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GAME OF THRONES, PERFETTO EMBLEMA DEGLI ANNI DIECI

GAME OF THRONES, PERFETTO EMBLEMA DEGLI ANNI DIECI
Riporto un interessante articolo firmato sulle pagine di Variety dal critico Daniel D’Addario sulla fenomenologia socio-culturale generata dalla popolare serie Game of Thrones (in Italia Il trono di spade).

Secondo gli standard delle serie di lunga durata, Il trono di spade mappa insolitamente bene il suo decennio. Lo show fantasy ha funzionato con una sorta di simmetria matematicamente gradevole dal 2011 al 2019, più autenticamente (ed efficacemente) di altri prodotti  come Mad Men’ (2007-2015) o il più recente (e tutt’ora in programmazione) Killing Eve (2018): un interesse che va ben oltre quello dei soli studiosi dei media o di coloro che amano i giochi numerici…

Thrones ha dominato in modo così efficace l’intero intervallo dell’ultimo decennio. Di fatto lo spettacolo ha suscitato reazioni che dimostrano la forte presa che ha sugli spettatori e sul loro inconscio. Il consenso generale sul finale della serie – con il ritratto dell’eroina putativa Daenerys che scivola nel comportamento di una criminale di guerra è una sorta di tradimento  verso gli spettatori e l’universo che pensavano di conoscere: è come come se il pubblico in generale metabolizzasse un colpo in più da un momento storico che ha già eroso il senso di una realtà politica sicura e prevedibile.

Un aspetto di questa serie assolutamente sottovalutato è il contesto artistico in cui è emerso: un fermento dell’era di Obama che ha fatto uso di un momento tranquillo nella storia politica per immaginare un contro-universo di faide meschine e di infinite eccitanti e malvagie villanie. Da questo punto di vista, nel 2011, Thrones ha preceduto di poco Homeland. Il vincitore dell’Emmy è stato il primo di un’ondata di show di vario genere e grado di qualità che ha usato la politica americana a livello federale per mettere in scena storie in cui gli abili operatori manipolano le leve del potere approfittando del clima di caos e della debolezza dei loro avversari per accumulare potere. In Homeland, Carrie Mathison, che veste i panni di Claire Danes, è coinvolta in una lotta con uno di questi operatori, Nicholas Brody interpretato da Damian Lewis; su ScandalVeep (iniziati nel 2012) e House of Cards (2013), la corruzione è così endemica che quelli che altrove sarebbero stati i cattivi erano i nostri protagonisti positivi.

Thrones si poteva inserire in questa ondata di spettacoli ma non lo ha fatto. Come loro, è stato un magnete di premi ed è stato altamente considerato dalla critica, con la quale ha avuto un immediato colpo di fulmine. Al pari degli altri show, ha fornito il brivido della trasgressione politica durante un momento insolitamente calmo, sognando un governo inondato dalla confusione e dal caos. A differenza di loro, però, non ha letteralmente – o, in senso intenzionale, allegoricamente – descritto la politica americana. Inoltre, presentava centri morali facilmente radicabili: dal cast dei comprimari l’ostinata, stoica e implacabile Arya e il saggio, disincantato e pieno di spirito Tyrion, fino ai due protagonisti, il coraggioso e redivivo Jon Snow e la visionaria Daenerys Targaryen. Sin dal suo inizio, entrambi brillavano a volte con qualcosa di diverso dalla virtù perfetta, con Jon spesso un po’ spericolato e Daenerys spinta da una politica che si scontrava con la sua rettitudine: entrambi protagonisti fotogenici di una serie in cui erano spesso mostrati, in modo comparativo e comprensivo allo stesso tempo, con i loro difetti, non così profondi da renderli veramente cattivi, quale emblema di ciò che invece li rendeva umani.

Scandal, House of Cards e Veep non avevano personaggi così famosi che cadevano in una vera e propria malvagità (Olivia Pope era simpaticamente amabile, ma era anche orribilmente complice di alti crimini; Claire Underwood voleva aiutare le persone, tuttavia era vittima della sua ambizione). E anche loro non hanno più nulla da fare: tutti, negli ultimi tredici mesi, si sono chiusi onorando fino alla fine, chi più chi meno, il patto fatto con il loro pubblico per rappresentare un mondo attraversato da un compromesso morale . Tutte e tre le serie si sono così concluse nella comprensione del loro stesso destino, in qualche modo predicendo il mondo politico di oggi, inimmaginabile all’inizio del decennio.

Il che non vuol dire che Game of Thrones abbia cercato di fare affermazioni apodittiche sul particolare mondo reale che abbiamo vissuto negli anni in cui è andato in onda, affrontando il modo in cui la politica viene praticata nel corso della storia. È più rilevante o almeno meno specifico, nel suo concept generale, lo stato di cose in cui regna l’entropia, in cui il caos è così endemico che travolti dal tempo persino gli aspiranti eroi vengono risucchiati nell’incompetenza o nella disaffezione. Il fatto che Daenerys sia guidata da una vena vendicativa che è sempre stata presente non rimanda con precisione a nessuna figura politica, ma evoca un tono di crudeltà che prospera nel nostro momento; mentre altrettanto sorprendente è il fatto che Jon stia sfuggendo alla sua apparente responsabilità, una scelta che è sembrata irresponsabile e forse anche debole. Certo questo potrebbe essere un capovolgimento intenzionale dei topoi del racconto – che l’eroico conquistatore può essere più crudele dei suoi rivali e che il principe glorioso può essere afflitto da dubbi e insicurezze – ma sicuramente qualcosa è andato un po’ perso in questa stagione finale dello show…

Una stagione che riflette con una chiarezza sorprendente l’attuale momento politico: la caduta, proprio come il mondo reale ha vissuto, dalla Brexit a Orban a Duterte a Trump, in un vero e proprio scontro di odi e incomprensioni prima della chiusura del decennio, in realtà un adattamento imperfetto del suo momento culturale.

È iniziato con un pari tra Scandal e House of Cards, ma è finito, coinvolgendo un pubblico senza paralleli diretti in TV, con un altro pari tra gli universi di Star Wars e Marvel, non a caso entrambi made in Disney. Il tutto in un crescendo di generale appiattimento che vede il pubblico vivere personaggi e situazioni come action figure o carte da gioco interscambiabili alla bisogna…

Quei franchise dell’immaginario collettivo sono divenuti parte di un patrimonio condiviso che abbraccia vari decenni e che alla fine sono radicati nelle gioie della prevedibilità, possono portare i loro personaggi a diventare figure simboliche e ambivalenti. Una cosa che Thrones, nella ricerca di un pubblico mass market attraverso una storia radicale e a tratti estrema e i suoi a volte sconcertanti investimenti in grandiosità visiva, probabilmente non poteva avere. Per esempio, una figura centrale motivata sia da un’impellente teologia della liberazione sia da impulsi meno lodevoli per cui è facile pensare a un’analogia con Hillary Clinton, Ruth Bader Ginsburg ed Elizabeth Warren, a seconda dei momenti.

Restando incolume dopo essere uscita dalle fiamme o passata sulle spalle dei suoi amorevoli sudditi, Daenerys esprimeva forza, potenza e libertà, sottolineata da una coinvolgente colonna sonora. A chi importava? Anche noi a casa l’abbiamo amata.

Come Rey o Captain America, Daenerys era divenuta qualcosa di potente, anche quando la storia che George R. R. Martin aveva scritto insieme a David Benioff e D. B. Weiss è finita col terminare diversamente da gran parte delle aspettative. (N.d.R. e leggero Spoiler! Il che dovrebbe fare riflettere anche su quale sarebbe stato il finale della saga ‘scritta’, che, come Martin ha quasi offensivamente comunicato, non verrà mai conclusa… almeno secondo i suoi parametri originali).

Cosa di più vicino ai nostri anni Dieci di questa saga violenta, controversa e tonitruante dove gli eroi si contraddicono e qualcosa di oscuro e cupo sembra aleggiare intorno al divenire degli eventi: un qualcosa che purtroppo molto probabilmente non esaurirà la sua spinta e influenza solo in questo decennio ma estenderà il suo senso di precarietà e minaccia anche nel prossimo.

E tutto questo al di là delle discussioni sul meglio o sul peggio o ancora di qualsiasi altra classifica stilata o da stilare…

Sergio Giuffrida
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Classe 1957, genovese di nascita, catanese d'origine e milanese d'adozione. Collabora alla nascita della fanzine critica universitaria 'Alternativa' di Giuseppe Caimmi, e successivamente alla rivista WOW. Dai primi anni Novanta al novembre 2021 è stato segretario del SNCCI Gruppo Lombardo. Attualmente è nel board di direzione con Luigi Bona della Fondazione Franco Fossati e del WOW museo del fumetto, dell'illustrazione e del cinema d'animazione.

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