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“CAVALIERE” DI REMO GUERRINI

“CAVALIERE” DI REMO GUERRINI

Mondi Passati – Vintage

 

(Speciale ROBOT n. 4, 1977)

Remo Guerrini

Remo Guerrini

LA prima notte di primavera i lupi mannari sono scesi in paese, bianchi come la luna, e hanno sgozzato il montone del vecchio Grieg. È stato un brutto giorno per tutti, quello che è seguito. I nonni dei nonni di Grieg sono venuti dalla parte del tramonto più di cent’anni fa, hanno tagliato i rami delle querce ai limiti del bosco e hanno fatto la prima palizzata. I nonni di Grieg sono i nonni di tutti noi.

I maschi dei nostri greggi daranno agnelli alle femmine di Grieg ancora per molti anni, ma quella è stata la prima volta che i lupi mannari sono arrivati fino in paese, scendendo dalle pendici dei monti azzurri.

Così Grieg ha riunito l’assemblea: abbiamo mangiato insieme gli avanzi del montone, poi, quando il vento è diventato più fresco, le donne hanno portato gli scialli e le pelli d’orso e i capifamiglia si sono riuniti attorno al fuoco, in piazza. Non ci son mai volute troppe parole, fra noi. «Una spada». «Le frecce». «Le armi d’argento». Certo, l’argento li brucia, fa diventare grigio e nero il loro manto di latte, ma chi ha argento al villaggio? «Possiamo fondere l’icona di nonna Lara, una manciata di anelli, un cucchiaio… e armeremo soltanto un guerriero». E chi ha l’argento, nei paesi di là dai monti azzurri, se lo tiene ben caro. A mezzanotte i lupi hanno ululato sui picchi: ridevano di noi, che tornavamo a capo chino alle nostre capanne.

***

C’È un posto, ai limiti del mondo, a otto giorni di cammino verso l’alba, dove l’argento è nelle tegole dei tetti, nelle stoviglie, perfino nei denti della gente. È il paese dei Signori del Tempo: ogni anno essi disputano un torneo, e al vincitore tocca proprio una grande armatura d’argento, e spadone, picca, scudo e pugnale, tutto d’argento.

Me lo rammentai all’improvviso, prima di prendere sonno, la sera stessa: stava scritto in un libro vecchio, nella polvere di un baule ereditato da un altro scrivano. M’infila le braghe di pelle di capra, schiusi l a porta e il vento sibilò nel camino, portando le braci in tutta la stanza. Non volevo farmi trovare per strada dai lupi: corsi nel viottolo buio e sbattei furiosamente all’uscio di Grieg.

Una settimana dopo Cavaliere partì.

Non si chiamava davvero Cavaliere, ma era l’unico di noi ad avere mai posseduto un cavallo. Un mattino di vent’anni fa nonna Lara s’era affacciata nella piazza prima dei raggi di sole e aveva visto, vicino alle pietre del fuoco ormai spento, un gran cavallo bigio e un fagotto senza forma. Il fagotto era Cavaliere: qualcuno l’aveva portato di notte, ed era poi sparito nel buio. Cavaliere crebbe e il cavallo invecchiò. Quando il ragazzo compì 18 anni il cavallo morì. Così Cavaliere partì per il paese dei Signori del Tempo a piedi, con due capre al guinzaglio.

Le ragazze gli avevano ricamato una giubba verde, e il fabbro aveva smontato un aratro per fabbricargli lo spadone. Nonna Lara, che da giovane era stata strega, quanto bastava a far rinsavire gli scemi e a far sparire le verruche, aveva compiuto per lui il più grande incantesimo della sua vita: un nastrino rosso che fasciava in una treccia i suoi capelli. «Finché terrai i capelli così raccolti non potrà succederti niente di peggio di un raffreddore». Non ci credeva nessuno, anche Cavaliere sorrise e strinse il laccio del guinzaglio delle capre. Poi partì, accompagnato fino al margine del bosco dagli schiamazzi dei ragazzini.

Tutta la storia potrebbe anche finir qui, giacché non poso dire di avere visto il seguito con i miei occhi. Però nel libro del villaggio, che tengo aggiornato con le notizie più importanti dei viandanti, sta scritto anche il seguito. È il frutto dei racconti di pellegrini, frasi portate dal vento, sogni verso l’alba quando i sogni sono profetici e, talvolta, fantasie della mia testa. E quando qualcuno legge quel libro, o io racconto questa storia, mi affretto sempre a precisare. Fin qui garantisco di persona, per il resto… beh, bisogna aver fede nei pellegrini, nel vento e nei sogni del mattino.

***

CAVALIERE scelse la strada giusta ai bivi, ignorò la visione delle fanciulle alla fonte che l’attiravano con seni d’alabastro, e s’addentrò nella foresta dove il cielo è color smeraldo e la terra coperta di muffa verde: qui ammazzò la prima capra e l’arrostì.

Al tramonto dell’ottavo giorno s’arrampicò su un ramo, guardò verso l’orizzonte e non vide nulla. «È vero che sono 8 giorni di cammino, ma nemmeno nelle favole i cavalieri vanno a piedi,» brontolò, calandosi al suolo.

La mattina dopo cominciò a salire. Il pendio era emerso all’improvviso nella bruma che il sole non aveva ancora sciolto. Ma Cavaliere attese invano i raggi dorati: il cielo si rischiarò un poco, diventò grigio, poi bianco come nei mesi della neve. Ma il sole restò nascosto. «E la strada sale… sale . Dove mi porterai, accidenti?» Quando la seconda capra non ne volle più sapere, capra balorda, ammazzò e arrostì anche quella.

Infine la vetta s’aprì davanti a lui, una gelida lama d’ardesia. Nella nebbia chiara il suo sguardo non andava oltre i dieci passi. Sedette a riposare, poggiò al suolo la bisaccia e piantò la spada nel tronco d’un albero d’alloro. Quando la trasse indietro il taglio nella corteccia si chiuse come una ferita che si rimargina: Cavaliere rabbrividì e cominciò a scendere. Per farsi coraggio cercò un nome buffo per battezzare quel mondo così strano, pieno d’ombre che venivano all’improvviso dal nulla, e diventavano alberi secchi, e rocce. Non ci riuscì: gli ballavano in mente soltanto nomi lugubri.

Scese per un giorno e una notte. All’alba del secondo giorno uscì dalla nebbia: in fondo al pendio, sulle rive d’un mare chiaro e calmo, vide il paese del Tempo.

È difficile immaginare un posto così, mi raccontano i pellegrini: basse case di marmo, strade diritte e piene di polvere che portano, tutte, alla spiaggia. Vicino all’acqua, fra il borgo e i moli, il castello dei Signori è cinto da torri di vetro, sottili e aggrappate al cielo con i merli aguzzi, e piene di cannoni puntati sul mare.

Seduto su una roccia Cavaliere deve aver guardato con stupore queste cose. Poi i corvi albini lo videro e portarono la notizia in città. I Signori del Tempo hanno insegnato a parlare ai loro corvi e ne hanno fatto buoni messaggeri: così quando Cavaliere si allacciò al fianco la spada, e riprese a scendere verso il fondovalle, gli uccelli tornarono strepitando alle torri del castello.

Giunse in fretta, in città: vi entrò sulle ali della curiosità. Vestito di verde, con quelle buffe armi che gli spenzolavano addosso, camminò piano nelle strade bianche. I colori, al paese del Tempo, sono soltanto sfumature in un mare di bianco. E la giubba di Cavaliere sembrava proprio venire da un altro mondo.

Infine un corvo scese dal cielo, e s’acquattò sula sua spalla destra. «Vieni al castello,» disse. «la regina ti aspetta.»

***

CAVALIERE entrò nel salone, e le donne, i maghi e i Signori risero di cuore.

«Vieni qui,» disse la regina. Come ci si comporta davanti  a una regina, Cavaliere? L’unica persona importante al nostro paese è Grieg, e anche nonna Lara. Ma questa regina? Rimase imbambolato a guardare la donna, che aveva i capelli neri, lunghi, e sedeva in un trono d’avorio. Chinò il capo, buttò la spada sul pavimento e disse: «Sono venuto per il torneo.»

Le risate della corte si persero nei corridoi, e rintronarono perfino nelle segrete. Un vecchio dalla faccia vacua e l’aspetto da mago Merlino venne con una pergamena in mano. «Come ti chiami?», chiese.

«Cavaliere» (un’altra risata). «Ma il cavallo dovrete prestarmelo.»

«Sei il tredicesimo. Ma fortunato. Ancora un giorno e non ci sarebbe stato posto, per te. Torna domani, al tramonto.»

***

QUANDO seppe qual era il vero premio al vincitore, Cavaliere impallidì. Le stanze del palazzo avevano le pareti alte e i soffitti d’onice. La regina lo guardò con gli occhi che ridevano: accovacciata sulla gran pelliccia di un animale che Cavaliere non avrebbe saputo dire, lo eccitava e l’imbarazzava insieme.

«Non lo sapevi,» disse lei.

«Credevo che tu avessi già marito,» disse Cavaliere. Così seppe che i Signori del Tempo sono eterni, altrimenti che diavolo di Signori sarebbero? E la noia è la loro malattia più feroce, che a malapena riescono a combattere con le scorrerie in mare.

«Ma la regina è la più malata,» disse lei. «Così ogni anno metto in palio il mio letto. E l’armatura d’argento non è che la veste abituale dell’uomo della regina, del re insomma.»

Cavaliere dormì un sonno agitato, in un angolo dell’anticamera del castello. Sognò di combattere contro la grande armatura, ma i colpi del suo spadone si abbattevano invano sulla corazza d’argento, che suonava sorda, come se nessuno fosse dentro di essa.

Poi si destò, e scese in cortile: la notte del paese del Tempo era senza stelle, come un mantello nero gettato sul cielo, con una luna fioca e piccola, appesa sul mare.

All’alba un tuono scosse il castello, e le strade del borgo. La gente corse sul molo: all’orizzonte, sull’oceano denso come latte di capra, la caravella ingrandiva rapidamente, a vele spiegate anche se sul molo non spirava neppure un filo di vento. A mano a mano che si avvicinava Cavaliere distingueva sempre più nettamente le travi e il fasciame, l’albero maestro esile e alto, le coffe come ampolle di vetro, i volti dei guerrieri affacciati sulle murate.

La nave approdò in silenzio. Nel suo ventre, attraverso le fiancate di cristallo, si vedevano le prede di una caccia fruttuosa. I marinai scesero uno ad uno, fino all’ultimo, quando l’armatura d’argento scintillò sulla passerella. La folla si aprì, e la regina andò incontro all’armatura. Il re si tolse l’elmo, a fatica, i suoi capelli bianchi si sciolsero, s’inchinò e le baciò le mani. Era il suo ultimo giorno di regno: diede il braccio alla donna, ma fu lei che sembrò sorreggerlo mentre si avviarono al castello, davanti ai portatori, con i fagotti e le casse del bottino.

***

QUANDO il cielo prese a diventar grigio, il segno del tramonto, i corvi albini volarono nelle strade e sui campi, ad annunciare il torneo. I nani accesero i fuochi nel cortile del castello, il trono d’avorio fu portato all’aperto e la regina sedette di fronte ai cavalieri. Merlino lesse sulla pergamena i 13 nomi. Quando disse «Cavaliere», semplicemente, senza altri titoli nobiliari, i volti dei Signori si atteggiarono al sorriso, e i loro occhi corsero alla giubba verde, così vistosa, e alla spada di ferro.

Non durò molto, la prima prova. «Più bruciante del fuoco, più tagliente di una spada, più pungente di uno spillo di ghiaccio,» disse la regina. «Cos’è?»

Ad uno ad uno i principi sussurrarono una risposta all’orecchio prudente di Merlino. «La lingua,» disse Cavaliere, e con lui soltanto tre concorrenti superarono la gara degli indovinelli. Il marito della regina deve essere arguti, non soltanto forte.

***

QUELLO  che viene adesso non c’è nel giornale del paese, non l’ho scritto. È un episodio da raccontare agli amici fidati, e non per amore di mistero, ma come dire?, per delicatezza. Tuttavia è l’episodio che più permette di comprendere il seguito, cosicché i lettori che non godono del privilegio mi costringono a strane parafrasi per dare logica a una sequenza traballante.

«Ha la morte addosso,» disse la regina, guardando verso l’orizzonte scuro. Cavaliere sedeva con lei sulla spiaggia sabbiosa, presso le mura del castello. «Fa freddo,» mormorò, e un nano venne portando un vaso di bronzo e una fiamma blu. Cavaliere tese la mano. «C’è stato uno scontro, nel futuro,» spiegò la regina. «Con strani uomini che non portano spade, ma archibugi che sparano frecce di fuoco. Il re è stato colpito, e da allora si sente la morte addosso.

«C’è un solo Signore del Tempo, sai, anzi una Signora,» continuò. «Al castello vivono cavalieri, principi e maghi, ma la maggior parte della gente di questo paese non è padrona di nulla. Vive nelle case di marmo solo perché c’è bisogno di braccia e gambe robuste, per costruire i palazzi, curare i campi e governare la grande caravella che viaggia nel mare del tempo, questo mare, a far scorrerie nel passato e nel futuro, più nel passato che nel futuro, giacché la guerra nel futuro è più pericolosa, i popoli più crudeli e le armi più micidiali.»

Cavaliere guardò quel viso bianco, gli occhi grandi, colore delle castagne, e la pelle come seta sotto l’abito leggero. «Ti spiace molto per lui?» chiese.

La regina scosse il capo. «Lo invidio. L’eternità è una maledizione che i Signori si portano addosso come un mantello di spine. Il re sta per essere uno di quei privilegiati che possono uscire. Non lo amo. Non si può amare chi si conosce da sempre.»

Cavaliere le accarezzò una mano: ritrasse subito le dita. «Scusami,» disse, «non posso capire. La mia vita sgorga come l’acqua di una polla, e passa in fretta.»

«Quando il cielo si addormenta, ed è come se si stirasse e si allungasse sull’orizzonte, penso alla vita nel mondo di fuori,» mormorò piano la regina. «Nessuno di coloro che, come te, sono arrivati fin qui, è mai tornato indietro. Li uccidiamo e le loro ossa segnano il cammino sulla montagna: dal paese del Tempo non si scappa.»

«Gli uomini di domani…»

«Oh, alcuni sono stati miei, tempo fa, altri non sono mai riusciti a vincere il torneo. I più fortunati sono quelli che mi posseggono per un anno soltanto, e muoiono nelle gare dell’anno dopo. Hanno tutto, in un breve periodo. Non sai la tristezza di essere una specie di… sgualdrina dell’eternità. Devi vincere domani. Ti voglio.»

***

LA gente del borgo applaudì quando Cavaliere piantò la sua spada nel petto dell’avversario. Era stato facile: Polidoro aveva impugnato con eleganza il fioretto, deriso la lama mal temprata di Cavaliere, e mimato una finta per sbilanciare la sua guardia. Cavaliere aveva soltanto scagliato lo spadone, incurante di finte e controfinte, e la corazza e il petto di Polidoro s’erano aperti come un guscio di noce. È fragile questa gente, Cavaliere. Ma attento domani, l’ultima prova sarà combattuta anche a colpi di magia.

Le armi id Cavaliere scomparvero durante il funerale del re. I corvi avevano portato la notizia della sua morte, al termine dei duelli. «È stata una morte dolce,» disse la regina alle dame e ai maghi. «Ha chiesto le onoranze dei padri.»

Così Merlino aveva spogliato il gran corpo dell’armatura, l’aveva vestito d’azzurro, e composto in una scialuppa di vetro, con lo sguardo fisso rivolto a prora. A poppa avevano messo le armi, disposte come in un trofeo. La piccola vela s’era gonfiata d’un vento che non c’era, e il feretro s’era perso nel mare, verso il passato.

Poi Cavaliere s’accorse del furto delle armi. Nell’anticamera del castello, dove dormiva appoggiato alla bisaccia, c’era ancora il cinturone, ma il fodero della spada e la guaina del pugnale erano vuoti.

«Non ci sono ladri in questo paese,» disse Merlino. Senza armi e senza magia che duello potrai mai sostenere, domani, Cavaliere? Non ci sono gendarmi al castello, solo Signori e nani pieni di malizie. Chiese ai corvi albini, che gracchiarono e girarono in tondo sul castello, sul borgo e sui campi, senza trovar nulla. «Non ci sono ladri qui,» ripeterono. «A chi può servire la tua spada, Cavaliere?»

La regina lo consolò. Che importa?, disse spogliandolo piano nella sua stanza d’onice. «Rimarrai al castello, i miei fabbri faranno per te armi nuove, e trionferai nel prossimo torneo come meriti. Un anno fa presto a passare qui, per uno straniero. Chissà, forse ti porteremo a caccia con noi nel tempo.»

Il corpo della regina era morbido, e bianco, i suoi seni grandi nelle mani di Cavaliere. Lei gli sciolse i capelli e l’abbracciò. «Non posso aspettare,» mormorò lui. «La mia gente ha bisogno di me, e di quelle armi. I lupi…»

«Talvolta i lupi scendono anche qui. Qualche povero maschio che si è perso nella nebbia, e ha smarrito la strada del ritorno. Sono povere bestie impaurite… e poi, lo sai, non si fugge dal paese del Tempo.»

«Noi non abbiamo fioretti e archi d’argento,» disse Cavaliere,anche se in lui la volontà di tornare si spegneva pian piano. «Vorrei combattere ugualmente, domani,» mormorò.

«Oh, Gahlot è alto e forte, e un dei nostri migliori maghi,» disse la regina.

«Qualcuno mi aiuterà.» Si addormentarono insieme e Cavaliere sognò una caravella carica d’armi, le sue armi, che se ne andava nel tempo, malgrado le sue grida dal molo. E portava la sua spada e il pugnale nel passato. E nel futuro… Si destò con la fronte in fiamme, e una strana sensazione addosso.

«Non combattere, rimani qui,» lo blandì la regina.

Tornerò invece, oh se tornerò.

***

GAHLOT era davvero alto, e forte. Il suo fioretto era lungo e spesso come un ramo d’albero, e dava colpi violenti: Cavaliere scappò, correndo in tondo nel grande cortile. La gente rise, non aveva mai assistito a un tal finale di torneo (e, a dire il vero, nemmeno al nostro paese i duelli si combattono con le gambe in spalla). Gahlot era troppo grosso per correre a lungo. Cavaliere era sottile e leggero: si fermò all’improvviso e lanciò una manciata di terra in faccia all’avversario.

Allora Gahlot fece la prima magia, e il fioretto continuò a combattere da solo, librato a mezz’aria, mentre lui si strofinava gli occhi, fermo in mezzo all’arena .

Cavaliere appoggiò le spalle a una porta: la lama s’avventò, ed egli si fece da parte. Il fioretto si piantò nel legno, con forza, e quando cercò di trarsi fuori Cavaliere l’aveva già saldo in pugno. Ma non è facile combattere con una spada che si ribella, e Gahlot fece la seconda magia: il fioretto si trasformò in un serpente.

Cavaliere glielo lanciò fra le gambe.

I Signori non sono avvezzi ai lunghi duelli: talvolta si uccidono al primo colpo. Gahlot ansimava e cominciò di nuovo a correre. Se costui avesse buone gambe il combattimento sarebbe finito da un pezzo, e le mie armi non servirebbero proprio più, pensò. E all’improvviso ricordò il sogno, e la spada nel futuro. E gli venne un’idea, l’unica che avrebbe potuto salvarlo.

Cavaliere era il miglior atleta del villaggio: percorreva il cerchio delle nostre case in meno di un minuto. Corse all’impazzata, sperando di aver intuito il giusto. E Gahlot non fece in tempo a gettare l’ultima magia.

Infilò di corsa il portone del castello, saltando i gradini, 4 a 4. E gridò come un pazzo: vicina alla bisaccia, nella grande anticamera, gettando intorno uno sbuffo di polvere e di tempo, la spada di bronzo era ricomparsa nel fodero. Aveva avuto ragione, dunque; un mago del Tempo può ben nascondere qualcosa nel futuro, ma basta attendere quel tanto che basta, e prima o poi il bottino ricompare. E il ladro non aveva certo immaginato un duello così lungo!

Cavaliere scivolò nelle stanze della regina: sul pavimento, sulla grande pelliccia, c’era il nastrino. L’allacciò in fretta ai capelli.

Tornò fuori, e Gahlot gridò:lanciò la sua magia, la terza, l’ultima consentita ai giochi: una gabbia di cristallo eresse le sue sbarre attorno al corpo di Cavaliere, una cosa luccicante. Cavaliere sciolse il nastrino, e la gabbia scomparve. Per una volta l’incantesimo di nonna Lara aveva funzionato, avrebbe dovuto fidarsi di più, nel suo futuro.

***

«SEI stato bravo,» sussurrò la regina, carezzandolo. Ma aveva il volto preoccupato, e nel suo animo non c’era soltanto il piacere che fingeva di provare o che, chissà, provava davvero. «Ora sei mio marito.» Cavaliere sorrise: «Lo sono già stato, ieri.»

C’era una domanda, piuttosto, che cercava risposta. chi aveva rubato le sue armi? Ma era facile, ormai. Nonna Lara gli aveva insegnato a risolvere gli indovinelli fin da piccolo, a tirare le somme anche con le cose della vita.

Schiaffeggiò la regina. Soltanto nelle favole non si picchiano le regine. Cavaliere la picchiò con forza. Poi la baciò piano sugli occhi e sul volto sporco di lacrime. «Non dovevi far questo,» disse. «Sapevi che in un modo o nell’altro non sarei rimasto, né avrei atteso un altro anno.»

A volte i re e i Signori credono id poter giocare con chi signore non è. E capita, a volte, che abbiano la peggio. La regina perse marito e regno nello stesso giorno, per un incantesimo preparato senza cautela, e per troppo desiderio.

C’è un’altra leggenda, infatti: se un mortale entra nel paese del Tempo e per avventura torna ad uscirne, contro le sentinelle e il volere dei Signori, anche il paese del Tempo torna a essere mortale, come in principio. Cavaliere smontò piano l’armatura e ne fece un grande fagotto. Tenne soltanto la spada d’argento. Mise il fagotto e la bisaccia su un cavallo bigio e partì verso le montagne.

Dolcemente, la leggenda s’avverò. Le torri sottili si fecero opache, il vetro diventò grigio come marmo di cimitero, e le mura del castello si coprirono piano d’edera scura. La caravella si trasformò in pietra, e affondò, ma il fondale era basso e la nave diventò uno scoglio strano, dove si arrampicavano i granchi.

Come quando un’onda più lunga delle altre scioglie i castelli di sabbia costruiti sul bagnasciuga, e in fretta i merli e le torri perdono la forma, tanto che l’onda successiva spiana la battigia, così il tempo arrivò al paese dei Signori. Gli alberi diventarono bruni, il molo fu sommerso piano e l’edera sulle mura seccò. La gente morì di vecchiaia, semplicemente.

Quando Cavaliere raggiunse la prima vetta sulla montagna, e si voltò, c’era soltanto un grumo di rocce nere, sulla riva del mare. C’è mai stato un paese del Tempo, Cavaliere? Un corvo volò fin lassù: le sue piume erano grige, e la voce perduta. Con il cavallo al fianco e il corvo sulla spalla, Cavaliere entrò nelle nuvole bianche.

***

CAVALIERE non è ancora tornato al nostro paese. È trascorso del tempo, da quando è accaduto ciò che ho raccontato, e i lupi mannari si sono fatti più audaci e le loro tane sono ora in mezzo al bosco, più vicine. Ma quando i lupi sbucano nel crepuscolo per rapire un agnello, noi speriamo che Cavaliere stia per spuntare all’orizzonte, con la spada e l’armatura d’argento.

Ma forse un’ora nel paese del Tempo vale 1000 anni dei nostri, e Cavaliere tornerà solo fra 1000 secoli, quando di noi non resterà neppure la memoria.  O forse vale un attimo soltanto, e Cavaliere è tornato tanto in fretta che non l’abbiamo neppure visto, è tornato anni fa, giovanissimo, con il suo cavallone bigio. Chissà (ma allora: dov’è l’armatura?). Io intanto scrivo questa storia.

Mario Luca Moretti
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Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano

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