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Assalto finale

Assalto finale

Il grande elicottero bianco e blu atterrò sul prato dietro la Casa Bianca.

Il Presidente Garrett scese tenendo una mano sui capelli sale e pepe scompigliati dal vento del rotore. All’ingresso dell’ala est lo attendeva il generale Rainer.

“La situazione?” chiese Garrett.

“Va male, signore. Il nemico sta avanzando su tutta la Costa Orientale. Per ora riusciamo a contenere i suoi attacchi, ma non dureremo molto.”

Garrett fece un cenno con la testa e proseguì.

Il personale – la solita corte di segretarie, stenografi, addetti al protocollo – lo salutò ossequiosamente come sempre. Ma c’era qualcosa di diverso in aria. Una sensazione concreta, tangibile.

Paura.

Chiuso nel suo studio, il Presidente si collegò al Centro operativo della Difesa, settanta metri sotto il Pentagono. La situazione nelle altre zone del Paese era ancora peggiore di quanto aveva detto Rainer: il nemico stava lanciando una serie di attacchi di grande violenza, usando anche armi atomiche tattiche e bombe N. Le perdite erano ingenti. Le principali città della Costa Occidentale distrutte o seriamente danneggiate. Poche le speranze di ribaltare la situazione.

Il Presidente staccò il collegamento e per qualche minuto si abbandonò all’onda dei ricordi. Rivide il giorno del suo insediamento, una luminosa mattina di gennaio, risentì il discorso che aveva fatto con la promessa di difendere il Paese da tutti i nemici interni ed esterni. Rivide il primo episodio della guerra (ma allora nessuno lo avrebbe supposto), quando un gruppo di ribelli si era impadronito di un arsenale di armi atomiche lanciando un ricatto alla Nazione. Allora l’intervento dell’Esercito aveva risolto brillantemente la situazione. Ma adesso…

E sua moglie era a Boston, una delle città più esposte agli attacchi nemici. Purché non debba soffrire, si disse.

Chiamò Rainer alla Situation Room sotterranea. La voce del generale era stranamente spenta, incerta. “Abbiamo perduto Los Angeles e buona parte della California. Sembra che a Dallas ci sia stato un eccidio: donne, bambini, vecchi sterminati.”

Le ore si sgranavano lente. Arrivò il pomeriggio. Il tempo stupendo non faceva che aumentare la struggente malinconia che lo prevedeva. Chiamò di nuovo Rainer, senza ricevere risposta.

Chiamò ancora. Rispose una voce giovane, emozionata e incespicante. “Sono l’aiutante del generale Rainer, signore. Il generale è… è morto. A quanto sembra si è suicidato con la sua pistola. Aveva ancora in mano la strisciata di una telescrivente.”

“Cosa dice?” chiese Garrett stringendo forte la cornetta del telefono.

“Dice: ‘Il nemico è entrato a New York alle 14.50, tempo della Costa Orientale.”

Garrett tolse il contatto. Chiamò la sua segretaria personale. Nessuna risposta. Chiamò il capo del protocollo.

Non sentiva più nessun rumore attorno. Si alzò, raggiunse la stanza della segretaria, fece un giro per gli uffici. Nessuno.

Mi hanno lasciato solo, disse a se stesso. Beh, in fondo posso capirli: non sono soldati. Ma io, io sono il primo soldato d’America: non posso andarmene.

Chiamò ancora il Pentagono. “Notizie da Boston?”

“A quanto risulta il nemico è entrato in città e la sta mettendo a ferro e fuoco. Purtroppo non abbiamo notizie di sua moglie, signore.”

“Non importa.” Abbassò il ricevitore, appoggiò i gomiti sulla scrivania e la faccia sulle mani. Dio, Dio, Dio, pensò.

Un cicalino ronzò sulla scrivania. “Qui l’avamposto 26 Sud di Washington, signore. Il nemico è nella Capitale. Sta avanzando lungo Pennsylvania Avenue. Di qui vedo distin…” La voce sparì di colpo, il collegamento si interruppe con una breve scarica.

Garrett si passò una mano sugli occhi. Adesso, sentiva dei rumori all’esterno. Si alzò ravviandosi i capelli. Ci siamo, si disse.

Mentre percorreva i lunghi corridoi deserti ripensò all’astuzia del nemico, alla sua subdola, invisibile arma segreta di cui si erano accorti troppo tardi. I “loro” scienziati avevano scoperto decenni prima un virus che riduceva la natalità degli americani e lo avevano messo in circolo di nascosto, nei cibi, nei condizionatori d’aria, nell’acqua potabile. Nel giro di una generazione le nascite erano calate di colpo e gli americani erano diventati sempre meno, mentre i nemici, pur essendo anche loro pochi di numero, si organizzavano per la guerra. “E adesso l’hanno vinta”, disse a se stesso. “Sono stati più in gamba di noi.”

Uscì sul prato della Casa Bianca. I nemici erano arrivati, a centinaia. Lo aspettavano in silenzio. Alcuni, i capi, vestiti all’antica, a cavallo, con caschi di penne d’aquila e pitture di guerra. Altri, più giovani, in uniformi brune, con autoblindo, mezzi corazzati, lanciamissili.

Il Presidente si fermò davanti al cavallo bianco del comandante in capo dei nemici. Lo guardò senza astio. Chissà se era vero, come si diceva, che discendesse direttamente da Toro Seduto?

“Okay”, disse Garrett, e la voce non gli sembrava la sua. “Avete vinto. Prendetevi la Casa Bianca. Riprendetevi pure l’America.”

Il vecchio indiano parlò lentamente. Una ragnatela di rughe si muoveva attorno alla sua  bocca.

“Coraggio, uomo bianco. A volte succede che la storia cambi il suo corso. Non temere, troveremo per te e per gli altri superstiti qualche bella riserva…”

 

© 1995 Pierfrancesco Prosperi; prima pubblicazione Corriere di Arezzo del 19 maggio 1996

Pierfrancesco Prosperi
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Nato ad Arezzo nel 1945 è uno scrittore molto prolifico, che si è sempre diviso fra narrativa e fumetti. Esordisce su "Oltre il cielo" nel 1960, specializzandosi prevalentemente in sf e soprattutto nel genere ucronico. Trattò l'argomento dell'omicidio Kennedy in chiave ucronica e fantascientifica, nel romanzo "Seppelliamo re John" (1973), con racconti e con il saggio "La serie maledetta" (1980), dedicato a tutti i 4 presidenti americani assassinati.

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