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Visita a un pianeta morto

Visita a un pianeta morto

 

“Non capisco” brontolò Rhett agitando nervosamente i tentacoli. “C’è qualcosa che non quadra. Tu ti sei fatto un’idea di quello che può essere successo qui dentro?”

Fthrall, il capo-equipaggio, scrollò la testa dall’alto dei suoi tre metri abbondanti. I suoi occhi compositi si erano assuefatti all’oscurità, e adesso ci vedeva perfettamente nel buio dell’antro; si sforzò di vedere altrettanto bene nelle nebbie del passato. “Dunque, ragioniamo. In questa grotta abbiamo trovato i resti di molti cadaveri. Centinaia di cadaveri di esseri umani, di abitanti di questo pianeta, morti da secoli. Morti, a quanto si può capire dallo stato dei resti, di morte violenta.”

Mosse un paio di passi sotto la bassa, incombente copertura dell’antro. Un unico immenso lastrone che trasmetteva un senso di oppressione, di soffocamento. Probabilmente voluto. “E questi resti appaiono, in qualche modo, composti, ordinati, come catalogati.” Fece una pausa. “Poi, in un altro punto della grotta, abbiamo trovato un altro scheletro. Uno scheletro scompostamente allungato a terra, come se la morte lo avesse colto nel colmo di uno spasmo, di una crisi fisica. Due sono le cose singolari di quest’ultimo cadavere: per prima cosa, è segregato dagli altri, e da tutto il resto dell’ambiente, come lasciano intendere i resti delle quattro pareti in muratura che a quanto pare lo racchiudevano come in un cubicolo di pochi metri quadrati… una cella, insomma. Seconda cosa, e secondo me molto più importante, è il fatto che il nostro apparecchio per le datazioni al carbonio ha permesso di stabilire senza ombra di dubbio che questo scheletro è più recente degli altri, anche se si trat­ta di poca cosa rispetto ai secoli che ci separano da loro. Ovvero, che il momento della morte di quell’umano è successivo di circa sessant’anni terrestri a quello di tutti gli altri.”

Rhett annuì con un cenno del capo. “Sì, questi sono i fatti. Bene, cosa ne deduci, Fthrall? Sei tu il capo equipaggio, sei tu che dovrai stendere il rapporto.”

Fthrall si grattò distrattamente la nuca con un tentacolo. “Beh, io una teoria me la sono fatta. Non è molto scientifica ma ci credo. Dunque, stai a sentire. Secondo me, qui dentro secoli fa è avvenuto uno spaventoso massacro. A seguito di uno di quegli scontri tribali, o magari di quei riti di distruzione collettiva cui gli esseri umani andavano soggetti periodicamente – le chia­mavano ‘guerre’, mi pare – una delle fazioni in lotta ha trucidato molti esponenti dell’altra fazione e li ha seppelliti qui dentro.”

Rhett annuì. “Fin qui è una ricostruzione abbastanza plausibile. E quell’altro scheletro?”

Il capo equipaggio nascose pensosamente tutto il volto dietro un fascio di tentacoli. “Ecco, io credo che… molto tempo dopo quell’eccidio… cinquanta  o sessant’anni, e non chiedermi perchè hanno aspettato tanto: forse i terrestri avevano un altro senso del tempo, o forse ci pensavano bene prima di prendere le decisioni, dopo molto tempo insomma quelli dell’altra fazione hanno catturato il responsabile, o uno dei responsabili di quel massacro…”

“…E l’hanno giustiziato” concluse Rhett.

“No,” ribatté Fthrall, “io credo che lo abbiano condannato a una pena forse peggiore. Che lo abbiano, cioè, rinchiuso qui dentro, condannandolo a restare da solo per il resto dei suoi anni al cospetto dei cadaveri delle sue vittime, ad ascoltare la voce dei suoi rimorsi, posto che ne avesse. A morire un poco ogni giorno, lentamente, consumato dall’inedia e dai ricordi. Niente male come pena, ti pare?”

Rhett restò in silenzio per un po’, impressionato. “Molto suggestivo” disse lentamente, alla fine. “Ma è solo una supposizione. Non puoi suffragarla con dei fatti, delle prove concrete.”

“È vero” riconobbe Fthrall mentre si avviavano all’uscita. “È solo quello che l’istinto mi ha suggerito. Non credo sarà il caso di scrivere queste cose nel rapporto. Mi limiterò a descrivere i fatti. Andiamo.”

Mentre emergevano nella luce abbacinante del meriggio, sotto il sole diafano e lattiginoso di quel pianeta morto, dirigendosi verso l’astronave, riprese: “Sarà meglio cominciare a pensarci, a questo rapporto. Dunque, come si chiama questo posto?”

“Roma sud, settore terzo” snocciolò efficiente Rhett. “Il nome esatto del sito è… Ardeatine. Cave Ardeatine, o se preferisci Fosse Ardeatine.”

 

Nota dell’Autore

Nella primavera del 1996, un’ascoltatrice ha telefonato alla trasmissione “Zapping” del primo canale radio della RAI proponendo che Erich Priebke, il boia nazista catturato poco tempo prima, venisse sì condannato agli arresti domiciliari, co­me richiesto in quei giorni dal rabbino capo Elio Toaff, ma da scontarsi sul luogo del delitto: “che gli costruiscano un monolo­cale dentro le Fosse Ardeatine.” Mi è sembrata una proposta ter­ribile.

 

Il racconto è apparso per la prima volta su “Il Corriere di Arezzo” del 18 agosto 1996, © by Pierfrancesco Prosperi.

 

Pierfrancesco Prosperi
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Nato ad Arezzo nel 1945 è uno scrittore molto prolifico, che si è sempre diviso fra narrativa e fumetti. Esordisce su "Oltre il cielo" nel 1960, specializzandosi prevalentemente in sf e soprattutto nel genere ucronico. Trattò l'argomento dell'omicidio Kennedy in chiave ucronica e fantascientifica, nel romanzo "Seppelliamo re John" (1973), con racconti e con il saggio "La serie maledetta" (1980), dedicato a tutti i 4 presidenti americani assassinati.

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