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“CIGNO X1” DI DONATO ALTOMARE

“CIGNO X1” DI DONATO ALTOMARE

La copertina è World © di Roberta Guardascione
disegnata appositamente per Cose da Altri mondi.

Scelti dal Direttore

Cigno X1 di Donato Altomare
(Concorso Letterario Nord 1980, Edizioni Nord, aprile 1980)

“Secondo un punto di vista speculativo, un oggetto che cade in un buco nero può riemergere in un altro universo e in un altro tempo. I buchi neri potrebbero essere aperture che conducono in altri universi e in altre epoche; possono essere le scorciatoie attraverso lo spazio e il tempo.”

Carl Sagan

La mano di Osol si posò delicatamente sulla pelle morbida di Angela che con gli occhi socchiusi respirava lentamente assaporando goccia a goccia quella piacevolissima sensazione. Indugiò un attimo sul seno ben modellato e poi scese giù, sempre più giù in un crescendo di sensazioni per poi esplodere in un forte desiderio d’amore.
D’un tratto un ronzio. Insistente.
Osol si sollevò di scatto dal letto. Non bestemmiò, non disse nulla; guardò il terminal del computer e attese.
Angela era ancora in quello stato semicosciente tipico della Xapa, ma la magica atmosfera si era rotta. Riuscì ad aprire gli occhi e a chiedere con voce impastata: – Cosa succede?
Osol non rispose. Non era preoccupato, tutt’al più seccato, eppure i suoi occhi erano sempre vigili. Tutte le normali luci di viaggio erano spente, solo il lampeggiatore verde del preallarme aveva appena preso a pulsare. Osol si alzò dal letto e sedette al terminal.
“Forse un’esercitazione di salvataggio,” pensò. “A quel che mi risulta questa è una rotta tranquilla.” Osservò il cronometro incassato nella parete che scandiva il 15° secondo di preallarme e si tenne pronto. Aveva vissuto molti anni da solo nelle foreste di Wotan, nel sistema di Sheratan e i suoi sensi erano all’erta anche quando faceva l’amore. Diciotto secondi. Poteva essere un falso allarme. Quella nave era troppo grande e perfetta per essere in pericolo. Certo faceva quella rotta per la prima volta, ma migliaia di piccoli mercantili l’avevano preceduta. Venti secondi.
Il verde divenne improvvisamente rosso e, mentre il ronzio si trasformava in una sirena, sullo schermo apparvero due parole:
– ABBANDONARE LA NAVE.
Osol non perse un istante. Spense il pulsante nero. Si udì un suono secco seguito da una sorda lacerazione e per un solo attimo l’uomo avvertì il vuoto intorno a sé. Immediatamente il controllo automatico ripristinò la gravità artificiale.
– Immagine panoramica dell’astronave, – ordinò al computer.
Lo schermo ebbe un lampo e poi diede l’immagine della grande nave spaziale che si stagliava netta sul fondo nero. Non senza una punta d’orgoglio Osol si accorse di essere stato il primo e, per il momento, l’unico ad abbandonare la nave.
Poteva essere un’esercitazione o un guasto banale, ma lui non amava correre rischi inutili. Attendeva curioso gli eventi quando una seconda navicella si staccò dall’enorme madre. Erano passati 7 secondi dall’Allarme Rosso. Sorrise: un buon tempo per il secondo posto. Il sorriso gli si gelò sulle labbra.
La gigantesca astronave si spaccò in due come fosse di stagnola ed esplose in miliardi di scintille fiameggianti travolgendo la seconda navicella. Dall’inizio del segnale d’allarme rosso erano trascorsi solo 8 secondi. La sua navicella sussultò, ma era troppo lontana per essere coinvolta nell’esplosione. Se solo avesse preso anche lui la droga sarebbero stati entrambi un mucchietto di atomi sparsi nell’universo. Per fortuna Angela era semicosciente; non avrebbe retto allo spettacolo.
Una spiacevole sensazione lo assalì. Si girò.
Angela era in piedi poco distante da lui, splendida nella sua nudità, e fissava lo schermo con occhi sbarrati.
Osol fece appena in tempo a reggerla.

SOLI

Angela era stesa sul letto e aveva gli occhi chiusi. Il suo volto era pallido anche nella riposante luce arancione che avvolgeva l’interno della cabina-navicella. Osol l’aveva adagiata fra le coperte, incerto sul da farsi. Era abituato ad affrontare da solo grossi pericoli, ma di fronte alla donna svenuta si sentiva impacciato. Poi si decise. Dall’armadietto dei medicinali tirò fuori una soluzione di idrocorticoidi e adrenalina e la iniettò subito alla ragazza, certo che così avrebbe anche annullato l’effetto della droga. La donna diede subito sintomi di ripresa: il respiro si fece più sostenuto, poi riaprì gli occhi:
– Cosa… cosa è successo? – chiese, poi ricordò tutto. Gli occhi le si dilatarono e la bocca si spalancò senza emettere alcun suono.
– Calmati. Va tutto bene.
– Ma… gli altri… tutti gli altri…
– Come noi. Chi meglio, chi peggio, ma tutti in salvo nella loro navicella di salvataggio.
– Cosa? Ma tu stesso hai visto…
Osol la interruppe bruscamente:
– Certo. Io stesso ho visto tutte le navicelle staccarsi e allontanarsi prima dell’esplosione. Tu eri sotto l’effetto della Xapa, come pretendi di avere visto tutto bene? Ora dobbiamo solo cercare di venire fuori da questa situazione al più presto. Ti prego di avere fiducia in me.
Angela cercò di sorridere senza riuscirci:
– Va bene, Osol, forse hai ragione, cercherò di non pensarci più. Scusami.
L’uomo sorrise e le diede un leggero bacio sulla punta del naso:
– Brava. Ora resta a letto e riposa tranquillamente. In un modo o nell’altro ti prometto di tirarti fuori dai guai.
Si sollevò e si guardò intorno.
La piccola cabina aveva una forma oblunga, a uovo. Il diametro più lungo misurava 4 metri, due e trenta quello più piccolo. Un letto, un tavolino pieghevole, uno scomparto per le tute pressurizzate, due piccole sedie fissate al pavimento e un armadio a muro costituivano tutto il suo arredamento. La parte concava più piccola dell’uovo separata da un leggero setto metallico formava il bagno. Dalla parte opposta i pannelli di comando e il terminal del calcolatore.
Era stata una magnifica idea quella di fare di ogni cabina una potenziale e autosufficiente navicella di salvataggio. Osol pensò di cominciare a fare qualcosa. Si portò presso lo schermo e chiese:
– Posizione.
Sullo schermo apparvero le coordinate spaziali. Sfogliò le carte e notò di essere entrato nella costellazione del Cigno. Si rese conto di essere molto lontano dalla rotta. Era una cosa scontata, ma pur sempre preoccupante.
– Cosa suggerisci?
Il cervello elettronico ronzò un poco, poi la voce metallica disse:
– Formulare domanda precisa.
– D’accordo. Cosa devo fare?
La risposta giunse subito:
– Nulla.
Per un attimo Osol temette il peggio, poi capì e cambiò domanda:
– Quali sono le istruzioni memorizzate per questi casi?
– Portare la navicella nel rifugio più vicino.
– E ci stiamo andando? Quando arriveremo?
– Sì. Tra 58 ore e 27 minuti primi. Il cibo, l’acqua e l’aria sono sufficienti.
Osol si girò verso Angela che, distesa sul letto, aveva ascoltato tutto e sorrise. Stava per lasciare il terminal quando ci ripensò e chiese:
– Sai dirmi cosa è successo?
La voce parve stranamente grave:
– I dati acquisiti sono scarsi. La nave è stata sottoposta a un’enorme forza di gravità che l’ha spaccata in due facendo esplodere il termoconvettore.
Osol fissò lo schermo incredulo:
– Cosa? Che storia è questa?
Il meccanismo ronzò nuovamente.
– Formulare domanda precisa.
Osol girò lo sguardo seccato stringendo la mandibola:
– Va bene. Cosa ha causato questa enorme forza di gravità?
– Dati insufficienti, – fu la breve risposta.
– Puoi avanzare qualche ipotesi?
– Sì.
– Quale?
– Un “buco nero”. Probabilità 87°,3 periodico semplice. In crescita.
L’uomo impallidì.
– E noi? – poi si corresse: – Noi siamo fuori dal suo campo?
– No.
Osol strinse il bordo del computer fino a sbiancare le nocche delle dita. “No,” ripeté fra se. – Cosa devo fare?
La risposta aveva il sapore amaro di una sentenza.
– Nulla.

NEL BUIO

Fecero l’amore molte volte. Prima con dolcezza, poi con furia. Dopo Angela non riuscì più a frenarsi e scoppiò a piangere come una bambina. Grosse lacrime le rigavano il volto e bagnavano il cuscino. Osol pose le proprie labbra sul volto umido della donna ma non parlò. La strinse più forte a sé, pensando che la morte altrui è uno specchio nel quale ciascuno di noi scopre il proprio futuro.

IL CIGNO

Osol si svegliò. Aveva la bocca amara e un senso di panico gli opprimeva il petto. Sbirciò l’orologio luminoso: erano passate 8 ore dall’incidente. Che fossero salvi? Cacciò via ogni speranza e, cercando di non svegliare Angela, scivolò giù dal letto e si avvicinò al pannello. Infilò l’auricolare, accese lo schermo e chiese:
– Coordinate.
Il cervello elettronico gliele fornì.
– Ora voglio quelle del “buco nero”.
Ormai erano vicini, maledettamente vicini.
Ogni speranza, se pur piccola, sparì. La navicella puntava su di esso.
– Come mai non ne sentiremo l’effetto?
Cercò di mantenere calma la voce, anche se ad ascoltarlo c’era solo la macchina.
– L’azione si manifesta a una distanza inversamente proporzionale al quadrato della massa.
Ora era chiaro perchè i piccoli mercantili che avevano preceduto la grande astronave non ne avevano sentito l’effetto. Nessuno aveva mai creduto che quella fonte di raggi X chiamata Cigno X 1 fosse un “buco nero”.
– Quando toccherà a noi?
Si meravigliò di discutere così della propria morte. E di quella di Angela.
– Tra due minuti e 20 secondi. “Così presto,” pensò Osol.
– La navicella sarà spaccata in due?
– No, è troppo piccola.
– E allora cosa succederà?
– Non sono in condizioni di rispondere. Dati insufficienti.
L’uomo chinò il capo e lasciò il terminal.
Guardò l’orologio. Ancora un minuto e 45 secondi.
Ecco la morte. Assurda. Imprevedibile.
L’aveva sfidata 100 volte su Wotan, troppe volte per temerla, eppure ora non poteva far affidamento sulle proprie capacità. Doveva rimanere lì ad attendere che un gigante li schiacciasse. Ebbe voglia di urlare per quel senso di impotenza, ma avrebbe svegliato Angela e questo non lo voleva. Angela. Splendida, dolce, sapientemente impacciata. E con pochi attimi di vita.
Il primo scossone lo colse impreparato, mandandolo a ruzzolare ai piedi del letto. Poi fu l’inferno.
La navicella fu scossa violentemente. Angela volò via dal letto e sbatté contro il soffitto. Osol la vide e cercò di alzarsi per darle aiuto, ma le scosse erano troppo decise. Poi tutto cessò.
Osol semicosciente sollevò lo sguardo… e la vide. Aveva gli occhi aperti, ma fissi mentre un rivolo di sangue le scendeva dalla bocca. Urlò il suo nome, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Angela aveva i capelli ricaduti sul volto e il collo piegato in una posizione innaturale. Troppo. L’uomo cercò di trascinarsi sul pavimento per arrivare a lei. Sentiva il suo corpo pesantissimo e non riusciva a muovere neanche un dito. Cercò di aprire la bocca per chiamare la sua donna, ma la bocca restò chiusa. Anche le palpebre erano pesanti. Troppo pesanti. Gli occhi gli si chiusero e sprofondò nell’incoscienza.

DENTRO

Osol aprì gli occhi.
Eppure vedeva tutto nero.
Cercò di spalancarli, ma il buio era troppo fitto.
Sapeva di essere sveglio, ma l’oscurità totale lo intimoriva e allo stesso tempo lo riempiva di furore. Nel buio non si sarebbe potuto difendere. Era stato pazzo a uscire di notte nella foresta. Le possibilità di trovare il rarissimo Apec luminescente non valeva il rischio della vita. Su Wotan la notte è nera come la pece, non vi è luna e la luce delle stelle non oltrepassa lo spesso strato di nuvole che circonda perennemente il pianeta.
Era spacciato, Portò istintivamente la mano alla pistola e si sentì meglio.
Era inutile. Ma era pur sempre un’arma.
Strani rumori lo circondavano: rumori di morte. Cercò di ragionare freddamente e capì di avere una piccola possibilità di salvezza. Aprì il fuoco a casaccio. Il lampo del fulminatore illuminò la zona per un decimo di secondo come il flash di una macchina fotografica, ma fu lui a fotografare la zona. Con decisione si mise a correre continuando a sparare intorno sfruttando la luminosità dei colpi. D’un tratto intuì il pericolo, non lo vide. Sarebbe stato impossibile distinguere il corpo cilindrico del mostruoso Kiroc che camminava eretto come un albero. Non ne avrebbe neanche potuto notare il movimento. Capì che doveva sparare in una certa direzione. Una, due, tre volte, sempre correndo finché non sentì con gioia l’urlo bestiale di morte dell’animale. Ma la gioia durò poco. Si sentì circondato. Dov’era il “guscio”, dov’era quel maledetto rifugio? Gli si era allontanato solo 300 passi. Doveva essere vici… Sentì un rumore alle spalle. Non si girò ma sparò in quella direzione torcendo il braccio e allo schiocco della luce fissò bene il cammino. Il suo respiro si era fatto ansante. Un dolore acuto al fianco gli ricordò che su Wotan la gravità era una volta e mezzo quello della Terra. Strinse i denti e continuò. Una piccola luce apparve di fronte a lui. Il rifugio.
Raddoppiò gli sforzi. Ce la doveva fare. Continuò a sparare. Ancora pochi passi poi…
Qualcosa lo afferrò alla vita. Qualcosa di duro e flessibile. Osol sollevò la pistola per sparare, ma anche il suo braccio fu bloccato. Un arto cilindrico e appuntito del Kiroc gli trapassò il cuore.

***

Osol riaprì gli occhi.
Appena in tempo per vedere il fondo del baratro venirgli incontro. Istintivamente allungò le mani e le richiuse su un appiglio solido. Era una piccola sporgenza della roccia. I suoi muscoli si tesero mentre la gravità del pianeta pareva una mano decisa a trascinarlo giù. Doveva farcela. Su Wotan una caduta di pochi metri poteva significare la morte. Strinse ad artiglio le mani sulla roccia spezzandosi due unghie, ma il dolore non gli fece mollare la presa. Lentamente cominciò a issare il suo corpo. Centimetro su centimetro guadagnava terreno. Doveva assolutamente risalire la ripida parete della scarpata. Mille pensieri gli passavano per la mente mentre stringeva i denti.
Angela. Angela.
Angela era morta.
No. Angela era lontano, al sicuro. Sulla Terra.
Angela aveva il collo spezzato.
No. Il viaggio non era ancora stato fatto. Quale viaggio?
Il buco nero. Non ve n’erano presso Sheratan.
Il sudore gli scendeva abbondante sul collo, la vista cominciava ad appannarsi per lo sforzo. Migliaia di stelle danzavano davanti ai suoi occhi. Il “buco nero”, un foro tetro nel quale si perdevano due occhi. Due occhi freddi, senza vita. Quelli di Angela.
Con un ultimo sforzo superò l’orlo del crepaccio e ansante ma felice per lo scampato pericolo fece per alzarsi e tornare al rifugio. Ma era troppo stanco. Si accasciò al suolo e perse conoscenza.

***

Osol riaprì gli occhi.
Maledizione. Questa volta era spacciato. Era finito nella tela ipnotica di Stefan il ragno. L’aspetto dell’animale era più quello di una splendida gigantesca farfalla che quello di un ragno. Catturava le sue prede ipnotizzandole. Per un uomo era facile scappare perché ci voleva troppo tempo prima che l’ipnosi agisse. Ma Osol non scappò né distolse lo sguardo. C’era qualcosa che lo incuriosiva sino all’estremo limite dell’incoscienza e ora lo attirava inesorabilmente verso la morte.
Erano due occhi.
Sapeva bene di chi.
Le ali della farfalla lo coprirono come un sudario.

***

Osol aprì gli occhi.
Il lampeggio verde di preallarme lo infastidiva.
Angela dormiva al suo fianco. Viva. Desiderabile.
Saltò giù dal letto. Sentiva intorno a sé una sensazione di fastidio; gli pareva di essere immerso nella nube ovattata di uno strano sogno. Ma tutto era reale, come pure il preallarme. Il suo sguardo corse al pulsante di sgancio e sollevò la mano. Poi d’un tratto ricordò tutto. Vacillò quando rivide mentalmente Angela con il collo piegato in posizione innaturale e gli occhi vitrei spalancati mentre un rivolo di sangue le colava sulle labbra.
Ma poi… qualcosa non quadrava.
Quella notte buia su Wotan lui si era salvato; non era morto vittima del Kiroc. Era riuscito a entrare nel rifugio.
Come pure dopo, nel burrone. Era caduto. Due costole incrinate e un femore rotto. Si era salvato trascinandosi al rifugio aggirando il burrone. Il contrario di quel… sogno? Non sapeva come altro definirlo. Ma era stato un sogno?
Gli sembrava di aver veramente vissuto quelle avventure una seconda volta… ma al contrario.
Stefan il ragno non era mai riuscito a ipnotizzarlo.
Tutti questi pensieri gli attraversarono la mente in pochi secondi. Qualcosa gli diceva di non premere quel pulsante. “Non farlo” urlava. Ma la paura di una morte sciocca era molto forte.
Presto i 20 secondi sarebbero finiti e il lampeggiatore verde sarebbe diventato rosso per soli 8 secondi.
Cosa doveva fare?
Il contrario… il contrario… il contrario…
Cosa?
Il verde divenne rosso e sullo schermo una scritta a caratteri cubitali diceva: ABBANDONARE LA NAVE.
Osol aveva una mano sollevata presso il pulsante, ma ormai aveva deciso.
La riabbassò e con calma contò fino a 8.

Donato Altomare
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Nasce a Molfetta nel 1951. Narratore, saggista, poeta, ha vinto due volte il Premio Urania, il premio della critica Ernesto Vegetti e otto volte il Premio Italia. Autore del genere fantastico è stato pubblicato dalla maggior parte degli editori. Nel maggio 2013 è stato nominato Presidente della World SF Italia, l’associazione italiana degli operatori della fantascienza e del fantastico.

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