4 – La luna dal 1964 al 1968
Un’altra opera degna di citazione, probabilmente l’unica che, per varie ragioni, può stare alla pari con il film di Pal è una pellicola di Nathan Juran che si avvale degli effetti speciali di Ray Harryhausen ed è tratta dal romanzo di Herbert George Wells “I primi uomini sulla Luna.” La pellicola è mirabilmente interpretata da Lionel Jeffries, Edward Judd e Martha Hyer.
Si tratta di “Base Luna chiama Terra” (First Men in the Moon), del 1964.
Qui uno scienziato, Cavor, (Lionel Jeffries) inventa una vernice capace di vincere la forza di gravità e con questa dipinge una sfera che porta lui e gli altri due avventurosi sulla Luna dove trovano un popolo di insetti che vive nelle viscere del satellite e che nulla vuole avere a che fare con i terrestri.
Mentre i due astronauti tornano sulla Terra, Cavor resta volontariamente sulla Luna e, anni dopo, quando una spedizione terrestre giunge sul suolo lunare, scoprono che la perfetta civiltà aliena è stata distrutta dai germi terrestri… un finale che ricorda ovviamente un altro romanzo di Wells, l’ormai più volte citata “Guerra dei Mondi”.
Già nel 1919 era stata presentata una versione muta della storia di H.G.Wells, si trattava di “First Men in the Moon” per la regia di J.V.Leigh nel quale i due protagonisti, Bedford e Cavor raggiungono la Luna per incontrare degli strani esseri con gli occhi da insetto.
I due vengono catturati e sono portati alla presenza del re della Luna. Riescono a fuggire, ma solo Bedford decolla e torna verso la Terra perché abbandona Cavor sul suolo selenita colpendolo a tradimento.
Una volta sulla Terra il malvagio Bedford cerca di sposare la nipote di Cavor, ma questi, dalla Luna, manda un messaggio nel quale lo smaschera definitivamente.
Nel 2010, il regista Damon Thomas ha girato una sorta di remake della storia, il titolo era ovviamente “First Men in the Moon” e attualmente è ancora inedito da noi.
Nel 1969 l’allunaggio dell’Apollo sta per essere trasmesso in tutto il mondo. In una sagra di paese in Inghilterra un ragazzo di nome Jim incontra un vecchio di novant’anni, un certo Giulio Bedford il quale afferma che nel 1909, mentre svolgeva la sua attività di scrittore, aveva incontrato l’eccentrico professor Cavor, inventore della Cavorite, una sostanza in grado di sfidare e vincere la forza di gravità. Loro due avevano costruito una sfera che li aveva portati sulla Luna. Catturati dai seleniti, simili a formiche, Bedford era ansioso di fuggire ma Cavor era felice di restare per comunicare con gli abitanti della Luna. Tornato sulla Terra, Bedford apprenderà in seguito che Cavor era stato costretto a suicidarsi per impedire agli abitanti della Luna di invadere la Terra. Proprio allora Jim con i suoi genitori sta guardando l’atterraggio dell’Apollo, mentre un Selenite, nascondendosi dietro una roccia lunare, scruta gli astronauti…
Per quanto riguarda “Maciste Contro gli Uomini della Luna”, conosciuto anche come “Maciste e la Regina di Samar” di Giacomo Gentiluomo, sempre del 1964, è bene notare che in questo caso il nostro satellite è solo un mero pretesto per vivificare le gesta del forzuto e mitologico eroe.
Anche il personaggio creato da Jonathan Swift, e cioè Gulliver, nutre segreti intendimenti spaziali. è ciò che accade nell’inedito giapponese “Gulliver on the Moon” (Gulliver’s Travel Beyound the Moon – A War Conflict to Avoid) di Yoshio Kuroda dove il nostro eroe si dirige con un razzo sulla Luna per combattere dei robot con intenti bellicosi.
I primi insediamenti permanenti sul suolo lunare permettono a Jerry Lewis di interpretare “Stazione Luna” (Way Way Out) di Gordon Douglas (Assalto alla Terra) del 1966, ma il tutto non è che una scusa per mostrare delle belle fanciulle (Stella Stevens e Anita Ekberg) anche se il principio su cui si basa non è affatto sbagliato: Per poter stare parecchi mesi su una base lunare senza andare fuori di testa è necessario, se sei un astronauta uomo, starci con una donna e viceversa. Ecco la ragione per cui il nostro eroe si dà immensamente da fare affinché la donna in questione sia quantomeno carina.
Nello stesso anno seguiamo una truffa all’americana.
Si tratta di “Voyage to the Prehistoric Planet” per la regia di John Sebastian, pseudonimo sotto il quale si cela Curtis Harrington.
Il film non è altro che “I Sette Navigatori dello Spazio”, una interessante pellicola sovietica su un viaggio verso Venere di cui parleremo in seguito, a cui vene aggiunto Basil Rathbone (1892-1967) uno scienziato direttore del volo, che dirige da una base lunare, oltre a Faith Domergue (1924-1999), che sostituisce l’astronauta sovietica rimasta in orbita attorno al pianeta.
All’inizio possiamo anche vedere qualche sequenza rubata a “Stazione Spaziale K-9”.
Invece per quanto riguarda “002 Operazione Luna” di Lucio Fulci, ancora del 1966, il nostro satellite serve solo per richiamo e per le smorfie istrioniche ed esagerate di Franco Franchi, ovviamente in coppia con Ciccio Ingrassia.
Fulci detestava ricordare questo film, ma viene comunque considerato uno dei migliori della coppia: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.
I due vengono mandati nello spazio al posto di due astronauti russi di cui sono i sosia perfetti e tutti li crederanno dispersi nel cosmo. Invece i due ritornano dalle rispettive mogli, che troveranno però, assieme ai veri astronauti…
Ancora una volta il nostro povero satellite serve da base per un’invasione aliena. Accade nel film di Freddie Francis del 1967 “La Morte Scarlatta viene dallo Spazio” (They come from Beyond Space), tratto dal romanzo di Joseph Millard “Gli Dei odiano il Kansas”.
In questo caso gli invasori prendono possesso delle menti e dei corpi degli umani per usarli come manovalanza per riparare la loro astronave che si è infranta sul suolo lunare. Tutto si risolve quando l’eroe della situazione informa gli alieni che bastava chiedere l’aiuto dei terrestri senza fare tutto quel casino…
Sotto il titolo “Quei Fantastici Pazzi Volanti” si nasconde “Rocket to the Moon” di Don Sharp. Siamo ancora nel 1967, ma il film è ambientato agli inizi del secolo dove un magnate inglese sta costruendo un razzo per la Luna. Un uomo cerca di sabotare l’impresa, eppure sarà invece lui a morire mentre è alla guida della nave spaziale.
La conquista della Luna, quella vera si stava avvicinando. I primi modelli di missile Saturn 1 venivano lanciati alla volta della pallida Selene, a cominciare dal 1961 fino a tutto il 1965. Si effettuavano voli suborbitali e orbitali nei quali venivano messi in orbita satelliti per controllare la strumentazione che un giorno avrebbe portato l’uomo sulla Luna.
I progetti della Nasa, i disegni che ne venivano tratti, non erano un segreto e di questo approfittò il film “Conto alla Rovescia” di Robert Altman: La gara tra russi e americani per essere i primi a raggiungere la Luna, costringe gli americani a lanciare un astronauta verso il nostro satellite senza possibilità di ritorno. Il progetto si chiama Pilgrim e prevede che il volontario, una volta giunto sulla Luna, entri poi in una navetta-rifugio precedentemente inviata dove attendere un secondo lancio.
Pur di poter scendere sulla Luna egli, in prossimità di essa, dichiara di vedere la capsula, peraltro, molto simile al L.E.M che fu poi effettivamente usato.
Giunto sul satellite vaga per le valli lunari senza una precisa destinazione, mentre sulla Terra attendono con ansia sue notizie. L’astronauta trova un razzo sovietico con all’interno degli astronauti morti e poi, casualmente, anche la sua capsula. Giusto mentre la sua riserva d’aria stava per finire.
E nel 1968, dobbiamo occuparci di “2001 Odissea nello Spazio” (2001: a Space Odissey) di Stanley Kubrick, se non altro per le realistiche e stupende ambientazioni lunari che all’inizio la pellicola ci offre.
La scoperta nel cratere Clavius del minaccioso monolito nero dà l’avvio al viaggio fantastico verso il pianeta Giove.
Ancora una volta segnaliamo una fugace apparizione di Ed Bishop quale pilota del modulo che porta il protagonista, Floyd, sulla Luna. La sua parte fu tagliata in fase di montaggio.
Il monolito che appare, sia in corrispondenza della presa di coscienza degli utensili da parte degli uomini-scimmia, sia in corrispondenza dell’espansione dell’uomo nello spazio, simboleggia il salto qualitativo da uno stato della coscienza ad un altro più avanzato.
Liberamente ispirato a un racconto di Arthur C.Clarke “La Sentinella”, il film, fece arrivare nelle librerie un romanzo tratto dalle sceneggiature più recenti, dato il successo del film.
Eppure, Kubrick non fu mai completamente soddisfatto delle sceneggiature scritte da Clarke.
Fino ad allora gli effetti speciali, parte dei quali si chiamano “sovrapposizioni” venivano realizzate unendo oppure accoppiando diversi negativi per poi fotografarli nuovamente allo scopo di ottenere un’unica scena che contenesse tutto ciò che si voleva far apparire: ricordiamo tale procedimento, per esempio, nel film “La Guerra dei Mondi” e in tanti altri.
Questa tecnica, però, possiede un notevole svantaggio: le scene già esistenti, rispetto a quelle nuove appena inserite, perdono di nitidezza e di colore.
Per ovviare a un simile inconveniente Stanley Kubrick ha girato questo tipo di scene usando un solo negativo e questo indipendentemente dal numero di passaggi necessari per ottenere la sequenza finale completa in tutte le sue parti.
Il che ha comportato un lavoro di precisione e di mascheratura al limite del pazzesco: Kubrick era obbligato, infatti, a coprire le parti che non voleva impressionare della pellicola con opportune “maschere” per poi scoprirle e coprire le altre già impressionate in un gioco di puzzle, che non doveva contenere sbavature: davvero impressionante.
Per ogni inquadratura di questo tipo a volte sono occorsi fino a otto mesi. Comprensibile, quindi, che la realizzazione del film sia durata quasi cinque anni.
Le scene iniziali sono state invece girate tutte in teatri di posa. I paesaggi erano inseriti tramite uno schermo gigante posto dietro ai personaggi (Front Proiection).
Il procedimento usato da Kubrick nel sovrapporre varie scene usando come base lo stesso fotogramma (Negativo) è in pratica l’unica vera innovazione tecnica da lui proposta in quanto gli altri effetti speciali erano già stati usati nel campo della cinematografia e non solo in quella fantascientifica.
L’hostess che si arrampica sulla parete, per esempio, non rappresenta nulla di nuovo. Addirittura, risale agli esordi del cinema perché fu usata la prima volta da Georges Méliès agli inizi del Novecento.
Poi fu ripresa in un film di Fred Astaire in cui l’attore danzava appeso al soffitto e appare anche nel film “Un Marziano sulla Terra” con Jerry Lewis e in “Mission to Mars” di Brian De Palma.
L’imponente nave Discovery era un modello statico, sorretto cioè da un piedistallo ricoperto di velluto nero. Aveva una lunghezza di circa sei metri ed era costruita in balsa e alluminio. Quindi rifinita con dei pezzi di montaggio, dei kit in scatola normalmente acquistabili.
Questa tecnica è stata poi ampliata da Douglas Trumbull nel successivo “2002: La Seconda Odissea” (Silent Running) di cui fu anche regista, usando per la sua astronave-giardino, 700 scatole di un modello del carro armato tedesco Tiger di cui ha utilizzato sul modello in balsa i tubi di scappamento, i portelli, i ganci, le prese d’aria e quant’altro, incollati e poi dipinti simulando un intrico di apparecchiature.
Il modello della Discovery e ancora di più quello della Valley Forge, la nave spaziale che appare in “2002: La seconda odissea”, era di una fragilità davvero spaventosa: ogni volta che venivano sfiorati perdevano qualche pezzo.
Quindi, per girare le sequenze dell’astronave in volo, è stata usata una gigantografia del Discovery, opportunatamente ritagliata e poi animata fotogramma per fotogramma, sullo stile Stop-Motion, tanto per capirci.
Furono costruiti anche modelli in plastica di satelliti, che però non vennero poi usati. I pianeti erano dipinti su vetro con lo stesso procedimento che Bonestell usò per “La Guerra dei Mondi”, tecnica detta di “Glass Painting,” mentre “la galassia che esplode” fu realizzata con frammenti di magnesio ripresi ad alta velocità, come farà anche Trumbull nel suo film per mostrare lo sgancio fra le navi spaziali e i giardini che esse trasportano, in maniera piuttosto verosimile.
In realtà le astronavi erano appese al soffitto, mentre delle piccole cariche facevano esplodere dei piccolissimi frammenti di mica, che ripresi ad altissima velocità, cadevano verso la macchina da presa posta in basso.
Per comprendere l’abilità di Stanley Kubrick nel darci un finale magari oscuro, ma certamente suggestivo, a parte il concorso delle musiche, analizziamo i procedimenti tecnici sofisticati usati dal regista. Ritorniamo al momento in cui il dottor Floyd e i suoi collaboratori giungono sul luogo dove è stato ritrovato il Monolito Nero.
La scena, ambientata in un paesaggio lunare, mostra gli astronauti di spalle e un lungo scivolo di fronte a loro, che termina all’interno di un enorme scavo rettangolare, al cui centro si erge il Monolito illuminato da potenti lampade. In alto, sullo sfondo, si scorgono le montagne lunari.
Così è nel film. In realtà la Luna era stata creata su un tavolo dalle dimensioni di due metri per due e le montagne erano inclinate. Riprendendo però il tutto con una particolare prospettiva in soggettiva le “montagne” si raddrizzavano.
Tutta la scena era dunque un plastico, anche le lampade erano delle miniature fabbricate appositamente da una ditta tedesca, mentre gli astronauti erano sovrapposti all’immagine assieme al Monolito Nero. La riga dei fari segnava l’inizio della sovrapposizione.
Il film ha avuto anche una sua vittima: un tecnico è caduto, rompendosi l’osso del collo, in un pozzo della lunghezza di venti metri. Lo stesso pozzo cosparso di lampade al neon che David percorre per raggiungere Hal per poi disinserirlo.
Molto meno profondo, solo due metri, è invece il pozzo nel quale penetra l’astronave sferica che porta Floyd sulla Luna.
Gli spostamenti in attività extraveicolare di Frank e David erano ripresi dal basso verso l’alto. I due attori indossavano tute appositamente studiate per il film, agganciati a un’intelaiatura metallica che veniva poi “cancellata” dal fotogramma.
I movimenti dovevano essere molto lenti e la scena venne girata a 96 fotogrammi al secondo. Proiettandola poi a 24 fotogrammi al secondo si otteneva l’effetto rallentato richiesto.
Il progetto iniziale prevedeva che la conclusione del film si svolgesse presso il pianeta Saturno, ma non era possibile poterlo rappresentare in maniera credibile in breve tempo.
I dirigenti della M.G.M., preoccupati per il ritardo nella lavorazione, fecero pressioni sul regista affinché si affrettasse.
Per questo motivo fu scelto Giove, realizzato mediante una speciale macchina battezzata, guarda caso, “Jupier Machine” che, attraverso un metodo di scansione ottica, è in grado di trasformare un disegno a due dimensioni in una sfera. Era un procedimento lento perché ogni immagine richiede un’esposizione di due ore.
L’universo di Saturno fu effettivamente realizzato quattro anni dopo dal principale collaboratore di Kubrick, Douglas Trumbull, per il suo “2002: la seconda odissea”. Le immagini dei monti che si vedono nelle sequenze psichedeliche sono state girate con filtri particolari in Scozia, Arizona e Utah.
Il regista avrebbe poi smentito la strana coincidenza delle lettere H.A.L. con la sigla I.B.M., basta aggiungere la lettera successiva dell’alfabeto alla prima sigla e si ottiene infatti la seconda, ma, francamente, sembra una coincidenza troppo strana per essere casuale.
Nel progetto originale l’opera di Clarke e di Kubrick passò attraverso vari titoli e soggetti. Tra i primi ricordiamo: Tunnel to the Stars, Universe, Planetfall, How the Solar System was Won, fino a quello che sembrava definitivo e che fu anche annunciato ufficialmente: Journey beyond the Stars (Viaggio oltre le Stelle).
I ripensamenti sulla storia furono moltissimi, come sempre succedeva con Kubrick. Fu scartato un lungo prologo che si doveva svolgere sulla Terra ai giorni nostri. Il Monolito, inizialmente, doveva essere uno schermo trasparente sul quale apparivano immagini, sicché il viaggio finale avrebbe potuto essere più comprensibile per il pubblico. Si era anche pensato di far vedere gli alieni come silhouette bianche, sottilissime, ottenute riprendendo gli attori in carne ed ossa. Poi si era pensato a vorticose “trottole di energia” dagli sgargianti colori psichedelici.
Era stata creata anche la fantastica visione di una città fatta di luce, luogo d’arrivo della capsula di David.
Nella precedente versione David Bowman doveva camminare nella sala e incontrare il Monolito il quale, a sua volta era stato immaginato di forma tetraedrica. Quando poi si è giunti al ben noto parallelepipedo, sono stati usati ben cinque monoliti nel film: erano lunghi quasi un metro e uno di essi superava i tre metri.
Anche l’inizio del film ha subito una variazione. Come abbiamo accennato, l’inizio della pellicola avrebbe dovuto aprirsi con un prologo in cui intervenivano famosi esperti spaziali, biologi, chimici, astronomi, teologi, che avrebbero parlato della possibilità di vita extraterrestre.
Un’ultima curiosità sulla “Luna” o, meglio, sul terreno che gli astronauti calpestano: è stato ottenuto bagnando la sabbia, asciugandola e dandole un colore simile a quello della polvere lunare.
Il costo del film si è aggirato sui dieci milioni e mezzo di dollari in cinque anni di lavoro. La stessa cifra, si è fatto notare, che occorse per la costruzione del telescopio di cinque metri di diametro dell’Osservatorio di Monte Palomar, ancora oggi tra i più potenti del mondo.
Un ultimo, doveroso accenno, alle musiche di Richard Strauss, di John Strauss e di Aram Khachaturian, oltre a quelle realizzate di Gyorgi Ligeti, molto efficaci e adatte alle immagini.
Altro merito di Kubrick è stato quello di saper scegliere e accoppiare splendidamente le immagini ai suoni, avvicinando spesso il passato al futuro come nell’ormai storico “balletto spaziale” tra l’astronave e la stazione spaziale che si svolge al suono delle note del famoso valzer di Strauss.
Vanni Mongini
Tra i maggiori specialisti mondiali di cinema SF (Science Fiction) è nato a Quartesana (Fe) il 14 luglio 1944 e fino da ragazzino si è appassionato all'argomento non perdendosi una pellicola al cinema. Innumerevoli le sue pubblicazioni. La più recente è il saggio in tre volumi “Dietro le quinte del cinema di Fantascienza, per le Edizioni Della Vigna scritta con Mario Luca Moretti.”