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La Mano Nera, di Arthur B. Reeve (1912)

La Mano Nera, di Arthur B. Reeve (1912)
Arthur Benjamin ReeveArthur Benjamin Reeve (New York, 15 ottobre 1880 – New York, 9 agosto 1936) è stato uno scrittore americano, noto soprattutto per aver creato il personaggio del Professor Craig Kennedy, a volte chiamato “The American Sherlock Holmes,” e la spalla di Kennedy, il giornalista Walter Jameson, in 18 romanzi polizieschi. Ma Reeve è particolarmente famoso per le 82 storie di Craig Kennedy, pubblicate sulla rivista Cosmopolitan tra il 1910 e il 1918. I racconti sono poi stati raccolti in libri; con la terza edizione, i racconti sono stati presentati come romanzi a episodi. La pubblicazione in 12 volumi Craig Kennedy Stories risale al 1918; i libri di Reeve sono ristampati ancora oggi.

 

Una sera, Kennedy e io stavamo cenando piuttosto tardi da Luigi, un piccolo ristorante italiano nel Lower West Side. Avevamo conosciuto bene quel posto nei nostri giorni da studenti e da allora avevamo deciso di far visita al locale una volta al mese, al fine di mantenere in pratica la raffinata arte di maneggiare graziosamente gli spaghetti lunghi. Pertanto, non ci è affatto sembrato strano che il proprietario si fermasse al nostro tavolo per salutarci. Ma poi, guardando furtivamente gli altri commensali, quasi tutti italiani, si chinò improvvisamente verso Kennedy e gli sussurrò:

“Ho sentito parlare del vostro meraviglioso lavoro investigativo, professore. Potreste fornire un piccolo consiglio a un mio amico?”

“Sicuramente, Luigi. Di cosa si tratta?” domandò Craig, appoggiandosi allo schienale della sedia.

Luigi si guardò intorno, con apprensione e abbassò la voce. “Parlate più piano, signore. Quando avrete finito qui, uscite, proseguite per Washington Square ed entrate dall’ingresso di servizio. Vi aspetterò lì. Il mio amico, in questo momento, sta cenando privatamente al piano di sopra.”

Noi, abbiamo riflettuto ancora qualche minuto sul nostro chianti, quindi abbiamo pagato con calma il conto e siamo usciti.

Fedele alla sua parola, Luigi ci stava aspettando in una sala buia. Con un gesto che significava silenzio, ci condusse su per le scale fino al secondo piano e aprì rapido la porta di quella che sembrava essere una sala da pranzo privata di discrete dimensioni. Lì, un uomo camminava nervosamente. Su un tavolo, il cibo era intatto. Quando aprimmo la porta, ebbi la netta sensazione che quell’uomo avesse espresso un moto di paura e sono ben certo che il suo viso abbronzato si sbiancasse, pur se solo per un momento. Immaginate la nostra sorpresa riconoscendo Gennaro, il grande tenore, per il quale il solo fatto di potergli parlare, già dava la sensazione di essere famosi.

“Ah, sei tu, Luigi,” esclamò lui in un inglese perfetto, ricco e dolce. “E chi sono questi signori?”

Luigi disse semplicemente “Amici,” sempre in inglese, per poi dilungarsi in una lunga spiegazione in italiano a bassa voce.

Vidi chiaramente, in quel momento, che anche nella mente di Kennedy come nella mia, era balenata la medesima idea. Tre o quattro giorni prima, non più, i giornali avevano riportato notizia dell’inspiegabile rapimento di Adelina di cinque anni, figlia unica di Gennaro, con a seguito una richiesta di riscatto di diecimila dollari, firmata, come spesso succedeva, dalla mistica Mano Nera, un nome che evocava ricatti ed estorsioni.

Quando il signor Gennaro venne verso di noi, quasi non erano terminate le presentazioni e dopo il breve colloquio con Luigi, Kennedy lo anticipò dicendo: “Capisco, signore, prima che me lo diciate. Ho letto i giornali. Voi cercate qualcuno che vi aiuti a catturare i criminali che tengono prigioniera la vostra bambina.”

“No, no!” esclamò Gennaro emozionato. “Non è così. Prima di tutto voglio riavere mia figlia. Dopodiché, se potrete acciuffarli, sì, mi piacerebbe che qualcuno lo facesse. Ma prima leggete questo biglietto e ditemi che ne pensate. Che cosa dovrei fare per riavere la mia piccola Adelina senza che nessuno le possa torcere un capello?” Il famoso cantante estrasse da un capiente portafoglio una lettera sporca e accartocciata, scarabocchiata su carta economica.

Kennedy lo tradusse rapidamente. Vi si leggeva:

Onorevole signore: vostra figlia è in buone mani. Ma, per tutti i santi, se date questa lettera alla polizia come avete fatto con l’altra, non solo lei, ma anche la vostra famiglia e qualcuno vicino a voi, ne soffrirà. Non falliremo come è successo mercoledì. Se volete indietro vostra figlia, portatevi, da solo e senza dirlo ad anima viva, ai Sabati di Enrico Albano, di sera alla dodicesima ora. Dovrete procurarvi 10.000 dollari in banconote e le nasconderete all’interno de Il Progresso Italiano. Nella stanza sul retro troverete un uomo seduto solo a un tavolo. Avrà un fiore rosso sul cappotto. Voi direte: “Un’opera bella è ‘I Pagliacci’”. Se l’uomo risponderà: “Non senza Gennaro,” poserete il giornale sul tavolo. Lui lo raccoglierà, sostituendolo con il Bolletino. Nella terza pagina troverete scritto il luogo in cui vostra figlia è stata lasciata ad attendervi. Andrete a prenderla subito. Ma, per Dio, se vicino a Enrico si dovesse palesare anche solo l’ombra della polizia, vostra figlia vi verrà spedita in una scatola quella stessa notte. Non abbiate per altro alcun timore. Ci impegniamo a trattarvi in modo equo se voi ci tratterete in modo equo. Questo è l’ultimo avvertimento. E non dimenticate che domani vi mostreremo un altro segno del nostro potere.

La Mano Nera.

In fondo a questa lettera era disegnato un teschio su ossa incrociate, assieme a un approssimativo pugnale conficcato in un cuore sanguinante, una bara e, più giù, un’enorme mano nera. Non c’erano dubbi su cosa fosse quella lettera. Era del genere che, negli ultimi anni, era diventato sempre più comune in tutte le nostre grandi città.

“Non l’avete mostrato alla polizia, immagino?” domandò Kennedy.

“Naturalmente no.”

“Pensate di andare lì sabato sera?”

“Ho paura ad andare e ho paura a non andare,” fu la risposta e la voce del tenore da cinquantamila dollari a stagione era come quella di un padre da cinque dollari a settimana, perché in fondo tutti i padri sono uguali.

“‘Non falliremo come abbiamo fatto mercoledì’,” rilesse Craig. “Cosa vuol dire?”

Gennaro armeggiò di nuovo nel suo portafoglio e alla fine tirò fuori una lettera dattiloscritta con la carta intestata dei Leslie Laboratories, Incorporated.

“Dopo aver ricevuto la prima minaccia,” ha spiegato Gennaro, “mia moglie e io abbiamo lasciato i nostri appartamenti in albergo e ci siamo traferiti da suo padre, il banchiere Cesare, che vive nella Quinta Strada. Ho consegnato la lettera a un rappresentante della Polizia italiana. La mattina successiva il maggiordomo di mio suocero aveva notato qualcosa di strano nel latte. Provando ad assaggiarne una piccolissima parte con la lingua, subì subito un violento malessere. Ho subito inviato il latte al laboratorio del mio amico dottor Leslie per farlo analizzare ed ecco, questa lettera mostra da cosa è sfuggita la famiglia.”

“Mio caro Gennaro,” lesse Kennedy. “Il latte che ci è stato sottoposto per l’esame il giorno 10 corrente è stato accuratamente analizzato e qui mi permetto di segnalarvi il risultato delle analisi:

“Peso specifico 1.036 a 15 gradi Cent.
Acqua 84.60 %
Caseina 3.49
Albumina .56
Globulina 1.32
Lattosio 5.08
Cenere .72
Grasso 3.42
Ricinus 1.19

“Il Ricinus è un veleno nuovo e poco conosciuto derivato dalle bucce del fagiolo dell’olio di ricino. Il professor Ehrlich afferma che un grammo di veleno puro può uccidere un milione e mezzo di cavie. Il Ricinus è stato recentemente isolato dal professor Robert, di Rostock, ma raramente è stato rinvenuto, se non allo stato impuro e pur tuttavia decisamente mortale. È più letale della stricnina, dell’acido prussico e di altri farmaci più noti. Mi congratulo con te e con i tuoi per essere sfuggiti alla minaccia e naturalmente rispetterò assolutamente la tua volontà per quel che riguarda il segreto circa questo attentato. In fede:

C. W. Leslie.

Quando Kennedy restituì la lettera, osservò giustamente: “Posso capire assai facilmente perché, nel vostro caso, non vogliate la polizia. Tutto ciò va ben oltre i normali metodi della polizia.”

“E domani mostreranno un altro segno del loro potere,” gemette Gennaro, sprofondando nella sedia di fronte al cibo intatto.

“Dite che avete lasciato l’hotel?” domandò Kennedy.

“Sì. Mia moglie insisteva sul fatto che saremmo stati più sicuri nella residenza del padre, il banchiere. Ma abbiamo paura anche lì, dopo quel tentativo col veleno. Per questo sono venuto qui da Luigi di nascosto. Il mio vecchio amico Luigi, che sempre prepara il nostro cibo e tra pochi minuti verrà qui una delle automobili di Cesare e io le porterò il cibo, senza badare a spese e senza paura. Mia moglie ha il cuore spezzato. Se dovesse succedere qualcosa alla nostra piccola Adelina questo la ucciderà, professor Kennedy.

“Ah, caro signore, io non sono povero. In definitiva mi chiedono un mese di stipendio al teatro dell’opera. Darei volentieri i diecimila dollari – se me lo chiedessero, anche tutti i soldi del mio contratto stipulato con il signor Cassinelli. Ma la polizia – eh! – quelli vogliono solo catturare i cattivi. Se li catturano e la mia piccola Adelina mi venisse restituita morta, a che sarebbe servito? Lo so che voi anglosassoni tenete alla giustizia e alla legge, ma io sono – come dite voi? – un latino. Voglio la mia piccola a ogni costo. Catturerete i cattivi dopo, sì. Pagherò il doppio per catturarli in modo che non possano ricattarmi di nuovo. Ma prima voglio mia figlia.”

“E vostro suocero?”

“Mio suocero, è stato qui da voi abbastanza a lungo da essere come voi. Lui ha combattuto i ricatti. Ha addirittura messo un cartello nella sua banca, “Niente soldi a fronte di minacce.” Ma secondo me è sciocco. Io non conosco l’America bene come lui, ma so una cosa: la polizia non vince mai, il riscatto viene sempre pagato senza che loro lo sappiano e, molto spesso, se ne prendono il merito. Io dico, prima pago, poi giurerò una onesta vendetta: porterò quei bastardi davanti alla giustizia con i soldi che mi restano. Mostratemi solo come fare.”

“Prima di tutto,” rispose Kennedy, “voglio che rispondiate a una domanda, con sincerità, senza riserve, come fareste a un amico. Io, sono vostro amico, dovete credermi. Esiste qualcuno, un parente o un conoscente vostro o di vostra moglie o di vostro suocero, per cui abbiate motivo di sospettare che possa desiderare estorcervi del denaro così? Inutile dirvi che secondo l’ufficio del procuratore distrettuale questo è proprio il caso nella grande maggioranza dei delitti perpetrati dalla cosiddetta Mano Nera.”

“No,” rispose il tenore senza esitazione. “Lo so bene e infatti m’è venuto alla mente. Ma no, non riesco a pensare a nessuno. So che secondo voi americani la Mano Nera è niente più che un mito coniato da qualcuno che scriveva per i giornali. E forse non esiste alcuna organizzazione. Ma, professor Kennedy, per me non è un mito. Se invece, la vera Mano Nera fosse una banda di criminali che con quel nome estorce del denaro? Secondo voi non esiste? Mia figlia è scomparsa!”

“Proprio così,” concordò Kennedy. “Non è una teoria. È un fatto vero e terribile. Lo capisco perfettamente. Qual è l’indirizzo di questo Albano?”

Luigi menzionò un numero di Mulberry Street e Kennedy ne prese nota.

“È una casa da gioco,” spiegò Luigi. “Albano è napoletano, camorrista, mio connazionale di cui mi vergogno profondamente, professor Kennedy.”

“Pensate che questo Albano abbia qualcosa a che fare con la lettera?”

Luigi scrollò le spalle.

Proprio in quel momento si sentì arrivare una potente limousine. Luigi raccolse un enorme cesto che era stato messo in un angolo della stanza e, seguito da vicino dal signor Gennaro, si affrettò verso la macchina. Il tenore se ne andò stringendo le nostre mani nelle sue.

“Ho un’idea in mente,” disse semplicemente Craig. “Cercherò di pensarci in dettaglio stasera. Dove posso trovarvi domani?”

“Venite da me al teatro dell’opera nel pomeriggio, o se voleste parlarmi prima, nella residenza del signor Cesare. Buona notte, e mille grazie, professor Kennedy e anche a voi, signor Jameson. Mi fido assolutamente di voi perché Luigi si fida di voi.”

Siamo stati lì, seduti nella piccola sala da pranzo fino a quando abbiamo sentito la portiera della limousine sbattere e la macchina filar via con uno stridere di ruote.

“Ancora una domanda, Luigi,” disse Craig quando la porta si riaprì. “Non sono mai stato in quel quartiere di Mulberry Street dove c’è questo Albano. Conoscete qualche negoziante in quel luogo o lì attorno?”

“Ho un cugino che ha un negozio da drogheria all’angolo sotto Albano, sullo stesso lato della strada.”

“Bene! Secondo voi mi permetterebbe di usare il suo negozio sabato sera per qualche minuto, ovviamente senza alcun rischio per lui?”

“Penso che potrei organizzare l’incontro.”

“Molto bene. Per cui domani, diciamo alle nove del mattino, passerò da qui e andremo tutti a trovare questo commerciante. Buona notte, Luigi, e molte grazie per aver pensato a me a proposito di questo caso. Ho apprezzato molte volte l’arte del signor Gennaro, al punto da volergli rendere questo servizio. Sono sempre ben lieto di poter servire tutti gli italiani onesti; a patto che mi riesca di realizzare il piano che ho in mente.”

Poco prima delle nove del giorno seguente Kennedy e io entrammo nuovamente da Luigi. Kennedy portava una valigia che aveva preso nel suo laboratorio la sera prima. Luigi ci aspettava e abbiamo operato senza perdere un minuto.

Seguendo le strade tortuose del vecchio Greenwich Village siamo finalmente sbucati su Bleecker Street dove abbiamo camminato verso est in mezzo al trambusto del traffico della Lower New York. Non avevamo ancora raggiunto Mulberry Street quando la nostra attenzione fu attratta da una folla notevole in uno degli angoli più frequentati, trattenuta da un cordone di polizia che cercava di convincere la gente a circolare, con la tipica corpulenta gentilezza di un poliziotto irlandese alto due metri, nei confronti dei passanti Newyorkesi con le loro sporte, tipici immigrati dell’Europa meridionale e orientale alti un metro e cinquanta.

Avvicinandoci alla folla ci è parso di vedere un edificio la cui facciata era stata letteralmente divelta. Lo spesso vetro delle finestre frantumate formava una massa di schegge verdastre sul marciapiede, ma anche le finestre dei piani superiori e quelle di diverse case in fondo all’isolato delle due strade, erano rotte. Alcune spesse sbarre di ferro che erano servite a proteggere le finestre ora erano piegate e contorte. Nel pavimento all’interno del portone si era spalancato un enorme buco e, sbirciando, riuscimmo a scorgere una scrivania e delle sedie in una aggrovigliata massa fiammeggiante.

“Ma cosa è successo?” Ho chiesto a un poliziotto vicino a me, mostrando il mio distintivo da reporter, sperando in un effetto morale, più che di ottenere informazioni in quei giorni di forzato silenzio stampa.

“Bomba della Mano Nera,” fu la laconica risposta.

“Fiuu!” Ho sibilato. “Ci sono dei feriti?”

“Di solito non uccidono nessuno, lo sapete?” disse l’ufficiale come risposta, per verificare quanto ne sapessi sull’argomento.

“No, infatti” ho ammesso. “Distruggono le proprietà non le vite. Ma ‘stavolta hanno ferito qualcuno? Deve essere stata una bomba ultrapotente, a giudicare dal risultato.”

“Ci sono andati molto vicini. La banca aveva appena aperto quando, bang! È esplosa della dinamite vicino al tubo del gas. Prima che il fumo si disperdesse si è radunata una gran folla. È stato ferito il proprietario della banca, ma non gravemente. Ma basta così, andate in questura se volete saperne di più. Lo stamperanno sulla “voce dei piedipiatti,” i foglietti rosa –. “Ma adesso non posso dire altro,” aggiunse con un sorriso, poi rivolto alla folla: “Via. State bloccando il traffico. Circolare.”

Ho guardato Craig e Luigi. Gli occhi puntati sulla grande insegna dorata, frantumata e distorta appesa in alto. C’era scritto:

CIRO DI CESARE & CO. BANKERS
NEW YORK, GENOA, NAPLES, ROME, PALERMO

“Si tratta di una minaccia perché Cesare è il suocero di chi sappiamo,” dissi senza fiato.

“Sì,” aggiunse Craig, obbligandomi ad andar via, “ed è proprio Cesare che hanno ferito. Forse perché aveva messo quel cartello con cui si respingevano certi pagamenti. O forse no. È un caso strano: di solito fanno esplodere le bombe di notte quando non c’è nessuno. Qui deve esserci qualcosa di più che voler semplicemente spaventare Gennaro. Ho l’impressione che cercassero proprio Cesare, prima con il veleno, poi con la dinamite.”

Ci facemmo strada tra la folla e proseguimmo fino a Mulberry Street, una via molto animata. Passammo di fronte ai negozietti, evitando i bambini e lasciando passare donne in abiti da lavoro con enormi pacchi accuratamente bilanciati sulla testa, o nascosti sotto le capienti mantelle. Qui era possibile incontrare una piccola colonia delle centinaia di migliaia di italiani – più di quanti ne contenesse Roma – della cui vita il resto di New York non sapeva e non si curava.

Alla fine, arrivammo alla piccola taverna di Albano, un negozio a livello della strada, buio, funesto, maleodorante in un caseggiato di cinque piani, presunto “nuovo stile.” Kennedy entrò senza esitazione e noi lo seguimmo, recitando la parte di nativi dei bassifondi. A quell’ora presto c’erano pochi clienti, uomini senza lavoro e d’aspetto inoffensivo, anche se ci guardavano ovviamente con sospetto. Scoprimmo che Albano era un tipo grasso, dalle sopracciglia basse e lo sguardo astuto. Facile immaginare che uno così spargesse il terrore nella gente semplice solo premendo loro le tempie con i pollici e muovendo il lungo indice ossuto sotto la gola della vittima – il cosiddetto segno della Mano Nera che ha tacitato molti testimoni nel bel mezzo di una testimonianza, anche in tribunale.

Ci spostammo in una stanza dal soffitto basso sul retro, vuota, sedendoci a un tavolo davanti a una bottiglia del famoso “red ink” californiano di Albano. Kennedy prese mentalmente nota del locale. Al centro del soffitto c’era un singolo bruciatore a gas con un grande riflettore sopra. Nella parete di fondo della stanza c’era una finestra orizzontale oblunga, sbarrata con una fascia che si apriva come una piattabanda. I tavoli erano sporchi e le sedie traballanti. Le pareti erano spoglie e incomplete, che mostravano semplici travi decorative. Nel complesso era un posto senza pretese, lontano dalle mie solite frequentazioni.

Apparentemente soddisfatto del suo esame, Kennedy si alzò per uscire, complimentandosi col proprietario per il suo vino. Capii che Kennedy aveva già deciso la sua linea d’azione.

“Il crimine è davvero orribile,” osservò mentre camminavamo in strada. “Prendete il locale di Albano. Nemmeno il giornalista della polizia che scrive sullo Star lo troverebbe affascinante.”

La nostra tappa successiva fu al piccolo negozio di drogheria tenuto dal cugino di Luigi, il quale ci ha portò dietro il divisorio dove si preparavano le ricette mediche, e ci fece sedere.

Luigi spiegò velocemente quel che serviva, ma sul volto onesto del droghiere si formò una nuvola, come se esitasse a mettere se stesso e la sua piccola fortuna alla mercé dei ricattatori. Kennedy se ne accorse e intervenne.

Disse, “Vincenzo, in realtà ciò che vorrei fare, è semplicemente sistemare qui un piccolo marchingegno e usarlo stasera per qualche minuto. Vi prometto che per voi non ci sarà alcun rischio. Anzi, tutto dovrà restare segreto e nessuno dovrà mai venirlo a sapere.”

Vincenzo fu alla fine convinto e Craig aprì la valigia. Dentro non c’era molto, se non alcune bobine di filo elettrico, degli utensili, due pacchetti avvolti nella carta e un paio di tute. In un attimo Kennedy indossò una delle tute e si spalmò il viso e le mani di fuliggine e di grasso. Seguendo i suoi consigli, io feci lo stesso.

Afferrata la borsa degli attrezzi, il filo e uno dei pacchetti piccoli, siamo usciti in strada, abbiamo attraversato una zona buia e mal ventilata di quella casa. A metà percorso una donna ci ha fermato sospettosa.

“Compagnia telefonica,” disse Craig seccamente. “Ecco il permesso del proprietario per usare questi attrezzi sul terrazzo.”

Tirò fuori dalla tasca una vecchia lettera, ma poiché era troppo buio per poterla leggere, anche se la donna cercò di farlo, andammo avanti indisturbati, come Craig aveva previsto. Alla fine, arrivammo sul terrazzo dove, a un paio di tetti più in là rispetto a noi, c’erano dei bambini che giocavano.

Kennedy iniziò facendo scendere due fili metallici a terra nel cortile dietro il negozio di Vincenzo. Poi procedette posando i fili lungo il bordo del terrazzo.

Il lavoro era solo all’inizio quando i bambini cominciarono a venire dalla nostra parte. Kennedy, però, ha proseguito fino a quando non abbiamo raggiunto la casa vicina a quella in cui si trovava il negozio di Albano.

“Walter,” mi sussurrò, “portate via i bambini per qualche minuto.”

“Ehi, ragazzi,” ho urlato, “se vi avvicinate così al bordo del tetto cadrete. State indietro.”

Il che non ebbe alcun effetto. A quanto pare non sembravano spaventati per via della massa strepitosa di stendibiancheria sotto di noi.

“Ragazzi, c’è un negozio di roba dolce qui vicino?” Chiesi disperato.

“Sì, signore,” dissero tutti.

“Chi scende e mi porta una bottiglia di aranciata?” Ho proposto.

Mi rispose un coro di voci e occhi scintillanti. Volevano andare tutti. Ho preso mezzo dollaro dalla tasca e l’ho dato al più grande.

“Va bene, fate in fretta e dividetevi il resto.”

Ci fu uno scalpiccio di molti piedi che correvano via e noi restammo soli. Kennedy aveva ormai raggiunto la casa di Albano, e non appena l’ultimo ragazzo scomparve dal tetto, fece scendere due lunghi fili nel cortile sul retro, come aveva fatto da Vincenzo.

A quel punto ho fatto per andar via, ma lui mi ha fermato. “Oh, non così in fretta,” disse. “I bambini vedranno subito che i fili finiscono qui. Devo stenderli per finta anche su diversi tetti più in là e sperare che i ragazzi non si accorgano dei fili che scendono di sotto.”

Ormai eravamo a diverse case più in là e stavamo ancora attaccando fili quando la masnada è tornata urlando, appiccicosa di caramelle da due soldi e neri di cioccolata. Noi abbiamo aperto la nostra aranciata e abbiamo dovuta berla per non destar sospetti. Pochi minuti dopo siamo scesi per le scale, sbucando proprio da Albano’s.

Mi chiedevo come avrebbe fatto Kennedy a entrare un’altra volta in quel posto senza destare sospetti, ma lui lo ha risolto benissimo.

“Walter, pensate di poter sopportare un altro tuffo nel ‘red ink’ di Albano?”

Ho detto che avrei potuto farlo nell’interesse della scienza e della giustizia, non altrimenti.

“Be’, la vostra faccia è sufficientemente sporca,” commentò, “in modo che, con la tuta, non sembriate troppo simile a quel che eravate la prima volta che siete entrato. Non credo che vi riconosceranno. E io come sono?”

“Sembrate un carbonaio al lavoro,” dissi. “Riesco a malapena a trattenere la mia ammirazione.”

“Va bene. Quindi prendete questa piccola bottiglia di vetro. Andate nella stanza sul retro e ordinate qualcosa di economico, in linea con il vostro aspetto. Quando sarete solo, rompete la bottiglia. È piena di gas liquido e il vostro naso deciderà come dovrete comportarvi. Direte al proprietario che avete visto il camioncino della compagnia del gas qui all’isolato accanto e verrete a dirmelo.”

Così sono entrato. A un tavolo vidi un uomo dall’aspetto sinistro che scriveva, evidenziando una decisa mancanza di scrupoli. L’uomo scriveva e fumava un sigaro e notai che aveva una cicatrice sulla faccia, un solco profondo che correva dal lobo dell’orecchio alla bocca. Sapevo che quello, era il marchio dalla camorra. Mi sono seduto e ho fumato e sorseggiato lentamente per diversi minuti, maledicendo l’estraneo più per la sua presenza che per il suo aspetto di evidente malavitoso. Alla fine, l’uomo è andato di là a chiedere un francobollo al barista.

Andai in punta di piedi a un diverso angolo della stanza e schiacciai la bottiglietta sotto la scarpa, poi sono subito tornato al mio posto. Un odore nauseabondo pervase la stanza.

Tornò l’uomo dall’aspetto sinistro con la cicatrice e annusò vistosamente. Lo feci anche io. Poi è entrato il proprietario.

“Dite,” feci con la voce più dura che mi riuscì, “avete una perdita. Sapete, quando sono entrato ho visto il furgone della compagnia del gas all’altro isolato. Li vado a chiamare.”

Mi precipitai fuori e mi affrettai nel punto in cui Kennedy mi aspettava con impazienza. Mi seguì con finta riluttanza portando con sé gli attrezzi.

Appena entrato nell’enoteca sbuffò, alla maniera dei gasisti: “Dov’è ‘sta perdita?”

“Trovala da solo la perdita,” grugnì Albano. “Che ti pago a fare? Vuoi che faccia io il tuo lavoro?”

“Be’, fuori tutti i maledetti immigrati. A meno che non vogliate essere fatti a pezzi con le vostre pipe e sigarette? Sgombrate,” ringhiò Kennedy.

Tutti si allontanarono precipitosamente e Craig aprì subito la borsa degli attrezzi.

“Forza, Walter, chiudete la porta e bloccatela,” disse Craig, lavorando in fretta. Aprì un pacchetto piccolo estraendo un oggetto rotondo e piatto simile a un disco di gomma nera. Saltando su un tavolo, lo fissò in cima al riflettore sopra il getto di gas.

“Da sotto lì, lo vedete Walter?” chiese sottovoce.

“No,” risposi, “nemmeno sapendo dov’è.”

Poi vi attaccò un paio di fili e li fece passare lungo il soffitto fino alla finestra, nascondendoli con cura all’ombra di una trave. Alla finestra attaccò rapidamente i fili ai due che penzolavano dal tetto e li spinse in là in modo che non  si vedessero.

“Dovremo sperare che nessuno li noti,” disse. “Questo è il meglio che posso fare in un tempo così breve. Non ho mai visto una stanza spoglia come questa, a dire il vero. Non c’è posto in cui potrei mettere quella cosa senza che sia vista.”

Raccogliemmo il vetro rotto della bombola che stillava gas e aprimmo la porta.

“Adesso va bene,” disse Craig, saltellando fuori dal bar. “Solo che la prossima volta che hai altri casini chiama subito il gas. Non dovrei fare niente senza che sia in tabella?”

Un attimo dopo lo seguii, felice di uscire da quell’atmosfera opprimente, e lo raggiunsi sul retro della drogheria di Vincenzo, che era lì al lavoro. Dato che non c’era una finestra sul retro, era un bel problema condurre i fili all’esterno dal cortile sul retro e a una finestra laterale. Alla fine, fu tuttavia fatto senza destare sospetti e Kennedy li attaccò a un paio di batterie a secco appositamente sistemate in una scatola oblunga di quercia esposta alle intemperie.

“Ora,” disse Craig, mentre ci lavavamo alla fine di quel lavoro per poi riporre la tuta nella valigia, “direi che sono piuttosto soddisfatto. Posso dire a Gennaro di andare a incontrare le Mani Nere tranquillo.”

Ci avviammo da Vincenzo verso Center Street, dove Kennedy ed io lasciammo Luigi per tornare al suo ristorante, con l’idea di essere da Vincenzo alle undici e mezza di quella sera.

Entrammo nella nuova questura e percorremmo il lungo corridoio fino all’Italian Bureau. Kennedy mostrò sua carta al tenente Giuseppe alla ricezione, e fummo ammessi rapidamente. Il tenente era un italiano corpulento e basso, con i capelli chiari, un’espressione apparentemente svogliata, fino a che scoprivi che quella era solo una copertura e gli occhi erano invece irrequieti, attenti, capaci di notare e memorizzare tutto, come se fosse su pellicola.

“Vorrei parlarvi del caso Gennaro,” ha esordito Craig. “Posso aggiungere che sono stato associato piuttosto strettamente con l’ispettore O’Connor dell’Ufficio Centrale in un certo numero di indagini; quindi, penso che possiamo fidarci l’uno dell’altro. Vi dispiacerebbe dirmi ciò che sapete sul caso, se vi prometto che anch’io vi rivelerò qualcosa?”

Il tenente si appoggiò alla sedia osservando Kennedy attentamente senza sembrare di farlo davvero. “Quando sono stato in Italia l’anno scorso,” ha risposto dopo un bel po’, “ho svolto parecchio lavoro per rintracciare dei sospetti camorristi. Qualcuno mi ha fornito indizi per scoprire molte delle loro imprese: non vi vorrei dire chi sia stato, ma sappiate che è stata una buona esperienza. Gran parte delle prove usate contro quei tizi processati a Viterbo sono state raccolte dai Carabinieri a seguito di suggerimenti che ho potuto fornire io – indizi che provenivano da qui in America e dalla fonte di cui parlo. Suppongo tuttavia, che non ci sia davvero bisogno di nascondervelo. La soffiata originale è venuta da un certo banchiere di New York.”

“Posso indovinare chi sia,” annuì Craig.

“Come forse sapete, questo banchiere è un combattente. È chi ha organizzato la Mano Bianca, un’organizzazione che vorrebbe liberare dalla Mano Nera la popolazione italiana. La sua società aveva molte prove riguardanti gli ex membri sia della camorra a Napoli che della mafia in Sicilia, ma anche contro le bande della Mano Nera a New York, Chicago e altre città. Be’, Cesare, lo sappiamo, è il suocero di Gennaro.

“Mentre ero a Napoli a controllare la fedina penale di un certo criminale ho sentito parlare di un omicidio commesso alcuni anni fa. C’era un vecchio maestro di musica onesto che apparentemente viveva la più tranquilla e innocua delle vite. Ma si seppe che costui era sostenuto da Cesare e aveva ricevuto da lui importanti regali in denaro. Il vecchio fu, come avrete intuito, il primo maestro di musica di Gennaro, l’uomo che lo scoprì. Si poteva forse far finta di non capire chi avrebbe potuto essere suo nemico: solo qualcuno che bramava la sua piccola fortuna. Un giorno il musicista è stato pugnalato e derubato. Il suo assassino corse in strada, gridando che quel poveraccio lo avevano ammazzato. Naturalmente in un attimo arrivò una folla di persone, perché il fatto era capitato nel bel mezzo del giorno. Prima che il ferito a morte potesse far capire chi lo aveva colpito, l’assassino era già in fondo alla strada perduto nel dedalo di vicoli della vecchia Napoli dove conosceva bene le case dei suoi amici che lo avrebbero nascosto. L’uomo che è noto per aver commesso quel crimine – Francesco Paoli – fuggì a New York. Lo stiamo cercando ancora. È un uomo intelligente, molto al di sopra della media – figlio di un medico in una città a pochi chilometri da Napoli, è stato all’università e lo hanno espulso per qualche stupido crimine – insomma, era la pecora nera della famiglia. Naturalmente qui è troppo importante per lavorare come operaio alla ferrovia o in trincea, ma non abbastanza istruito per lavorare a qualsiasi altra cosa. Per cui ha depredato i suoi compatrioti più industriosi – un tipico caso di uomo che vive di espedienti, senza mezzi visibili di sostentamento.

“Ora non ho problemi a dirvi in stretta confidenza,” continuò il tenente, “che secondo me, il vecchio Cesare aveva visto Paoli qui, sapeva che era ricercato per l’omicidio del vecchio maestro di musica, così mi suggerì di cercare i suoi dati in archivio. Il fatto è che Paoli è scomparso subito dopo il mio ritorno dall’Italia e da allora non siamo più stati in grado di localizzarlo. Deve aver scoperto in qualche modo che la taglia per la sua cattura era stata offerta dalla Mano Bianca. Facendo il camorrista, in Italia, aveva molti modi per avere una rete di informatori anche qui in America.”

Si fermò tenendo in mano una specie di cartolina.

“La mia teoria è che se potessimo localizzare questo Paoli potremmo risolvere il rapimento della piccola Adelina Gennaro molto rapidamente. Ecco la foto di Paoli.”

Kennedy ed io ci chinammo a guardarla, e sobbalzai. Era il mio amico dall’aspetto losco con la cicatrice sulla guancia.

“Be’,” disse Craig, restituendo senza batter ciglio la foto, “che sia lui o meno l’uomo, so dove possiamo catturare i rapitori stanotte, tenente.”

Fu il turno di Giuseppe di mostrare sorpresa.

“Con il vostro aiuto stasera prenderò quest’uomo e tutta la banda,” disse Craig, rivelando rapidamente il suo piano e nascondendo quel tanto che bastava per assicurarsi che il tenente non potesse rovinare tutto con interferenze premature, anche se era certo ansioso di ottenere del credito personale.

Alla fine, l’accordo fu che quattro dei migliori poliziotti dovevano nascondersi alle prime ore della sera, in un negozio vuoto di fronte a quello di Vincenzo, in modo che nessuno li potesse vedere. Il segnale per farli uscire doveva essere lo spegnimento delle luci dietro le bottiglie colorate nella finestra del droghiere. Allo stesso momento, un taxi con altri tre uomini capaci doveva restare in attesa al quartier generale, pronto a partire per un certo indirizzo nel momento in cui veniva dato l’allarme al telefono.

Al teatro dell’opera incontrammo Gennaro che ci aspettava con tantissima ansia. La bomba alla banca di Cesare era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. In ogni caso, Gennaro aveva già prelevato dieci banconote da mille dollari e aveva comperato una copia de Il Progresso tra i cui fogli aveva nascosto i soldi.

“Signor Kennedy,” disse, “stasera li incontrerò. Potrebbero uccidermi. Guardate, mi sono procurato una pistola e combatterò per la mia piccola Adelina se fosse necessario. Ma se sono solo soldi ciò che vogliono, li avranno.”

“Vorrei solo dire una cosa,” esordì Kennedy.

“No, no, no!” sbraitò il tenore. “Andrò io e voi non mi fermerete.”

“Non voglio fermarvi,” lo rassicurò Craig. “Ma sentite quel che vi dico: fate esattamente secondo il mio consiglio e giuro che non sarà torto un capello alla bambina e prenderemo anche i ricattatori.”

“Come?” chiese con entusiasmo Gennaro. “Cosa volete che faccia?”

“Tutto quello che vi chiedo è di andare da Albano all’ora stabilita. Vi sedete nella stanza sul retro. Fate conversazione con loro, e, soprattutto, signore, quando vi passeranno la copia del Bolletino aprite alla terza pagina e fingete di non riuscire a leggere l’indirizzo. Chiedete all’uomo di leggerlo. Quindi ripetetelo subito dopo fingendo di essere felicissimo. Offrite da bere a tutti gli avventori. Pochi minuti, non vi chiedo altro e vi garantisco che domani sarete l’uomo più felice di New York.”

Gli occhi di Gennaro si riempirono di lacrime mentre prendeva la mano di Kennedy. “Questo è meglio che avere tutte le forze di polizia con me,” disse. “Non lo dimenticherò mai, non lo dimenticherò mai.”

Mentre uscivamo, Kennedy osservò: “Come biasimarli per non aver denunciato il ricatto. Hanno mandato un agente di polizia in Italia per cercare informazioni su alcuni dei peggiori delinquenti. E lo hanno ucciso. Un altro ha preso il suo posto, ma quando è tornato, si mette al lavoro sui dati solo allo scopo di tradurli. Uno dei suoi è degradato. E quindi che ci dice tutto questo? Centinaia di documenti sono diventati inutili quando sono trascorsi i tre anni senza far nulla. Anni in cui i criminali avrebbero potuto essere cacciati dall’America. Notevole, non credete? Ritengo che ormai tutti i settecento criminali italiani sospettati siano in libertà, tranne una cinquantina. Quasi tutti in questa città. E il resto della popolazione italiana è protetta da una squadra di polizia con un numero di elementi che è un trentesimo del numero dei criminali. No, è colpa nostra se la Mano Nera prospera.”

Eravamo in piedi all’angolo di Broadway, in attesa di una macchina.

“Walter, fate attenzione. Ci incontreremo alla stazione della metropolitana di Bleecker Street alle undici e trenta. Io vado all’università. Ho alcuni esperimenti molto importanti con sali fosforescenti che voglio finire oggi.”

“Hanno a che fare con il caso?” Ho chiesto incerto.

“Per nulla,” rispose Craig. “Non ho detto che avessero a che fare. Alle undici e trenta, non dimenticate. Ma perbacco, fate attenzione a Paoli che è troppo intelligente – conosceva benissimo il potere del ricinus. Eppure, io ne avevo sentito parlare solo di recente. Bene, ecco la mia macchina. A dopo.”

Craig salì su un’auto ad Amsterdam Avenue, lasciandomi ad ammazzare otto ore di tempo nel mio giorno di riposo dallo Star.

Ore che passarono molto lente e alla fine, Kennedy e io ci incontrammo come stabilito. Ci siamo avvicinati a Vincenzo’s con eccitazione sia pure repressa, almeno da parte mia. Di notte, questa zona è proprio un terribile guazzabuglio. Le luci nei negozi dove si vende olio d’oliva, frutta e altre cose, chiudevano gli occhi una dopo l’altra; dalle enoteche filtrava della musica qua e là e piccoli gruppi indugiavano agli angoli conversando animatamente. Passammo davanti ad Albano’s dall’altra parte della strada, curando di non farci sorprendere a fissarlo, perché c’erano diversi uomini lì attorno – picchetti, si sarebbe detto, con qualche metodo segreto di comunicazione capace di diffondere in breve tempo la notizia di un’azione sospetta.

All’angolo abbiamo attraversato e guardato un attimo dentro la vetrina di Vincenzo e lanciando uno sguardo furtivo dall’altra parte della strada verso il negozio buio e vuoto dove doveva nascondersi la polizia. Poi siamo entrati e abbiamo fatto un giro. Luigi era già lì. C’erano ancora diversi clienti, e quindi ci siamo seduti senza dire niente, mentre Vincenzo serviva rapidamente una comanda in attesa della successiva.

Alla fine, furono chiuse le porte e abbassate le luci, tutte tranne quelle nelle finestre che dovevano servire come segnale.

“Dieci minuti alle dodici,” disse Kennedy, posando una scatola oblunga sul tavolo. “Presto arriverà Gennaro. Proviamo questo aggeggio e vediamo se funziona. Se qualcuno avesse tagliato i fili dopo stamattina, Gennaro sarebbe da solo.”

Kennedy allungò una mano e toccò un interruttore con un leggero movimento dell’indice.

Immediatamente il negozio si riempì di una babele di voci che parlavano tutte assieme, rapidamente e forte. Qua e là si potevano distinguere brandelli di conversazione, una parola, una frase, ogni tanto anche una frase intera. Si sentiva il tocco sugli occhiali. Come pure il tintinnio dei dadi su un tavolo vuoto, una bestemmia. Un tappo che esplodeva. Qualcuno che sfregava un fiammifero.

Ci sedemmo sconcertati, guardando Kennedy.

“È come essere seduti a un tavolo nella stanza sul retro di Albano,” si limitò a dire. “Se foste lì sentireste questo. Si tratta del mio “orecchio elettrico,” in altre parole il dittografo, usato, mi dicono, dai servizi segreti degli Stati Uniti. Ecco, tra un istante sentirete entrare Gennaro. Luigi e Vincenzo, vi prego di tradurmi ciò che dicono. La mia conoscenza dell’italiano è piuttosto arrugginita.”

“Loro ci possono sentire?” sussurrò Luigi attonito.

Craig si mise a ridere. “No, non adesso. Ma se solo toccassi quest’altro interruttore, potrei produrre in quella stanza un effetto che rivaleggerebbe con la famosa frase scritta sul muro di Baldassarre – solo che sarebbe una voce e non una scritta.”

“Sembra che stiano aspettando qualcuno,” disse Vincenzo. “Ho sentito dire: ‘Sarà qui tra poco. Ora vattene.”

La babele di voci sembrò placarsi mentre gli uomini uscivano dalla stanza e ne restavano un paio al massimo.

“Uno di loro dice che la bambina sta bene. È in cortile,” tradusse Luigi.

“In cortile, dove? L’ha detto?” domandò Kennedy.

“No, hanno solo detto ‘nel cortile’”.

“Jameson, uscite dal negozio e andate alla cabina telefonica; chiamate il quartier generale. Chiedete se l’automobile con gli uomini è pronta.”

Ho fatto come mi aveva chiesto Craig e un attimo dopo dalla centrale di polizia mi hanno detto che era tutto pronto.

“Poi dite alla centrale di tenere libera la linea: non dobbiamo perdere un istante. Jameson, restate nella cabina. Vincenzo, farete finta di lavorare vicino alla finestra, ma cercate di non attirare l’attenzione, perché hanno certamente uomini che controllano la strada. Cosa è successo, Luigi?”

“Sta arrivando Gennaro. Ho appena sentito uno di loro dire: ‘Eccolo’.”

Potevo sentire il dittografo ripetere la conversazione nella squallida stanzetta sul retro di Albano, anche dalla cabina telefonica in fondo alla strada.

“Adesso ha ordinato una bottiglia di vino rosso,” mormorò Luigi, saltellando eccitato sui due piedi.

Vincenzo era così nervoso da far cadere una bottiglia e credo che i miei battiti cardiaci fossero udibili direttamente dal telefono che avevo in mano, perché l’operatore della polizia mi chiamò molte volte per chiedermi se tutto andasse bene.

“Ecco il segnale,” gridò Craig. “‘Un’opera bella è ‘I Pagliacci’’. Ora vediamo che risponde.”

Passò un secondo, poi, “Non senza Gennaro,” disse una voce burbera in italiano dal dittografo.

Un silenzio. C’era tensione.

“Un momento, aspettate,” disse una voce che riconobbi come quella di Gennaro. “Non riesco a leggere bene. Cos’è, 231/2 Prince Street?”

“No, 331/2. È nel cortile sul retro.”

“Jameson,” mi telefonò Craig, “dite loro di guidare direttamente al 331/2, Prince Street. Troveranno la ragazza nel cortile sul retro. Ma in fretta, sennò quelli della Mano Nera potrebbero non rispettare la parola data.”

Ho subito gridato i miei ordini al quartier generale della polizia. “Sono già in viaggio,” mi risposero e riattaccai il ricevitore.

“Che ha detto?” stava domandando Craig a Luigi. “Non ho capito cosa ha detto!”

“L’altra voce ha detto a Gennaro: ‘Siediti ché adesso li conto.’

“Sh! Ecco che dice qualcos’altro.”

“Se c’è un centesimo meno dei diecimila o se trovo un segno sulle banconote chiamerò Enrico che porterà di nuovo via tua figlia,” tradusse Luigi.

“Ora, è Gennaro che parla,” disse Craig. “Bene, prova a guadagnare tempo. È bravo. Si sente molto bene. Chiede al tipo dalla voce burbera se gli può portare un’altra bottiglia di vino. Gli ha detto sì. Bene. Oramai dovrebbero essere a Prince Street, daremo loro qualche minuto ancora, ma senza esagerare, perché la voce si rifarà su Albano come fuoco e hanno anche Gennaro in ostaggio. Ah, adesso bevono. Che dice, Luigi? Dice che i soldi vanno bene? Allora, Vincenzo, via la luce!”

Una porta si spalancò dall’altra parte della strada e quattro enormi figure sfrecciarono in direzione di Albano.

Con il dito Kennedy tirò giù l’altro interruttore e gridò: “Gennaro, sono Kennedy! Uscite! Polizia! Polizia! “

Seguì una colluttazione e un grido. Una seconda voce, apparentemente dal bar, urlò: “Spegni la luce, spegni la luce!”

Bang! Prima una pistolettata, poi un’altra.

Il dittografo, che era stato in funzione fino a un attimo prima, ora era muto come una scatola di sigari.

“Cosa è successo?” domandai a Kennedy, mentre mi superava correndo.

“Hanno spento le luci. Il mio strumento ricevente è inutile senza elettricità. Forza, Jameson; Vincenzo, state indietro se non volete farvi riconoscere.”

Una piccola figura mi superò, decisamente più veloce di me. Era il fedele Luigi.

Davanti ad Albano era in corso una lotta emozionante. Venivano sparati colpi all’impazzata nell’oscurità e dalle finestre delle case popolari spuntarono molte teste da ogni lato. Mentre Kennedy e io ci lanciavamo tra la folla intravedemmo Gennaro con del sangue che gli scorreva da una ferita sulla spalla, trattenuto un poliziotto, mentre Luigi cercava invano di mettersi tra loro. Un uomo, trattenuto da un altro poliziotto, sollecitava il primo agente. “Questo è lui,” piangeva. “È il rapitore. L’ho preso io.”

In un attimo Kennedy fu dietro di lui. “Paoli, voi mentite. Siete voi il rapitore. Afferratelo: ha i soldi addosso. Quell’altro è Gennaro, invece.”

Il poliziotto che teneva il tenore lo liberò e con il collega arrestò Paoli. Gli altri stavano battendo sulla porta, che era fermamente barricata dall’interno.

Proprio in quel momento un taxi stava risalendo la strada. Ne uscirono tre uomini che si aggiunsero a coloro che volevano abbattere la porta di Albano.

Gennaro, saltò sul taxi con un grido. Sopra la sua spalla riuscii a vedere una massa di riccioli marroni e una voce infantile che diceva: “Perché non sei venuto a prendermi, papà? L’uomo cattivo mi ha detto che se avessi aspettato nel cortile saresti venuto a prendermi. Ma se piangevo diceva che mi avrebbe sparato. E ho aspettato, e ho aspettato…”

“Su, su, ‘Lina, adesso papà ti porta a casa dalla mamma.”

Seguì uno schianto quando la porta cedette e la famosa banda Paoli fu così tutta nelle mani della legge.

 

© Project Gutenberg: Permission of the Author and Messrs. Harper & Brothers.
Traduzione © 2023, Franco Giambalvo
Copertina tratta da Stripper’s Guide

 

Arthur Benjamin Reeve
Arthur Benjamin Reeve

(New York, 15 ottobre 1880 – New York, 9 agosto 1936) è stato uno scrittore americano, noto soprattutto per aver creato il personaggio del Professor Craig Kennedy, a volte chiamato “The American Sherlock Holmes,” e la spalla di Kennedy, il giornalista Walter Jameson, in 18 romanzi polizieschi.

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