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“QUALUNQUE COSA” DI MONA FARNSWORTH

“QUALUNQUE COSA” DI MONA FARNSWORTH

Mondi Passati – Vintage

Mona Farnsworth è lo pseudonimo di Muriel Newhall (1904-1981). Nativa del Massachusetts, cominciò la sua carriera di scrittrice pulp negli anni ’30, pubblicando sulle riviste specialistiche dell’epoca racconti quasi di ogni genere, spaziando dall’horror, al western, al noir, al rosa, genere quest’ultimo in cui andò specializzandosi negli anni ’50. Il suo esordio nella narrativa lunga risale al 1970, quando pubblicò il romanzo The Evil that Waited, il primo di una serie di 14 romanzi etichettati come gothic, che nel gergo del pulp americano indica una specie di incrocio fra l’horror e il rosa. Il suo ultimo romanzo è The Menace of Marble Hill (1977). Tutta la sua opera è inedita in Italia.

 

JIM Kenyon salì sul primo vagone in arrivo, si spostò fino alla fine del treno, poi scivolò all’esterno. Quel piano gli era sembrato buono come un altro, quando ci aveva pensato. Adesso gli sembrava abbastanza buono – l’aperta quiete della campagna, l’aria buona e la pace salubre. Attraverso gli alberi poteva vedere i piccoli tetti di un popoloso villaggio. Prese la sua valigetta e ci si avviò.

A un certo punto raggiunse un piccolo edificio squadrato con un cartello che diceva, a caratteri luminosi, “Ufficio Postale di Echo Vale.” Jim salì i gradini e spinse la porta schermata. L’interno era buio, al punto da far dimenticare che fuori c’era il sole, così non vide nessuno finché una vocetta rotonda disse:

– Desidera qualcosa, signore? – Allora Jim vide due lune gemelle, che altro non erano che le lenti di un paio d’occhiali, e una bocca gonfia che teneva separate due guance rosse come mele. E disse:

– Grazie, solo qualche informazione, per favore. Sto… ‘em… sto cercando un posto tranquillo a pensione. Se conoscesse… – Un colpo di tosse lo colse, e quando smise, l’altro uomo stava dicendo:

– La Casa della Carità, quello è il posto per lei, signore. La Casa della Carità.

– No, – disse Jim Kenyon, – no. – Non una qualche Casa della Carità. Non era appena scappato da un ospedale? Chi vuole morire in un ospedale? – No – Rabbrividì. Ma l’ometto increspò la sua bocca rotonda.

– Lei ha capito male, – disse. – La Casa della Carità non è quello che può sembrare. Non è nient’altro che un posto come tanti altri… solo è un po’ più grande di certi altri, e più stravagante di tanti altri. Fu costruito 15 anni fa da Padre Peter. No, signore, non era un prete o qualcosa del genere; era solo il padre di tutti, e così lo chiamarono in quel modo. E la gente prese a chiamare la sua casa la Casa della Carità perchè questo è quello che era. Ma ora Padre Peter è morto e la possiede il Professore. O forse la Duchessa. Non lo so. Certi dicono uno, certi dicono l’altra. Certi dicono che la Duchessa ha preso la casa, e il Professore ci tiene le sue capre. Non lo so. Ma comunque, ancora accolgono le persone che ci vogliono andare, e se vuole un bel posto tranquillo… È la casa che si vede al di là degli alberi. Sale lungo il viale e attraversa il giardino per arrivarci.

– Grazie, – disse Jim. Uscì e si chiuse la porta alle spalle. Il sole splendeva di nuovo caldo attorno a lui, e Jim rabbrividì un poco, come sempre faceva quando sentiva quel delizioso tepore. Aveva ancora la sensazione che avrebbe potuto starsene sdraiato al sole caldo finché il dolore che mordeva il suo petto non fosse finito. Anche se secondo i dottori non sarebbe finito mai.

***

JIM aggirò l’ufficio postale e tagliò per il viale che, molto stranamente, cominciava in mezzo a un campo. Ma arrancò nell’erba alta per raggiungerlo, poi seguì la strada, diritta e sicura, che portava alla casa.

Era una casa incantevole. Jim si sentì rassicurato a vederla. Era grande e squadrata, dipinta in un giallo caldo, e aveva delle colonne panciute che reggevano una spaziosa e graziosa veranda. Grandi alberi curvi la circondavano e, questo sì, c’era una capra legata in mezzo a un piccolo roseto vicino ai gradini laterali.

– Ciao Capra, – disse Jim. E attraversò il portico fino alla grande porta frontale. Era una porta ampia ed era aperta. Ma c’era una seconda porta con un vetro che era sbarrata, schermata in modo tale da tenere la casa immersa in un’ombra rilassante.

Jim suonò il campanello, e lo squillo gli arrivò tenue, attutito dai muri e dalla distanza.

Ma non successe nient’altro. Il sole batteva così fisso che potevi quasi sentirlo, tanto era il silenzio. Non una foglia frusciava, non un filo d’erba si muoveva. Finché Jim, fissando dalla porta l’ombroso vuoto della casa, non si accorse che non era più vuota. C’erano due grandi occhi e una sottile faccina appuntita. E Jim, ricordando il suo Cicerone, disse:

– È lei la Duchessa?

– Oh, no! – La ragazzina rise. -Lei vuole dire… la Duchessa! Vuole entrare? – Si mise in punta di piedi e tolse il catenaccio. La porta si aprì facilmente, ma Jim la aiutò lo stesso.

Poi entrò nella casa.

Più grande di certe, aveva detto l’impiegato postale, e più stravagante di tante. Be’, la descrizione era giusta. L’atrio in cui si trovava era largo almeno 10 metri, e lungo 15, forse 20 metri. Un ballatoio girava sopra la sua testa e alla sua destra saliva un’ampia scalinata. Una suggestione d’Oriente era data dai tappeti e dai pavimenti scintillanti, da un arazzo, pezzi d’armatura… e la bambina disse:

– La Duchessa le chiede di salire le scale. Le dice di non preoccuparsi, non saranno troppo faticose per lei.

– Le scale… – disse Jim. Me le aveva già salite a metà prima che potesse chiedersi come facesse lei a saperlo. E subito dopo la bambina era scivolata sotto il suo gomito e aveva già aperto la porta.

Era un’ampia doppia porta, e c’era qualcosa nella grazia con cui si aprì che fece pensare a Jim alla corte di Re Artù.

– La Duchessa! – disse la vocina.

– Ah… – disse un’altra voce.

Jim non disse niente. Stava guardando lei. Si era alzata ed era alta quanto lui, magra ed elegante e fredda: fredda come può esserlo l’idea della pace. Rilassante e tranquilla. Lei non era bella… o sì? Con i suoi capelli neri divisi nel mezzo e il suo calmo viso bianco. E lei disse:

– La sua stanza è pronta. Mi dispiace che lei abbia sofferto tanto. Ma starà meglio qui. Starà molto meglio. – Lei lo guardò gravemente, e prima che lui potesse parlare lei si era già spostata alle sue spalle, diretta alla balconata. Jim la seguì. Gli sembrò che non potesse fare altro. E anche la bambina venne dietro. Lui poteva sentire i suoi passetti leggeri sul nudo pavimento lucido… anche senza girarsi verso di  lei… Lui non voleva guardare altro che l’incantevole, eterea figura davanti a sé.

E poi lei si fermò e aprì un’altra doppia porta.

– È una bella stanza – disse lei.

– Bella – disse Jim, e restò a guardarla. Era un sogno, quella stanza. Tranquilla e serena. Ampia e bassa; elegante con i suoi mobili d’avorio e calda con i suoi fiori di cinz, con la sua luce screziata data dalle ombre degli alberi e dalle ombre dei fiori, posti dentro e fuori.

– Lei è così stanco, – disse la Duchessa, – e il dolore al suo petto l’ha consumata. Ha bisogno di molto riposo. – Lei andò al letto, aprì le coperte e le lenzuola che, in qualche modo, sembravano dei teneri petali di fiori vellutati. – Le porterò qualcosa da mangiare – disse. E poi Jim rimase solo.

– Ma non mangiò niente quando lei gli portò il vassoio. Si era già addormentato, il suo corpo serenamente disteso e il suo respiro quieto e regolare.

***

Si svegliò di colpo al buio. E con il soffocante rimbombo del suo stesso cuore. Si mise a sedere. Il suo cuore. Aveva già fatto così, negli ultimi tempi. Battere fino a far tremare il suo corpo. Era terribile. Era spaventoso. Jim Kenyon era terrorizzato. Ma respinse il suo terrore e mosse le gambe, con cautela, fino a farle scendere dal letto. Aveva la sensazione che, se si fosse mosso troppo in fretta, il cuore gli sarebbe saltato fuori dal petto.

Ma scese dal letto incolume e cercò la sua valigetta. Trovò la bottiglietta in una tasca interna e prese due pillole. Poi tornò al letto e si sedette, eretto e rigido, aspettando che il suo cuore si calmasse.

Ma non si calmò. Continuò a battere in quella sua maniera tremenda e pesante. Scuoteva il suo corpo. Scuoteva il letto. Rimbombava come se stesse martellando contro i muri della stanza. Ma senz’altro questa era la sua immaginazione. Le fredde dita di Jim strisciarono verso il polso. Aveva ancora la sensazione che, se si fosse mosso troppo in fretta, il suo cuore sarebbe balzato fuori dal petto. Così spinse le dita lentamente fino a che toccarono il polso. E sobbalzò dallo stupore.

Non era affatto il suo cuore. Il suo cuore era del tutto normale.

Jim s’immobilizzò. E il rimbombo del suo cuore continuò. Era un cuore. Il cuore di qualcuno da qualche parte. Aveva quel tipico doppio battito di un cuore pulsante. Era inconfondibile. Jim si alzò dal letto. Si fermò in mezzo alla stanza. Poteva localizzare quel suono ora che sapeva che non veniva dal suo corpo. Veniva da uno dei muri.

Accese la luce e ascoltò. Ma il suono continuava. Poteva vedere l’armadio ora, e lo raggiunse. Era chiuso a chiave, ma la chiave era ancora inserita. Jim la girò, l’anta si aprì e quel battito cardiaco lo colpì come un tonfo sordo. Poi s’interruppe. E in quel momento Jim lo vide; piccolo e rosso e un po’ rilucente, giaceva sul fondo dell’armadio. Jim s’inchinò e lo raccolse. Era tondo e caldo nella sua mano. E si muoveva leggermente, quasi come fosse cullato dal suo tocco umano. E dietro a lui una voce disse:

– Il Professore ha ucciso una capra.

Jim si voltò. La Duchessa era alta nella sua dolce severità. Allungò una mano e prese il cuore dalla mano di Jim. Lei disse ancora:

– Il Professore ha ucciso una capra. È molto sbadato. Il pelo di capra è leggero, vola dappertutto. – Sollevò la mano per far vedere a Jim. Teneva un’arruffata palla di pelo di capra. Il cuore era sparito.

– Il Professore – disse di nuovo la Duchessa, – è sbadato in maniera imperdonabile. – Lei si voltò, uscì, e lui poté vederla camminare lenta lungo il ballatoio, mentre armeggiava ancora la palla di pelo con le sue dita eleganti.

Ma, una volta tornato a letto, Jim si accorse che aveva preso freddo. E rimase sdraiato a lungo prima di essere in grado di controllare il gelido tremito che lo aveva colto.

***

Quando si svegliò al mattino non sentiva più freddo, e sentì la calda gloria della luce del sole scaldarlo fin nelle ossa. Scese dal letto e si stirò. Poi si vestì e scese le scale. L’odore del caffè conquistò le sue narici, e lui lo seguì fino alla sala da pranzo. La luce del sole era arrivata anche qui, e faceva una specie di aureola attorno alla testa della Duchessa.

– Billy, devi mangiare i tuoi fiocchi d’avena.

– Non voglio mangiarli, – disse Billy. – Non mi piacciono i fiocchi d’avena. E comunque Astalla non li sta mangiando.

– Io ho mangiato i miei – disse Astalla.

– Be’, io non mangerò i miei – disse Billy.

– La forza, – disse un’altra voce. – Che stupidaggine! – Jim entrò nella sala e lo vide. Il Professore. I suoi capelli una venerabile spuma d’argento, i suoi occhi laghi azzurri di gentilezza. – La forza, – ripeté, e la fece sembrare qualcosa di decisamente assurdo. Poi il suo sguardo colse quello di Jim. – Non è d’accordo con me, giovanotto?

– Non… non mi sembra molto costruttiva, – disse Jim.

– Molto bene, – disse la Duchessa. – Mi dichiaro sconfitta. Vai via, Billy. E non giocare lontano dalla casa. Ora… – suonò un campanello; un fattorino, dall’aspetto trasandato, stropicciato come un telo di lino, entrò. I suoi capelli erano una massa di pungiglioni rossi, e il suo sguardo sembrava indolente. La Duchessa disse:

– Il signor Kenyon avrà una spremuta d’arancia, niente cereali, una fetta di prosciutto affumicato e un’omelette alle erbe, Sam.

-Sì, signora – disse Sam.

– Questa, – disse Jim – è la mia colazione preferita.

– Sì, – disse la Duchessa in tono grave.

E il Professore disse: – Se volete scusarmi, prego. Le mie capre. – E lasciò la sala. La Duchessa sorrise per la prima volta. Questo aggiunse tenerezza ai suoi occhi.

– Il Professore ama quelle capre, – disse lei con dolcezza. – Sono i suoi figli. – E poi aggiunse: – È un uomo molto dolce.

Jim mangiò la sua colazione e poi si addormentò al sole. Da lì in poi, ogni giorno divenne un delizioso ciclo di mangiare per dormire, dormire per mangiare. La Casa della Carità, si trovò a pensare una volta, la Casa della Carità.

E dopo il tramonto, Jim si alzava dalla sedia a dondolo posta sul cortile laterale ed entrava in casa. Le lampade erano accese e la luce ambrata faceva fluttuare i caldi colori delle tende e dei quadri come piccoli stagni. In fondo al salone, le porte erano tenute spalancate e al di là si poteva vedere una biblioteca, il tavolo da lettura colmo di riviste, le mura ricche di libri.

E in mezzo a quella quiete un bambino strillava: – Non voglio mangiare! Non voglio! Non voglio!

– Billy, – disse la voce della Duchessa.

Jim si diresse verso quel suono. Un piccolo tavolo, decorato con figure da asilo infantile, era stato spinto contro la finestra aperta. C’erano appoggiate ciotole di crackers e di latte, e Billy ci stava picchiando i pugni capricciosamente.

– Non voglio! – gridava. – Non voglio!

– Billy, tu… – la Duchessa non andò oltre. Spostò la testa giusto in tempo. E la scodella che Billy aveva lanciato le sfiorò la testa e si schiantò contro l’armadio di vetro. Ci fu un fastidioso schianto di vetri, e pezzi di cristallo e di delicata ceramica si sparpagliarono sul tappeto.

Jim fece un passo in avanti. Si torse le mani. Quel bambino. Quel di cui aveva bisogno era una sculacciata. La forza. D’accordo, non era costruttiva, ma perdiana, certe volte…

– Billy, – disse la Duchessa – sali in camera.

– Non voglio! Non voglio! Non voglio!

La Duchessa lo prese in braccio. Lui scalciò una volta, ma poi lei lo tenne fermo in modo da impedirglielo. Lo portò di sopra, e quando scese disse:

– Ci vuole tempo per imparare a trattare con i bambini di cui non si conoscono i genitori.

– I genitori? – disse Jim.

– Li abbiamo adottati, – disse la Duchessa. – Entrambi. Trovare il metodo migliore per educarli richiede studio paziente… ed esperimenti.

***

Quella notte Jim non dormì bene. Era inquieto. Non era il suo cuore. Era qualcos’altro. Qualcosa di peggio, visto che non sapeva come chiamarlo. C’era, ma non potevi vederlo. Era un suono ma non potevi sentirlo.

E poi, all’improvviso, lo sentì. Lo riconobbe. Il pianto di un bambino. Era molto lontano, attutito dai muri e dalle porte chiuse e dalla distanza. Ma nessuna distanza poteva nascondere lo straziante dolore di quel pianto,  e nessuna porta chiusa poteva tener lontana la paura che alla fine arrivava acuminata come piccole lingue di fuoco.

Jim non poteva sopportarlo. Nessuno avrebbe potuto. Quel bambino, dovunque fosse, era spaventato a morte. Jim si sedette ai bordi del letto, frugò a tentoni finché non trovò le sue pantofole. Infilò le braccia nell’accappatoio e aprì la porta. Il suono era cessato. La casa era silenziosa. Jim sbucò dalla porta, le orecchie tese.

Da qualche parte una capretta belò, chiamando sua madre.

Al mattino, Jim scese le scale lentamente, circospetto. In sala da pranzo Astalla lo guardò dalla sua scodella di fiocchi d’avena.

– Billy è andato a fare una bella visita, – disse lei allegramente. – Non è una bella cosa? – Poi aggiunse: – È andato a trovare nostra zia Nancy.

– Proprio bello, – disse Jim. Qualcosa lo faceva sentire un po’ debole. Sbirciò fuori dalla finestra. Il Professore si dirigeva con ampi passi lenti dalla porta della cucina verso l’ovile. Fra le sue braccia coccolava un cucciolo.

– Non è carina? – chiese Astalla. – Sono già uscita a vederlo. È nato stanotte.

– No! – disse Jim. – No!

– Oh sì, davvero, – disse Astalla.

– Devi imparare a non contraddire i grandi, Astalla, – disse la Duchessa.

– Ma la caprettina è nata stanotte, – disse Astalla.

E la Duchessa disse: – Forse Mr. Kenyon stava parlando di qualcos’altro. – Jim si girò. Gli occhi della donna, calmi, tranquilli, pieni di pace infinita, incontrarono quelli di lui.

– Io… io sto andando a sdraiarmi al sole. – Jim si sentiva debole. Barcollò leggermente mentre andava alla porta. Poi sentì la Duchessa accanto a sé, il braccio di lei attorno al suo, così che tutta la sua stanchezza sembrò alleviata. Lui sentì la sua forza. Sentì la sua sicura serenità.

Jim aprì i suoi occhi sonnolenti. E la capretta appena nata strofinò il naso umido nella sua mano. E di colpo un brivido salì lungo la schiena di Jim. Le sue mani si raffreddarono e qualcosa gli si gelò in gola.

Quella notte sapeva che non avrebbe dormito. Eppure dormì. Si sdraiò e all’istante poté sentirlo arrivare: quel meraviglioso senso di sollievo, di distacco, di una calda luce fluttuante, che ti coglie quando stai per cedere in un sonno profondo. Jim sospirò. Le sue spalle si rilassarono; la sua spina dorsale si adagiò; conosceva la riposante, deliziosa sensazione di cadere in un pozzo senza fondo, dall’imbottitura confortevole.

***

Quando si svegliò era già a metà del ballatoio, diretto con passo sicuro verso la scalinata. Non aveva pensieri. Gli sembrò il posto più naturale dove stare  e il posto più necessario verso cui andare. Raggiunse la scala e continuò a scendere, piazzando un piede fermamente dietro l’altro. La sala dabbasso era nel buio pesto, ma a lui non sembrava buia. Sapeva dove si trovava ogni mobile, e quando la carrozzina delle bambole di Astalla sbucò inaspettata sul suo cammino, non ci inciampò. Solo le girò attorno con attenzione, come se fosse un ostacolo invisibile nell’oscurità.

Raggiunse il posto dove era diretto senza ulteriore perdita di tempo, e quando arrivò, semplicemente spinse la porta in silenzio e scivolò dentro.

La biblioteca era proprio come era stata la sera prima, quando l’aveva vista per la prima volta: una calda luce soffusa da lampade velate e la stantia, vecchia bellezza tipica dei muri allineati di libri. La sala era vuota.

Jim si sedette. C’erano tante poltrone fra cui scegliere; profonde poltrone di cuoio e due lunghi divani. Ma la sedia scelta da Jim aveva un intagliato schienale arrotondato e pesanti braccioli intarsiati… legno di tek, forse, o ebano.

Restò seduto lì per un po’, finché di colpo non si trovò in piedi a fissare quei braccioli intagliati. Si stavano ancora muovendo, si contorcevano e si arricciavano, e i serpenti in cui si erano trasformati si erano erti per lanciare un finale, furioso balzo alla gola di Jim.

Jim fu scosso da un brivido gelido. La stanza sembrava roteare attorno a lui. La sua testa cominciò a pulsare con un tremendo battito. E non riusciva a staccare gli occhi dai braccioli della poltrona.

Ma un momento dopo realizzò che stava impazzendo sul serio. Non era successo nulla. I braccioli, con quanto attenzione li guardasse, alla fine non erano altro che i braccioli di una poltrona.

Ma quell’incidente aveva catturato tutta la sua attenzione, dal momento che non aveva sentito nessuno entrare nella sala. Eppure, quando si girò, la sala sembrò piena di gente. Però quando li contò erano solo quattro. C’era la Duchessa, che portava una scodella d’argento e, lentamente, piegò la testa sopra di essa; c’era il Professore, con i suoi scintillanti capelli grigi, e scintillavano anche le lacrime che lui spargeva silenziose sulle sue guance gentili; c’era Martha, la cuoca, il suo viso scuro ancor più scuro, fasciata nelle stropicciate pieghe del suo grembiule; c’era Sam, i suoi capelli rossi ancor più ispidi che mai e i suoi occhi grandi e un po’ spenti.

E poi, ovviamente, c’erano le capre. Due. Una grande capra adulta e un minuscolo cucciolo appena nato.

Jim li vide mezzo secondo prima di vedere il coltello, lungo e splendente; e appena prima che cominciasse a risentire il pulsante, muto battito  che aveva sentito in testa quando aveva visto i serpenti per la prima volta. Era terribile. Cresceva e cresceva; scosse la nebbia, il pavimento, i muri… finché di colpo Jim capì di cosa si trattasse. Un cuore. E fu allora che vide il coltello gocciolare e il corpo della capra… e l’espressione sul viso della Duchessa, mentre lei si piegava sulla scodella d’argento, che aveva assunto l’intenso colore rosso del suo contenuto.

E allora il cucciolo appena nato fu sospinto in alto…

– No! – gridò Jim. – No! Buon Dio… no!

***

Jim si svegliò con il sole del mattino. Dalla porta gli arrivò l’ammaliante profumo della pancetta, e dalla cucina di sotto la voce di Martha si elevava in una dolce melodia. La Duchessa era seduta vicino al letto; sorrideva, e nelle sue mani c’era un vassoio.

– Non hai dormito bene, – disse gentilmente. – Peccato. Oggi riposerai a letto.

– Sì, – disse Jim. Era debole. Lo sapeva. Più debole di quanto fosse mai stato prima. Il dolore nel suo petto era un’agonia tremenda e il suo cuore era un piccolo tuono sotto le sue costole. – Sì, – disse debolmente, ma non poteva lasciar perdere. Doveva sapere.

– Billy, – disse – quando tornerà dalla visita a sua zia Nancy?

– Billy è a casa adesso – disse lei. – È giù che mangia i suoi fiocchi d’avena.

– I suoi… fiocchi d’avena?

– Sì, – lei sorrideva ora. – Ha deciso che, dopotutto, i fiocchi d’avena non sono così male.

– Oh – disse Jim. Fissò la Duchessa. Poteva sentire le sue emozioni nuotare dietro i propri occhi come in una corrente tumultuosa: i suoi dubbi, le sue paure, i suoi sospetti, e ora la sua vergogna.

Gli occhi della Duchessa erano fissi sui suoi. Lei rise, un risolino semi-divertito. Disse: – Pensavi che Billy ci avesse lasciato e che forse la nascita della capretta era collegata?

– Io… io… – disse Jim.

E la Duchessa disse: – La capretta è morta stanotte.

Il respiro di Jim si gelò. – Allora è vero…

La Duchessa si strinse nelle sue graziose spalle. – Realtà o sogno, chi può dirlo? Ci sono volte in cui la terra della nostra immaginazione è più reale del mondo che, altre volte, crediamo essere il mondo della realtà. E – tornò a ridere – trasformare un bambino capriccioso in una capra per un giorno sarebbe, non credi?, una punizione deliziosamente riposante. Solo una capretta, fuori sotto il sole caldo e alla dolce aria fresca… che magari bruca un po’ d’erba…

Jim non aveva le idee chiare, quando lei se ne andò. Sapeva solo che stava guardando il soffitto e che lei non c’era. Ma il vassoio della colazione era invitante e presente sulle sue ginocchia, anche dall’aria appetitosa. – Solo una capretta… sotto il sole caldo e alla dolce aria fresca. – Jim chiuse gli occhi. Solo una capretta… sotto il sole caldo. Dio, in quel momento cosa avrebbe dato perché il caldo sole bruciasse quel crudele dolore nel suo petto; sentirlo succhiare quell’agonia dalle sue ossa doloranti.

***

Rimase a letto. Non era successo nulla. Non si era mosso. Ma il sole era là. Poteva sentirlo, deliziosamente caldo, mentre versava oro fuso dentro di lui. Voleva muoversi, sprofondare nella sua gloria. Ma era troppo debole. Era anche troppo debole per aprire gli occhi. Erano come incollati, le palpebre troppo pesanti da sollevare. Tutto quello che poteva fare era giacere e lasciare che il caro sole lo avvolgesse. E poco a poco sentì l’erba, soffice sotto di lui.

Così capì che si era sdraiato da qualche parte.

Si svegliò al buio. Il giorno era venuto e se n’era andato, e anche la notte se ne stava andando. Restò fermo per un minuto… e poi ricordò. Una capra. Buon Dio! A fatica si mise in piedi. Un tremito potente lo afferrò, e anche una potente paura. Una nuvola di pensieri turbinosi volò per la sua mente. C’era un branco di capre nell’ovile. Molti ospiti erano arrivati e partiti alla Casa della Carità. Arrivati e partiti. Dov’erano andati?

Capre.

Jim si diresse alla porta. Barcollò; annaspò. La debolezza scorreva dentro di lui. E Jim cominciò a tossire. Ma il terrore lo afferrò. Aprì la porta.

Il suono della sua tosse echeggiò lungo il ballatoio e giù per le scale. Da qualche parte si aprì una porta, e la Duchessa intimò:

– Torna a letto! – La sua voce trasmetteva ansietà: un tono che Jim prima non aveva mai sentito da lei. – Devi! Ti ucciderai così… – Quindi giunse il suono dei suoi passi, in corsa verso di lui. E anche Jim cominciò a correre. Corse giù dalle scale e fuori dalla porta. E corse e corse.

Continuò a correre. L’aria si alzava frizzante e piacevolmente fresca. E di colpo la amò. I suoi polmoni non dovevano più faticare per aspirarla. E la sua corsa era senza sforzi. Era bella. Era quasi come volare. Era… era volare! Non c’era più la terra sotto i suoi piedi. Guardò in giù e poté vedere che non c’era nessuno. Ne fu piacevolmente sorpreso. Sì, questo era magnifico. E così divertente. Perché non aveva pensato di farlo prima? Guardò ancora sotto di sé. E stavolta notò qualcos’altro. Notò il proprio corpo laggiù, stranamente e debolmente disteso a terra. Poteva vedere delle figure che gli si muovevano attorno; il Professore appoggiò una mano gentile per sentire il cuore di quel corpo disteso. Ma una cosa non poteva vedere, per quanto sforzasse il suo sguardo, ora insolitamente acuto.

Non poteva vedere se, per caso, quel corpo fosse decentemente coperto con il suo pigiama… o se fosse rivestito solo di pelo. Non poteva vedere…

E poi un lieve soffio di aria fresca lo disperse nella rosea luce dell’alba.

 

Tratto da Whatever, Unknown, maggio 1939

 

Mario Luca Moretti
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Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano

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