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Pacem in terris

Pacem in terris

 

– Pa’ posso farti una domanda?

– I papà esistono per dare risposte. Dimmi.

– Pa’ consa significa la parola pace?

Silenzio.

– Attento, ho visto un movimento sul crinale destro della collina.

Il fucile TLD Red col cannocchiale Minox ZP5 imbracciato dal ragazzo ruota di sette gradi e inquadra la zona.

– Non c’è nessuno. Sarà stato il vento che ha mosso le foglie di un albero. Allora? Che significa pace?

– Dove hai sentito questa parola?

– Al funerale di zio Pino. Don Matteo ha detto: Riposa in pace. So che vuol dire riposare, è quando facciamo i turni e rientriamo dalle postazioni di tiro, ma … pace?

– Don Matteo dovrebbe fare attenzione a quello che dice.

– Ha detto di recitare la preghiera dei morti, ma io conosco solo la preghiera contro i nostri nemici.

“Generale nostro
che voli nei cieli
Sia onorata la tua divisa
conserva il tuo Regno
obbedienti alla tua volontà
tanto in cielo che in terra
Mostraci oggi
il nostro nemico quotidiano
Proteggici da lui
E non farci inquadrare nel suo mirino
Ma liberaci dalla morte.
Così sia.”

– Non so se c’è un’altra preghiera per i morti.

– Una volta c’era.

– Ma i morti sono solo i nostri o anche quelli dei nemici?

– Vuoi sprecare una preghiera per i nemici morti?

– Ma… ma i morti sono tutti… uguali e tutti devono riposare in pace, l’ha detto Don Matteo. Insomma, che significa questa parola?

– Ecco… pace… è quando… quando… ecco, quando non ci si spara.

– Vuoi dire che noi non uccidiamo i nostri nemici e loro non uccidono noi?

– Più o meno… attento… il movimento non era quello delle foglie, c’è qualcuno che sta risalendo la collina, alla tua destra. Sembrano in due, mira al secondo, il primo è certamente una sagoma di cartone.

Sparo.

– L’ho beccato. Il secondo.

– Bravo figliolo.

– Già a 12 anni il mio record col cannocchiale era 98 su 100. Quindi, pa’, pace significa che è possibile non ucciderci?

– Una volta… una volta si viveva nelle città. In pace.

– Ma era pericoloso. I razzi le distruggono le città, incendiano i palazzi e li fanno crollare. In città non c’è acqua né energia, c’è poco da mangiare ed è pericolosissimo andarsene in giro in cerca di cibo.

– Una volta non era così. Si viveva in una casa…

– Vuoi dire una casa… vera?

– Sì.

– Non come i nostri rifugi?

– Una casa vera, con finestre… grandi finestre.

– E non ti sparavano attraverso le finestre?

– No, non ci sparavano, né noi sparavamo ad altri.

– Non ci credo.

Sparo.

Pallottola che fischia molto vicina.

– Ci stanno inquadrando. Striscia verso la destra, io mi sposto a sinistra e sparo qualche colpo per dare l’impressione che andiamo da quella direzione. Appena senti partire il mio primo colpo, punta il crinale col fucile, inquadra la zona nel cannocchiale, qualcuno tenterà di colpirmi. Precedilo.

Tramestio, rumore di foglie secche calpestate.

Poi un colpo. E quello del ragazzo subito dopo.

– Beccato. 99 su 100. Sto migliorando.

– Bene, ora spostiamoci in alto, sarà migliore il controllo della collina nemica.

Rumore di foglie secche calpestate.

– Pa’… si stava bene in una casa?

– Benissimo.

– E che si faceva se non c’era da sparare?

– Tante cose. Prima di tutto si andava al lavoro.

– Anche i ragazzi?

– I tredicenni come te andavano a scuola.

– Come al corso d’addestramento all’uso delle armi?

– No, la scuola era… era bella. Imparavi tante cose… a scrivere, a far di conto, imparavi la storia e la geografia…

– A che serviva la storia e la geografia?

– A insegnarti a non commettere gli stessi errori…

– Credo, pa’, credo che nessuno di voi abbia imparato molto dalla storia.

Silenzio.

– … e c’erano tanti ragazzini con cui fare amicizia.

– Vuoi dire… vuoi dire che si poteva stare insieme… tra ragazzini, intendo?

– Stare insieme e giocare.

– Giocare? E dove?

– Ma fuori, per strada, nei campi di calcio a rincorrere un pallone, si poteva andare in bicicletta… o fare una corsa per vedere chi arrivava primo.

– Cosa? All’aperto? Senza protezione? E non ti sparavano contro?

– Ma sta’ attento, non ti distrarre se non vuoi essere centrato dal nemico, ho visto qualcosa luccicare quasi sulla cima della collina. Dev’essere un cannocchiale. E siamo scoperti. Muoviti piano, raggiungiamo quello spuntone di roccia.

Rumore di foglie secche calpestate.

Un colpo. Vicinissimo.

– Per un pelo. Per fortuna ci siamo spostati. Non dobbiamo distrarci.

– Certo, ma se tu continui a raccontarmi favolette… sono grande, ho tredici anni e mezzo quasi.

– Hai ragione… pace… favolette.

– Ma tu… tu ricordi quando non si sparava?

– Non eri ancora nato.

– E… e mia madre?

– Lo sai, è morta quando avevi tre anni a causa di un drone esplosivo. Non puoi ricordarti di lei.

– Anche lei… anche lei ora riposa in pace?

– Sì.

– Ma anche lei… anche lei ora ha una casa… anche lei ora gioca… fuori… senza pericolo?

– Anche lei.

– Non riesco a immaginare cosa significhi. E come si faceva a giocare a palla con le tute mimetiche? Pesano un accidente.

– Si andava in giro senza tute.

Espressione di stupore.

– Non ci credo. È… è troppo rischioso… senza tuta se sei colpito sicuramente sei morto. Ce l’hanno insegnato al corso d’addestramento.

– Ripeto, non si sparava.

– E… come ci si procurava il cibo? Senza razzie? E come… come si facevano prigionieri da scambiare? E… e come ci si impossessava delle armi del nemico per usarle contro lui stesso? Giocando a palla?

– Si coltivava la terra, si pescava in mare, si costruivano aerei per viaggiare, non per bombardare, i droni erano un gioco, non servivano a uccidere e con i fucili si faceva sport, tiro a segno.

– Ma cosa mi racconti? Sono grande, mica un poppante. Stai inventando tutto.

– No, è tutto vero. C’era il tempo per studiare, c’era il tempo per giocare a computer, c’era il tempo per andare a trovare i nonni…

– I nonni? C’erano ancora i nonni?

– Mio padre aveva il tuo stesso nome. È morto a 53 anni.

– Si viveva… si viveva sino a 53 anni? Ma è… è pazzesco! Come ha fatto a evitare gli accerchiamenti?

– Quando lui era giovane, gli accerchiamenti erano soltanto un gioco.

– Ma che mi racconti? Io non ti credo.

– Poi, quando diventavamo grandicelli c’erano i primi amori, c’erano le ragazze.

– Anche loro non uccidevano?

– Uccidevano con… gli occhi. Ti passavano il cuore con un sorriso.

– Che significa? Una nuova arma comandata dagli occhi?

– No… lascia perdere.

Uno sparo. Lontano.

– Come immaginavo quegli idioti ci cercano dall’altra parte della collina.

– Ne ho inquadrato uno, ora lo stendo.

– No, aspetta, può essere una sagoma per cercare di individuarci. Con un drone ci ucciderebbero. È al guidatore di droni che dobbiamo puntare. Prima o poi si scoprirà.

– Spero che lo faccia prima del cambio turno. Mi piacerebbe tornare con un trofeo.

– Abbi pazienza e lo farai. Se, al contrario, sei impaziente, non… tornerai.

– Le ragazze… dicevi.

– Belle, con i loro vestiti corti e colorati, le curve al punto giusto… ti facevano girare la testa. Poi… poi quando riuscivi a rubare loro un bacio… altro che trofeo!

– Stai scherzando? Già è difficile scoprire se dentro una mimetica c’è un ragazzo o una ragazza. Ma dare un bacio a una ragazza non mi provoca alcuna emozione. Invece un trofeo… un guidatore di droni ucciso… immagina le feste.

– Già. Immagino…

– Ma ora smettila, pa’, questa pace non la capisco proprio. Forse… forse è soltanto per i… morti.

Uno sparo.

– L’ho visto, ce l’ho. È proprio un guidatore…

Uno sparo.

Silenzio.

Rumore di foglie secche calpestate.

Donato Altomare
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Nasce a Molfetta nel 1951. Narratore, saggista, poeta, ha vinto due volte il Premio Urania, il premio della critica Ernesto Vegetti e otto volte il Premio Italia. Autore del genere fantastico è stato pubblicato dalla maggior parte degli editori. Nel maggio 2013 è stato nominato Presidente della World SF Italia, l’associazione italiana degli operatori della fantascienza e del fantastico.

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