dal  posto di guardia. Ho chiamato ancora ma niente, nessuna risposta. Ho sentito solo un suono come se qualcuno ridacchiasse. Poi i passi si sono allontanati e non ho sentito più nulla.»
«Perché non hai chiamato con la radio?»
«Era una cosa troppo assurda. Ho pensato che non era il caso di fare tanto chiasso. Anzi, non te ne avrei nemmeno parlato se non fosse successa quella storia a bordo.»
Pat si grattava il mento. Andò a guardare fuori dall’oblò la nebbia resa rossastra dalla luna invisibile che compiva il suo passaggio, «Ma quando finirà questa notte?» pensò.
«Pat.»
«Sì?»
«C’è un’altra cosa. Quelle ombre che ho visto… una di esse assomigliava a Peter.»
Pat si voltò di scatto, «Non dire scemenze! Tuo fratello è morto, l’abbiamo seppellito assieme agli altri quattro. Devi convincerti che non c’è più niente da fare, Dudley!»
Dudley tornò in silenzio a finire il suo caffè.
Il gracidio della radio fece balzare tutti in piedi come spinti da una molla. Pat si precipitò alla ricevente, «Che succede?»
La voce che rimbombò nella cabina non sembrava affatto quella di Cliff tanto era alterata.
«Cerca di parlare più adagio, Cliff, non si capisce.»
«… tremendo, Pat, venite subito, Lorry è impazzito e credo di esserlo anch’io… ci sono i fantasmi, Pat… ci sono i fantasmi!»
«Va bene, Cliff, veniamo immediatamente. Voi due, prendete le armi.»
Ci fu un attimo in cui lo sguardo di Pat incontrò quello di Dudley, poi ognuno pensò solo a uscire al più presto dalla nave. Trovarono Cliff a metà strada che correva verso di loro, gli occhi sbarrati, sulla sua faccia c’era il terrore.
«Vasco e George… e Peter… e tutti gli altri…» Cliff parlava a scatti, affannosamente: «Li ho visti… li abbiamo visti… sono venuti a trovarci, tutti insieme… Dio che orrore!» Cliff si coprì il volto con le mani.
Pat gli porse da bere, «Su, Cliff, dimmi cosa è successo, con calma.»
Dopo qualche momento Cliff poté parlare più liberamente: «Abbiamo sentito dei passi, diverse volte, ma con questa nebbia non si riusciva a vedere niente. Lorry era molto agitato e a sentire quel suono la sua agitazione è aumentata tanto che avevo deciso di chiamarvi per riportarlo sulla nave. A un certo momento ho visto delle ombre a poca distanza da noi e ho sentito delle voci, come delle piccole grida o delle risate trattenute. Le ombre si avvicinarono e io non sapevo se aprire il fuoco… non sapevo con chi avevo a che fare. Poi… poi siamo riusciti a intravedere di che si trattava. Lorry ha urlato ed è rimasto immobile. Io non avevo nemmeno la forza di respirare perché… capisci, Pat? C’erano tutti i nostri compagni lì davanti a noi, tutti quelli che sono morti, ed erano esattamente come li abbiamo estratti dai rottami della Orione. Vasco Ramirez aveva soltanto metà testa e tutto il corpo schiacciato e… e Peter senza un braccio e le gambe maciullate e tutti erano coperti di sangue… oddio Pat, qualcosa impossibile da descrivere!»
Tutti guardavano Cliff indecisi se credere a quello che diceva. Solo Dudley annuiva. Ma troppe cose erano successe in quella terribile notte per non credere alla parole del loro compagno.
«Va bene,» disse Pat, «Tu, Dudley, va con Cliff… a proposito, dov’è adesso Lorry?»
«Non lo so,» fece Cliff con aria stranita, «L’ultima volta che l’ho visto stava guardando quegli spettri con un’espressione che… poi sono scappato.»
«Allora tu e Dudley ritornate lì e riportate Lorry sulla nave. Eb, vieni con me.»
I due uomini si incamminarono in direzione della Orione. La nebbia aveva una luminescenza diffusa e rossastra. Eb guardò l’orologio. Erano le 10:36.
Dopo una decina di minuti i due uomini si fermarono a poca distanza dai resti della nave. Entrambi immaginavano ciò che avrebbero trovato malgrado ci fosse sempre una traccia di incredulità che li faceva sperare. Fu per questo che, quando videro le cinque fosse aperte, non poterono trattenere un’esclamazione di raccapriccio.
Dentro le cinque buche e sparsi intorno c’erano i teli di plastica che erano serviti da sudario ai loro disgraziati compagni.

***

Ore 17:00.
All’interno della Vega Eb Doyle e Pat Wheaver stavano ad ascoltare il lento trascorrere del tempo.
Erano rimasti in due. Cliff e Dudley erano andati a cercare Lorry da molto tempo e non avevano più fatto ritorno. Dalla nave avevano sentito spari d’arma da fuoco, poi più nulla.
«Io rimango dell’opinione che sia meglio andare a vedere.» Disse Pat.
«Ma vedere cosa? Ci tieni proprio a vederlo quello spettacolo, e magari farti sparare dietro se c’è ancora qualcuno vivo?» Eb parlava guardando fuori dell’oblò.
«Tu sei convinto che Cliff e Dudley siano morti, vero?»
«Senza dubbio. La spia della trasmittente è sempre accesa, perché non  trasmettono?»
«Non riesco a credere una cosa simile.»
Dalle labbra di Eb uscì come un singulto: «Laggiù… guarda laggiù!»
Poco lontano era uscita dalla nebbia la materializzazione del sogno di un pazzo. C’erano tutti gli uomini della Vega e della Orione. Tutti si tenevano per mano e ballavano lanciando alte grida di gioia, e tutti erano felici come bambini che giocano al girotondo. Dudley teneva in braccio il corpo praticamente dimezzato di suo fratello Peter.
«C’è anche Lorry,» disse Pat a bassa voce, «E anche Cliff è con loro. Mio Dio, ma come è possibile…»
«Guarda la fronte di Dudley,» disse Eb.
Una pallottola esplosiva aveva centrato Dudley giusto in mezzo alla fronte ed ora il suo volto era un grumo di sangue. Anche Lorry era stato colpito. La tuta appariva squarciata all’altezza del ventre.
«Li ha uccisi Lorry,» disse Eb, «Evidentemente era del tutto impazzito e quando sono arrivati ha sparato a bruciapelo. Comunque uno dei due ha fatto in tempo a estrarre la pistola. Sembrano… sembrano  bambini che si divertono…»
Pat Wheaver annuì: «Credo tu abbia detto giusto, Eb. Bambini che si divertono. Secondo te cos’è che rende diverso un uomo da un bambino?»
Eb lo guardò perplesso, «Be’, l’esperienza, l’uso dei freni inibitori…»
«Esatto. Quindi se a un uomo togli i freni inibitori dell’Ego, ecco riaffiorare dal profondo la prepotente forza dell’Id. Sbilanciamenti di questo genere sono abbastanza comuni però in forma lieve… ma se fossero radicali…»
«E tu credi che la causa di tutto questo…»
«Non trovo altra soluzione. Sono tornati bambini. Guardali, stanno giocando al girotondo. E anche tu, quando sei sceso dalla cuccetta nel sonno e ti sei messo a trafficare con la chiave inglese non eri altro che un ragazzino spinto dal desiderio di rompere un giocattolo per vedere come era fatto dentro. E sulla faccia avevi un’espressione di gaiezza tutta infantile. Ci dev’essere qualche forza sconosciuta su questo pianeta che agisce sulla nostra psiche e ci toglie i freni inibitori dell’Ego facendo riaffiorare le lontane esigenze dell’Id.»
«Ma Pat, quelli là sono tutti morti!»
«Vorrà dire che la morte fisica non è un ostacolo, anzi, è proprio dopo la morte fisica che questa forza misteriosa trova campo libero per richiamare alla superficie i fantasmi dell’Id. Non credo che i nostri compagni potranno mai morire completamente come intendiamo noi, anche se li crivelliamo di colpi il loro Id li farà agire sempre come dei bambini,» poi aggiunse sottovoce: «Almeno loro, forse inconsapevolmente, sono felici…  quasi mi viene di invidiarli.»
Il gruppetto di esseri spaventosi si sciolse e tutti corsero via gettandosi addosso manate di sabbia e sparando in aria.

 

All’interno della Vega l’orologio segnava le 18:23.
I due uomini erano stati sopraffatti dalla stanchezza e dalle emozioni. Vapori immobili coprivano la superficie del pianeta nascondendo ogni cosa. Da qualche parte una torma di orrendi cadaveri stava impazzando.
Pat riaprì gli occhi. Guardò subito l’orologio. Le 19:05.
Ancora per poco,” pensò, “Poi finalmente sarà l’alba.”
Molte carte erano sparse disordinatamente sul pavimento. Tutte le mappe e le relazioni di viaggio e i nastri dei calcolatori erano disseminati per tutta la cabina, come se un bambino si fosse divertito a lanciarli in aria.
La seconda cosa di cui Pat si accorse fu che Eb non era più nella nave. Infine vide il portello spalancato.
«Anche Eb,» disse Pat con voce rotta, «Adesso sono rimasto solo. Perché proprio io l’ultimo?»
Fuori, i vapori grigi si erano diradati un poco. Dalla Vega si cominciava a distinguere il nero ammasso della Orione e, un centinaio di metri più a sinistra, una porzione di terreno smosso, scavato, calpestato e cosparso di brandelli di plastica. Un suono modulato come di canto proveniva da distanze ancora nascoste dalla nebbia.
Quando Pat uscì dalla nave mancavano pochi minuti alle 20:00. I vapori continuavano a dissolversi. Il comandante della Vega estrasse la pistola dalla fondina e ne controllò l’efficienza. Camminò parecchio prima di vedere in lontananza delle figure muoversi disordinatamente. Gocce di sudore gli scorrevano giù per il viso e lungo il corpo. Quando fu a poche decine di metri le figure smisero di contorcersi in danze assurde e stettero a guardare Pat che si avvicinava.
«Aspettate, amici,» mormorò Pat, «Ancora un attimo e vi raggiungo.»
Un sole bianchissimo stava per sorgere dalla linea grigia dell’orizzonte. I vapori notturni erano quasi del tutto spariti,  il cielo aveva perduto i grumi di stelle.
Uno sparo ruppe il silenzio e si propagò sulla piana.
Grida festose si alzarono dal gruppo che ricominciò a ballare intorno al corpo di Pat.

 

Renato Pestriniero

Da “Una notte di 21 ore” è stato tratto il film “Terrore nello spazio” di Mario Bava, del 1965

Renato Pestriniero
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Renato Pestriniero, veneziano, sposato, una figlia. Fino al 1988 capo reparto presso la filiale veneziana di multinazionale svizzera. Dal suo racconto “Una notte di 21 ore” il regista Mario Bava ha tratto il film “Terrore nello spazio.” Esperienze televisive, radiofoniche, fotografiche e figurative.

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