CRONACHE DI UN PAESE TROPPO AFFOLLATO: L’ULTIMO PIANO
La copertina è World © di Roberta Guardascione
disegnata appositamente per Cose da Altri mondi.
Scelti dal Direttore
Questo racconto fa parte di un fix-up in cui si narrano le cose quotidiane di un Paese, o di un tempo, in cui la popolazione è cresciuta enormemente. La maggior parte della gente “sembra” non avere casa ed è costretta a viaggiare a piedi quasi in continuazione. Questa è, per lo meno, la sensazione di chi abita nelle case e noi vediamo, almeno inizialmente, solo questo punto di vista. Il fix-up, ovviamente si diverte a descrivere episodi isolati. Il primo racconto della serie è già stato pubblicato ed è La bottega del sarto.
F.G.
27 febbraio.
Oggi mi hanno dato questo quaderno, perché ho finito esattamente un mese fa il mio corso speciale di Scrittura Professionale: ho dodici anni, sono alle dipendenze della Contessa Paola Federici Del Manto, come mio padre, mia madre e la mia sorella più piccola, Elvira. La Contessa è la padrona di tutta la casa in cui abitano ventidue famiglie, di cui tre occupano direttamente i negozi a livello della strada, le altre diciannove sono sparse nei vari alloggi dove svolgono anche le loro occupazioni.
28 febbraio.
Ho riletto questo inizio di diario e trovo che risulti piuttosto ampolloso e didascalico, qualsiasi cosa significhino questi termini. Se però devo dire tutta la verità è che fino a ieri avevo scritto solo quella frase con un certo sforzo e oggi l’ho fatta rileggere al mio Aio, il quale è venuto inaspettatamente a trovarmi e mi ha appunto detto che gli sembrava ampollosa e didascalica. Quindi sono molto soddisfatto: l’ho lasciata tale e quale. Non ne sono certo, ma i due termini mi sembrano molto promettenti per il mio futuro di Scrittore Professionale.
Il mio Aio è anche lui un impiegato della Contessa Paola che pensa al mio futuro, perché a suo dire, il futuro sarà di quelli che sanno scrivere e sanno leggere. La Contessa mi vuole bene, anche se qualche volta tratta con sussiego mio padre, che chiama stranamente Pedro, ma il suo nome è Pietro Andrea: lui è il maggiordomo, vale a dire il capo di tutta la servitù. Ha una bella divisa tutta nera, con la camicia bianchissima tutti i giorni lavata da mia madre, scarpe lucidissime di cera che di solito cura mia sorella. Io sono fortunato: ho studiato due anni con l’Aio che abita due piani sotto il nostro e sono lo studioso della famiglia. In pratica non devo fare altro che scrivere. Almeno per adesso.
Abitiamo al quinto piano, che è anche l’ultimo: da una parte dell’alloggio si vede la strada sempre piena di gente, una marea che si muove in un’unica direzione da destra a sinistra. Per vedere la strada debbo andare alle finestre, o sui balconi della sala. Invece guardando dalla parte opposta, proprio di fronte alle nostre stanze, si vede la parte centrale dell’isolato e ci si rende conto che questa non è l’unica casa e ce ne sono moltissime. Tutte le case sono più o meno alte come la nostra. Qualcuna è più bassa. Tutte hanno un cortile dove ogni tanto vedo della gente che svolge dei lavori: immagino che i cortili servano a chi ha bisogno di spazio. Nel nostro cortile, per esempio, ci sono quelli del negozio di olio e di vino: mettono botti e bidoni nel cortile e poi riempiono bottiglie e fiaschi, che probabilmente vendono o barattano con gli abitanti della casa, ma soprattutto con i Viaggiatori.
Adesso che sono diventato Scrittore Professionale, una delle cose che dovrò fare è tenere la contabilità. Ho cominciato una settimana fa a guardare i numeri. È complicato. Ho visto, per esempio, che tutti debbono pagare, cioè barattare con la Contessa il diritto di abitare nella sua grande casa. Non noi! Il che mi sembra strano. A meno che la Contessa non consideri il compito svolto da mio padre, da mia madre e da tutta la famiglia meritevole di ospitalità! Quindi barattiamo il nostro lavoro, per il privilegio di abitare dalla Contessa.
Neanche l’Aio paga la Contessa: mi chiedo se il fatto di avermi insegnato la Scrittura Professionale sia considerato un merito da compensare. A questo punto non so capire cosa succederà all’Aio adesso che ormai ho imparato tutto quanto e lui non serve più a niente.
Cosa mi rimane da dire? Ecco, una cosa che dovete sapere è che la casa possiede una scala: questa è molto ampia e si snoda per tutti i cinque piani. Ad ogni piano ci sono come delle terrazze, su cui si affacciano da tre a quattro porte, attraverso le quali si accede agli appartamenti, detti anche alloggi. Scrivo tutto questo perché non so esattamente come siano fatte le altre case. Magari è così dappertutto e sto dicendo cose inutili. Mi dice l’Aio che queste terrazzine si chiamano pianerottoli, che mi sembra una parola proprio divertente! Un paio di volte l’Aio mi ha portato a vedere dove finiscono queste scale ed è stata un’avventura interessante: in pratica si scende di livello attraverso quelli che si chiamano gradini e sono messi alcuni a sinistra del pianerottolo (mi dice l’Aio che questa schiera si chiama rampa), poi una rampa più lunga di fronte, poi un’altra a destra e così via. Se si guarda in basso è spaventoso, un buco buio che fa sentire una strana sensazione nello stomaco. L’Aio chiama quel baratro la Tromba delle Scale: nome insensato!
Comunque le scale non sono molto utilizzate: in pratica nessuno deve uscire nella strada, che è il regno indiscusso dei Viaggiatori, i quali non si sa dove abitino. Certamente non nella nostra casa. Però qualche volta le scale sono usate da quelli che debbono salire o scendere negli appartamenti degli altri: per esempio l’Aio fa le scale per i due piani che portano qui da noi. Quando arriva preme un bottone che suona dentro casa in modo caratteristico. Mio padre ha l’incarico di andare alla porta di ingresso a riceverlo. Lo fa anche con altre persone che conosciamo e che non so bene da dove vengano: quello che porta la carne, la signora che porta il pane e il latte e qualche altro che in questo momento mi sfugge. Tutti questi usano le scale. Mi viene un dubbio: forse qualcuno di loro potrebbe essere un Viaggiatore!?
Dico questo perché ho visto come è fatto sotto. Dopo un bel po’ di discesa si arriva in un grande locale che da una parte dà in cortile, mentre dall’altra hanno messo una porta molto grande, che infatti si chiama portone e che non viene mai e poi mai aperto. Almeno così credo io! Questo per evitare che possa involontariamente entrare qualche Viaggiatore, ché costoro di solito utilizzano i negozi a piano terra per le loro necessità. Però mi è venuto il dubbio: se un Viaggiatore avesse bisogno, per esempio, dei servizi dell’Aio che abita al terzo piano non dovrebbe entrare? Potrebbe quindi esserci qualcuno che controlla la porta grande detta portone. Non so. Domanderò all’Aio, se ritornerà. Perché c’è anche questo: adesso che mi ha promosso può essere che non ritorni più. Anche se ieri è tornato! Non so…
Mi sono ripromesso di studiare come funzioni esattamente questo meccanismo: possibile che i Viaggiatori non possano avere un Aio? O anche: se la Contessa avesse bisogno della carne, appunto. Da dove arriverebbe? Magari bisogna viaggiare un bel po’ per arrivare fin qui. Ecco la necessità che un Viaggiatore della Carne entri dal portone, eccetera. Se questo è vero, quello che porta la Carne io l’ho visto ed è uno come tutti gli altri. Non si direbbe un Viaggiatore. È il signor Gaetano, lo conosco benissimo.
Comunque, in questo secondo giorno sto scrivendo moltissimo e non ho ancora finito di raccontare tutto quello che vorrei dire. Per esempio che mia madre si chiama Marcella, fa la serva e ha il compito di pulire le camere dell’alloggio e rifare i letti. Ma anche lavare i panni e aggiustare le calze con i buchi. Poi c’è una stanza che è occupata dalla signora Anna, che abita da sola. Mi dicono anzi che sia una signorina, anche se è vecchiotta: il suo compito è quello di cucinare. Anche lei dipende da mio padre. Insomma mio padre è importantissimo.
Poi c’è la Contessa: quella la vediamo poco. Ha un’età attorno ai cinquant’anni, quindi è vecchia. Ha un figlio che non è a posto: almeno così dice mia madre. Anche lui si vede poco. Quasi solo a colazione. È sempre in pigiama e non cammina. C’è un uomo che non dipende da mio padre che si incarica di spingerlo su una sedia con le ruote: non so dove abiti quest’uomo, né come si chiami. A dire il vero non so niente nemmeno del figlio della Contessa. Né di dove esattamente abiti, né se abbia un nome.
Bisogna dire che l’appartamento è gigantesco: credo che sia come quattro appartamenti degli altri e infatti occupa l’intero piano, là dove in basso ci sono fino a quattro alloggi. La nostra famiglia può usare due intere stanze che, come ho già detto, si affacciano dalla parte dei cortili. La signorina Anna ha una sola stanza che non ho mai visto, perché non ho il permesso di entrarvi e però si affaccia dalla parte della strada. Poi c’è quella che si chiama “la Sala” di cui ho accennato ed è molto grande, con finestre che si affacciano sia sui cortili, sia sulla strada. I pavimenti della Sala sono tenuti lucidissimi da mia madre, al centro c’è un grandissimo tappeto con una curiosa forma circolare. Al suo interno sono rappresentate bestie che io non ho mai visto e mi dicono si chiamino elefanti, giraffe e altri nomi che non ricordo. Contro la parete di destra c’è un divano su cui potrebbero sedersi quattro persone, ma qualche volta si siede solo la Contessa: è un mobile molto elaborato, fatto di legno scuro scolpito in arabeschi e con cuscini a colori pallidi decorati con disegni di fiori leggermente lucidi. Sulla parete di fronte ci sono due poltrone che sono le sorelle piccole del divano e in mezzo al tappeto un tavolino basso con sopra dei fascicoli che papà chiama Riviste, che non so da dove provengano e che sono lì, uguali a se stesse da anni.
Tra le due poltrone c’è, infine, il mobile più importante di tutti: la radio. Appartiene alla Contessa naturalmente, ma l’accende ogni mattina mio padre. È molto grande, ha un complicato sistema luminoso con delle manopole che io non so usare. Mio padre gira a destra la manopola che accende l’apparecchio, a sinistra lo spegne, poi ce ne sono altre tre che sono decisamente più misteriose: con una si cambia ciò che la radio dice e suona, ma è molto complicato. Molto spesso bisogna toccare e ritoccare la manopola fino a quando i suoni non escono perfetti. Certe volte si tratta di movimenti minimi e su questo l’unico in grado di ottenere un buon risultato è mio padre. L’operazione si chiama sintonizzare. Di solito ascoltiamo quella che è detta “rete rossa.” Esiste anche la “rete blu,” ma non è così popolare a casa nostra. Una delle altre manopole serve a qualcosa che si chiama “tono,” ma secondo me se la ruoti non cambia niente. Infine l’ultima manopola cambia la “frequenza,” ma questa non l’ha mai toccata nessuno e non so cosa sia.
Non so bene dove si trovino quelli che fanno la musica e le parole che si sentono alla radio, ma credo siano addirittura in un altro isolato. Non chiedetemi come funzioni! Quel che so è che la radio occupa decisamente le nostre giornate, anche se la Contessa praticamente non ci fa caso. Credo che sia mio padre quello più appassionato.
Ho scritto molto per il mio secondo giorno, per cui riprenderò domani.
1° marzo.
Questa mattina è cominciata, come sempre, quando mio padre dopo essersi accuratamente vestito è andato in Sala e ha acceso la radio. Noi ragazzi eravamo ancora a letto: Elvira, mia sorella, dormiva addirittura, io non dormivo, ma aspettavo che mia madre finisse di prepararsi. Come sempre il primo a muoversi era mio padre, il quale, oltre ad accendere la radio, aveva il compito di bussare alla camera della Contessa per sentire se avesse delle richieste particolari. Subito dopo bussava alla porta della signorina Anna, la quale era solitamente già pronta a trasferirsi in cucina per preparare le colazioni.
A quel punto mia madre Marcella esce dal nostro bagnetto completamente vestita con la bellissima divisa da cameriera e io dovevo prepararmi. Mia sorella Elvira che ha dieci anni ha la noiosa abitudine di farsi aiutare da me, anche se non sarebbe affatto necessario.
Oltre la Sala, c’è una stanza un po’ più piccola che ha finestre solo verso i cortili e viene chiamata Sala da Pranzo: nelle prime ore del mattino diventava la stanza più importante di tutte. Infatti quando tutti siamo finalmente vestiti, qui mia madre serve le colazioni, che ogni giorno sono un po’ diverse. Bisogna dire che la signorina Anna fa da mangiare molto bene. Questa mattina c’erano piccole bistecche impanate, con marmellata di ribes, caffè e latte e pane croccante.
Questi incontri del mattino sono gli unici in cui ci si trova assieme quasi tutti: la Contessa si siede dalla parte più stretta del tavolo, in quella proprio di fronte si sistema mio padre. Poi c’è sempre il figlio della Contessa con l’uomo che gli spinge la sedia a ruote e naturalmente ci siamo noi ragazzi. Mancano sia mia madre che deve servire e la signorina Anna: le due mangiano in cucina.
Di solito questo incontro è rallegrato da qualche conversazione amichevole: la Contessa vuole far capire di essere sempre in ottimi rapporti con la servitù. Oggi ha chiesto anche a me qualche cosa: “Ho visto che hai cominciato il diario: cosa dice il tuo Aio?”
L’Aio aveva letto la mia frase due sere prima, per cui ho riferito alla Contessa che pareva abbastanza soddisfatto: “Ho cominciato con una sola frase, ma ieri ho scritto tanto e oggi ne farò molte altre. L’Aio ha visto la prima frase e l’ha definita abbastanza ampollosa e didascalica e credo sia una bella soddisfazione!”
“Sei sicuro?” domandò la Contessa.
Ero piuttosto incerto su questo punto, ma dopo qualche esitazione dissi: “Immagino di sì.”
La Contessa non aggiunse altro, se non: “Tra un paio di giorni leggerò volentieri quel che hai scritto.”
Le dissi che non c’era problema, naturalmente.
In queste riunioni per la colazione, il figlio della Contessa non parla mai per motivi probabilmente di salute, ma di solito non diceva nulla nemmeno l’uomo che lo curava. E non gli veniva mai chiesto nulla.
La colazione durava più o meno mezzora: mia madre cominciava servendo la portata principale, assieme ai contorni. Solo alla fine portava il latte e il caffè con cui si terminava ogni mattina. Il pane croccante veniva servito in continuazione, sia con i primi piatti, sia con le bevande. La Contessa gradiva però un paio di biscottini con le bevande: li spezzava e li gettava nel caffelatte, poi li tirava su con un piccolo cucchiaio. A noi non era concesso fare lo stesso. Non ne ho mai capito il motivo. Forse perché i biscotti erano pochi.
2 marzo.
Chiedo scusa per come ho finito il racconto del giorno scorso, ma ieri ho avuto una giornata molto impegnata e non ho avuto più il tempo per scrivere. So che ho interrotto il diario quando si era solo al mattino presto, ma quando dopo aver scritto quelle ultime frasi è cominciato un via vai di cui spero aver oggi il tempo di scrivere. In genere le giornate qua sembrano più o meno sempre uguali, ma invece mi rendo conto che, a parte i fatti di ieri, ancora non ho detto di tantissime cose che invece meriterebbero di essere raccontate.
La prima cosa importante è che anche ieri mattina è venuto su l’Aio a vedere come me la cavassi. Ha detto che gli piaceva il modo in cui raccontavo e di continuare così. Se il suo parere sulla prima frase era un po’ discutibile, per le parole troppo difficili, questo secondo parere credo sia molto soddisfacente. Senza discussioni.
Quindi ho qui subito una risposta a due cose che non sapevo: uno, l’Aio continuerà a venire a trovarmi più o meno tutti i giorni, anche se non faremo più delle vere lezioni. Semplicemente si discuterà di quello che ho scritto, o delle cose che avrò da chiedere. Due, finalmente so che il cosiddetto portone qualche volta viene aperto. L’Aio mi ha promesso di portarmi giù, forse domani, a trovare la signora Adele, che fa il lavoro di portinaia, di cui io non avevo mai sentito parlare. La signora abita in un alloggio che dà sul cortile, ma non sulla strada. La signora Adele ha l’obbligo di tenere pulite le scale, il cortile e i pianerottoli, ma deve anche controllare il portone. C’è un bottone fuori sulla strada, come da noi: chi volesse entrare lo può premere, la signora Adele ne è avvisata come da noi mio padre e quindi ha la responsabilità di aprire e decidere chi può entrare. In alcuni casi deve anche accompagnare i Viaggiatori dall’abitante desiderato.
Ho così saputo che quello che porta la carne è nientemeno che un Viaggiatore! Oltre a essere, come ho detto il signor Gaetano. Mentre la signora del latte abita nella casa vicina e accede al nostro palazzo attraverso una piccola porta costruita nel muro del cortile. La signora in questione ha anche un negozio a piano terra. Mi hanno parlato di commercianti che hanno fatto dei buchi nei muri, per cui tutta una serie di servizi viene fornita loro attraverso quelle pareti sfondate e tutti utilizzano quegli strani passaggi. Non da noi: la Contessa non approverebbe mai un simile danno.
Dopo queste informazioni che erano dovute, perché lasciate in sospeso, completo dicendo che ho chiesto informazioni all’Aio anche sulla radio. Purtroppo l’Aio mi ha detto di non saperne assolutamente niente ed è strano, perché è la prima volta che succede. Se ho ben capito le informazioni in possesso dell’Aio sono parecchie, ma non infinite. Per cui ho intenzione nel prossimo futuro di indagare per mio conto su tutto ciò che l’Aio non sa e vorrei informarmi su cosa bisogna fare per diventare io stesso un Aio: non mi dispiacerebbe insegnare ad altri le cose che so.
Poiché ho interrotto alla colazione il mio racconto, non ho avuto modo di parlare del grande balcone, né dei piccoli balconi. Né della casa che forma un angolo: gli appartamenti (tranne il nostro) sono di due tipi: quelli che hanno balconi sia sulla strada, sia sul cortile; quelli che hanno un solo grande balcone sul cortile. Questo perché la casa è fatta ad angolo, ma non si trova su un angolo dell’isolato. La facciata del nostro palazzo dà sulla strada, la parte posteriore dà su un cortile, ma a destra si allunga un’ala ad angolo retto che disegna il lato destro del cortile. Appoggiata a quest’ala esiste probabilmente una analoga struttura che appartiene al palazzo accanto a destra del nostro, che dovrebbe essere costruito in maniera speculare, ma di cui non so assolutamente nulla. Insomma, noi non vediamo il cortile del palazzo alla nostra destra. Mentre, osservando il palazzo a sinistra, la loro facciata dà sulla strada ed è continuazione logica della nostra facciata, poi hanno un’ala a sinistra che disegna il bordo sinistro del loro cortile. Quindi noi vediamo il cortile del palazzo alla nostra sinistra. Davanti a noi ci sono moltissimi altri palazzi e cortili che fanno parte dell’isolato, anche se so benissimo che non li possiamo vedere tutti quanti e in genere non sono di nostro interesse. In lontananza, al fondo dell’isolato e chissà quanto oltre lo stesso, si vedono delle colline, con su qualche casa: una rossa molto grande che mi dicono essere un ospedale e dietro, in cima alla collina più grande ci sono delle antenne. Credo siano altissime, anche se molto lontane non si direbbero. Mi dicono essere lì per tramettere la radio: l’unica cosa che ha saputo dirmi il mio Aio sull’argomento.
Al contrario degli altri appartamenti, quello della Contessa, cioè il nostro, occupa tutto il quinto piano dell’ala destra e della facciata, quindi dalla parte dei cortili possiede un immenso balcone ad angolo retto: nella parte finale dell’ala di destra ci sono le nostre due stanze. Mia madre tiene sul balcone di fronte alle stanze un mucchio di piante e di fiori, mentre il resto del balcone ne è del tutto privo: la Contessa non ama i vegetali.
Dalla parte della strada ci sono solo due balconi più piccoli e più finestre: una di queste finestre appartiene alla signorina Anna, mentre i due balconi sono uno nella Sala e l’altro nella camera privata della Contessa. Anche se non conosco bene questa parte dell’alloggio perché la maggior parte delle stanze mi è vietata.
Insomma mi rendo conto che tutta questa spiegazione è parecchio confusa ed è per questo che ho voluto fare un piccolo disegno: non credo si capisca proprio tutto, però dovrebbe dare un’idea. Mi pare che le dimensioni siano tutte sbagliate: la nostra casa è troppo grossa rispetto a quella della Contessa che invece è immensa, ma insomma più o meno è così.
Ad ogni modo veniamo a quello che è successo ieri: era importante dare un’idea della disposizione della casa perché quello che è successo poteva succedere solo qui all’ultimo piano.
A un certo punto della mattina avevo cominciato a scrivere, quando è appunto arrivato l’Aio. Sono stato molto contento e gli ho fatto leggere le pagine. Lui mi ha detto che gli piacevano, eccetera. Mi ha spiegato quelle cose che ho detto prima e a quel punto sentiamo delle urla, vere e proprie urla venire dal balcone: era mia sorella Elvira che chiamava mio padre:
“Padre, padre! Vieni subito sul balcone. Presto!”
Tanta era la foga di quella chiamata che, in breve, ci siamo trovati tutti in corsa per raggiungere il balcone: l’Aio è stato forse quello che più si è spaventato, perché non conosce bene Elvira e non sa quanto sia di solito esagerata. Questa volta però devo dire che forse non era esagerata, ma stupita lo doveva essere di sicuro. Mia madre era così sconvolta che addirittura mi spinse da parte per arrivare prima sul balcone. L’ultimo ad arrivare in definitiva fu proprio mio padre, che pure era stato l’unico ad essere chiamato.
La situazione si presentava in questo modo: Elvira stava completamente immobile col braccio destro teso in fuori e il dito che indicava. Mia madre si era immobilizzata su un piede solo e aveva ancora la bocca spalancata come se la domanda, quella che fosse, le si fosse strozzata in gola. Mio padre era l’unico che correva ancora. L’Aio era stato il più rapido ad avvicinarsi a Elvira e la tratteneva per le spalle. Io ero tradizionalmente scettico circa gli urli di Elvira e arrivato sul balcone mi ero appoggiato al muro e stavo a guardare.
Ad ogni modo la scena valeva la pena: in maniera del tutto inaspettata e fino a quel momento mai vista, “galleggiava” nel vuoto davanti al balcone uno strano insieme. Si trattava di un pallone aerostatico piccolo, ma per quell’ambiente impressionantemente grande, a cui era appeso un trespolo che pareva una bicicletta, con i pedali. La “sella” era invece una specie di poltroncina a cui una donna di mezza età era solidamente legata tramite un sistema di cinghie. La donna in questione indossava un casco di cuoio morbido con dei grandissimi occhiali come si racconta usassero i motociclisti dei romanzi di fantasia, che io non ho mai visto naturalmente. Solidale con il trespolo era stato fissato una specie di siluro lungo almeno cinque metri al cui centro c’era una bambina seduta, forse bionda, che spuntava fuori solo con le spalle, anche lei con il casco di cuoio e legatissima al siluro.
Anche se io non avevo mai visto quelle persone e quel diabolico apparecchio, il tutto non doveva essere nuovo per nostro padre, ché infatti fece un rapido cenno di saluto alla donna volante ed entrò in casa. Anche l’Aio non pareva a quel punto troppo stupito. Restò tuttavia a guardare sul posto per osservare quel che sarebbe successo ed così, credo, che gli Aii si documentino.
Mio padre tornò nel giro di qualche secondo con in mano una specie di canna telescopica, che non avevo mai visto e che doveva appartenere a qualche misterioso armadio, in uno sconosciuto angolo della casa. Mio padre si fece largo tra il nostro gruppo rimasto senza parole, facendo dei cenni rassicuranti. Disse:
“Signora Vanessa, buon giorno. L’aspettavo già ieri. È un poco in ritardo. Cosa è successo?”
La signora Vanessa aveva una vocina e si sentiva a stento, ma credo abbia detto: “Abbiamo dovuto fare un bel po’ di strada.” Al che mio padre rispose: “Non è facile fare l’ordinazione, infatti. Forse è arrivata tardi anche quella!”
Mi chiesi che accidenti vendesse la signora. Poi tutto si risolse con molta semplicità: la bambina si contorse all’indietro e raccolse un piccolo involto: “Da oggi il pesce arriverà in questa zona due volte alla settimana. E, con queste nuove macchine, lo possiamo consegnare direttamente il giorno dopo.”
“Il mare è piuttosto lontano, mi dicono…” intervenne mio padre. Non capii se era una domanda o cosa fosse.
“È così,” disse la signora Vanessa. “Ma da oggi disponiamo di veloci dirigibili che percorrono in appena quattro ore la distanza, utilizzando pedalatori da campionato: quattro eliche e venti pedalatori. Una macchina straordinaria, dovrebbe vederla. Viaggiano a grande velocità sfruttando al meglio i venti. Sia di giorno che di notte. Questo fa sì che la nostra offerta sia sempre di pesce freschissimo. Lei, ad esempio ha fatto una specifica richiesta al mediatore?”
Mio padre parve colto di sorpresa. Si schiarì la voce e infine disse: “Non ho fatto richieste particolari: solo del pesce. Non sapevo si potesse scegliere. Il mediatore non me lo ha detto”
“In genere è possibile fare una richiesta,” disse la signora che era riuscita a venire vicinissimo alla ringhiera. Intanto mio padre stava posizionando il bastone telescopico, in cima al quale era stata fissata una robusta cordicella. La signora proseguì senza perdere d’occhio le operazioni precise di mio padre. Mi colpì il fatto che l’Aio fosse rimasto alle spalle di Elvira e si godesse la scena senza aiutare, né intervenire in alcun modo.
La navicella dell’aerostato e quella specie di bicicletta erano adesso a non più di tre metri dal balcone, ma il pallone era grande quasi come il cortile e quindi molto ingombrante. La signora Vanessa spingeva un po’ avanti, un po’ indietro sui pedali che azionavano una doppia elica posteriore, dimostrando una acquisita abilità di manovra. Si notava che il pallone era ben gonfio, eppure era del tutto aperto nella parte inferiore: la forma era più o meno a pera e il pallone era fatto a strisce di un tessuto che mi ricordava la tela cerata. Una striscia bianca e una rossa, alternate. Di sotto, alla sua imboccatura più stretta, avevano fissato una vera e propria stufa di ceramica, simile a quella che era nel salotto della Contessa. Notai che la bambina attizzava il fuoco: mentre si svolgeva tutto il dialogo la bambina prese infatti un pezzo di legno da sotto i piedi, si contorse opportunamente, aprì uno sportellino della stufa e lo gettò dentro. Con un attizzatoio agitò un attimo le braci, poi richiuse lo sportello. A quel punto non mi era chiaro a cosa servisse quella stufa, se non per tenere al caldo le due donne!
La signora Vanessa intanto proseguì: “Io ho portato ottime sardine, ma potrà anche ordinare del pesce in particolare. Oggi, per esempio, c’erano anche nasello e donzelle. Tutto a prezzi davvero imbattibili.”
“Già,” disse mio padre. Nessuno di noi era in grado di concludere quel tipo di contrattazione. “Quanto saranno? Due etti?”
“Eh! Altro che. Sono due etti e mezzo, caro signore. Un cibo da re. O almeno da Contessa!”
Risero.
Il pacchetto venne legato con attenzione alla cordicella, seguendo gesti a lungo provati. Mio padre ritirò il bastone telescopico con movimenti analoghi a quelli usati per aprirlo, ma evidentemente opposti. Nel breve giro di qualche minuto ebbe tra le mani il prezioso involto e lo svolse con la dovuta sapienza. Diede un’occhiata e chiamò mia madre: “Marcella, prendi un contenitore di caolino, ti prego. Mettiamo in salvo questa squisitezza!”
Dopo pochi secondi mia madre si avvicinò di corsa e fu allora che per la prima volta intravvidi i piccoli pesci . Mia madre li prese uno a uno stendendoli dentro un piatto bianco con un coperchio e poi portò tutto in casa. Non era frequente che a casa della Contessa cuocessero i pesci. Per quel che so io, non era frequente in nessuna casa: erano molto costosi, mi aveva spiegato l’Aio e deperivano facilmente. Nel mio caso era la primissima volta che li vedevo. Se mio padre aveva avuto altre occasioni di mangiare pesci, come sembrava possibile, doveva essere successo almeno dieci, o dodici anni prima, perché io non ne sapevo niente.
La signora Vanessa pedalò all’indietro portandosi a distanza più agevole, dove il pallone non rischiava di toccare contro il tetto. Non si sentiva bene quello che adesso si dicevano Vanessa e mio Padre, ma forse perché, per vedere meglio, io ero un po’ laterale, sul balcone della Contessa invece che su quello della nostra parte. Come ho detto era comunque la prima volta che vedevo una consegna fatta col pallone.
La bambina buttò dentro un altro ciocco e la donna però la riprese: “Astris, non esagerare! La legna costa. Dovrebbe bastare per un’altra oretta adesso.” Mio padre sorrise: “I bambini! Anche i miei, sa. Vogliono far vedere che si impegnano.”
La donna alzò gli occhi per guardare il pallone: “Già,” disse. “Però non deve esserci troppa aria calda dentro al pallone altrimenti si tende e si trappa. È già successo e mio marito è dovuto venire a cercarmi quando non mi ha visto tornare al Riposo del Viaggiatore.” Capii che la stufa non serviva a scaldare le donne, anche se non capii a cosa servisse l’aria calda, ma lo avrei chiesto all’Aio. In quel momento però anche lui sembrava troppo preso da quello che stava succedendo per andargli a parlare. Ad ogni modo mi avvicinai a lui ed Elvira. Magari avrei avuto l’occasione di fare qualche domanda.
Era anche la prima volta che sentivo parlare del Riposo del Viaggiatore, di cui non avevo alcuna nozione e forse non l’aveva nemmeno l’Aio, né tanto meno mio padre. Feci per domandarlo all’Aio, ma lui mi fece cenno di tacere, mettendo un dito sul naso. Infatti, era un momento troppo interessante per intervenire.
Capii però, definitivamente, che anche la signora Vanessa era un Viaggiatore. Di un tipo tuttavia molto speciale.
Mio padre tentennò un momento: doveva fare la trattativa per il pagamento, ma dava l’impressione di non essere abituato a quella situazione. Come ho detto non succedeva molto spesso che un Viaggiatore arrivasse in quel modo. Ma invece era tutta una finta e me ne sarei reso meglio conto tra poco. Mio padre disse: “Possiamo parlare del pagamento, signora Vanessa?”
La donna dava invece l’impressione di essere perfettamente a suo agio: “Ma si capisce signor Pedro! Come ho detto i nostri prezzi sono ridicoli. Vedrà che si troverà benissimo. So che in questo palazzo abita un gioielliere, mi sbaglio?”
“Non si sbaglia, signora Vanessa. Tuttavia la Contessa non ha molte ragioni di contattarlo.”
“È certamente così. Però immagino che l’uomo darà una mercede per occupare una parte del palazzo che appartiene alla Contessa.”
Mio padre pareva decisamente imbarazzato: era abbastanza antipatico che i Viaggiatori sapessero tante cose sulla Contessa. “Già la volta scorsa, quando è stato? Parecchi anni fa, mi ha messo in grosso imbarazzo con questa storia, signora. Prima di tutto la Contessa non discute con nessuno i suoi affari. Seconda cosa tendiamo a patteggiare con il gioielliere ogni mese. A proposito,” disse mio padre come colpito da un’idea nuova. “Al momento mi interesso io personalmente della cosa, ma se ci dovessimo vedere il mese prossimo, tutta la contabilità sarà nelle mani di mio figlio…” mi indicò sorridendo. Era decisamente orgoglioso e pensai: ‘speriamo di non deluderlo troppo!’
Poi proseguì: “Comunque, quando parla di gioielliere, lei sta pensando chiaramente ai gioielli. Le devo dire, ma credo di averlo già fatto la volta scorsa, che tendiamo a non accettare quel tipo di pagamento dai nostri inquilini. Non sto qui a dirle le ragioni della Contessa, ma sappia che è così.” Mio padre si immedesimava moltissimo negli interessi della Contessa, sicché i suoi inquilini, spesso diventavano i nostri inquilini. Ad ogni modo conoscevo benissimo le misteriose ragioni della Contessa: eravamo pieni di gioielli e quindi in genere cercavamo di ricevere a pagamento delle pigioni della carne, o della verdura, o cose utili insomma.
Quindi se la signora Vanessa aveva l’intenzione di chiedere delle pietre preziose in cambio dei pesci, questo non era affatto un problema: come ho detto ne avevamo a iosa e non sapevamo quasi come sbarazzarcene. Capivo però che mio padre stesse contrattando. Cercava di far abbassare il prezzo. Se la signora Vanessa si fosse convinta che non avevamo gioielli in casa, si sarebbe accontentata di un numero inferiore di diamanti, o spille d’oro.
Questa storia dei diamanti me l’aveva già spiegata l’Aio: succedeva che per i Viaggiatori c’erano dei posti dette “Banche” che li scambiavano offrendo buonissimi vantaggi per questi ammennicoli. Non so come l’Aio sapesse di questo, ma ormai ho capito che è molto preparato. Gli lanciai uno sguardo per fargli capire che ricordavo la sua lezione, ma non mi diede l’impressione di aver capito.
Ad ogni modo, è vero che la Contessa non riceve volentieri gioielli come pagamento, ma credo che dal gioielliere la signora Contessa accetti proprio un baratto in gioielli e mai altro. Dato che i Viaggiatori li apprezzano così tanto, a noi servono appunto per acquistare beni di lusso, come i pesci, fornendo ai viaggiatori articoli che essi apprezzano e a noi non servono.
Ci fu un silenzio abbastanza lungo tra la donna sul pallone volante e mio padre. Alla fine fu la signora Vanessa a parlare. “Che cosa può darmi in cambio allora, signor Pedro?”
“No, no,” si precipitò a smentirsi mio padre. “Se vuole gioielli, possiamo trattare, cara signora Vanessa. Però, le devo dire, che non abbiamo una grande disponibilità di questi articoli. Ecco. Del resto capisco bene come lei non possa essere interessata a un buon taglio di stoffa (pagamento da parte del sarto che aveva un negozio sulla strada), né da una forma di caprino (la lattaia, accanto al sarto).”
La signora Vanessa ci pensò su: “Sono cose interessanti, certo. Ma se avesse una bella medaglietta con San Cristoforo… D’oro, naturalmente!” Mio padre fece benissimo la sua parte. Scosse il capo, poi come se gli costasse moltissimo: “Abbiamo qualcosa. E solo perché ormai abbiamo portato in casa il pesce. In verità è un oggetto che mi è personalmente molto caro: una perla nera incastonata in uno zaffiro azzurro e purissimo.” Ne avevamo almeno dieci! Al gioielliere evidentemente piaceva incastonare perle nere negli zaffiri, nelle acquemarine, ma anche nei topazi e nelle corniole e ne avevamo una buona quantità.
“Uh!” disse la signora. Poi: “La posso vedere?” Al contrario di quello che mi era sembrato pochi istanti prima, capii a quel punto che mio padre era ben preparato ed era stato previdente al punto di portare con sé l’oggetto fin dall’inizio. Avrei dovuto lasciar passare un bel po’ prima di diventar abile come mio padre. “Guardi, lo porto sempre addosso: è una perla infilata in una piccola collana di meravigliosa plastica nera e non me ne separo mai.” Infatti l’aveva al collo: un tubicino di plastica morbida, più o meno nera, forse più blu scuro, da cui pendeva questa perla rotonda, incastonata, molto bella, ma del tutto inutile. Lo stupido oggetto venne appeso al solito bastone telescopico e la signora Vanessa pedalò un po’ per avvicinarsi. Cosa che le riuscì benissimo, arrivò fin troppo vicina al balcone, tradendo decisamente le sue emozioni di fronte a quel gioiello. Quando smise di pedalare il pallone oscillò un poco e si allontanò automaticamente dal balcone. La signora pareva persa nell’osservazione. Evidentemente lo trovava molto bello. Era evidente che quell’oggetto la emozionasse. Io ne avevo visto così tanti che non provavo più nulla, eppure dovevano essere degli oggetti desiderabili: forse non tutti i palazzi ospitavano un gioielliere!
Mio padre disse: “Tuttavia è un oggetto che mi è troppo caro, signora Vanessa! Ho sentito che ha dell’altro pesce… Credo che potrei separarmi dell’oggetto solo se aggiungesse qualche altra sardina, cara signora.”
Ci fu un momento di imbarazzo: la signora Vanessa pedalava un po’ avanti, un po’ indietro per tenere la posizione, ma aveva in mano il gioiello. Se avesse voluto fuggire con quello, non l’avremmo potuta raggiungere in alcun modo. Però la signora Vanessa non era quel tipo di Viaggiatore. Disse: “Un altro etto di sardine basterebbero?”
Il valore delle sardine, mi hanno detto, è altissimo. Quello del gioiello, come tutti sanno, è bassissimo. Almeno questo è quel che si dice qui da noi. Mio padre quasi pianse: “Va bene signora. Mi dispiace separarmi da quell’oggetto. Ma la Casa ha grande desiderio di quei pesci preziosi. I miei figli. La Contessa. Con altri due etti di pesce le lascio il gioiello. Mi creda è un dolore personale.”
La signora Vanessa era pronta a una cessione superiore, credo. Infatti sorrise da una guancia all’altra e disse: “Va bene. Non pianga la prego.” Estrasse un pacchetto già preparato a forma di cartoccio, in carta gialla e lo chiuse in un piccolo sacchetto di stoffa. Si avvicinò di nuovo e lo appese alla cima della stecca che mio padre prontamente aveva allungato verso la mongolfiera e aggiunse: “Mi rimandi indietro il sacchetto, per favore.”
“Naturalmente, naturalmente,” rispose mio padre. Aprì il piccolo sacchetto senza staccarlo dalla stecca, estrasse il cartoccio di carta gialla e me lo diede in mano: fu allora che ebbi modo di vedere bene i pesci! Erano lunghi meno di un palmo, il dorso grigio scuro, la pancia argentata. Non hanno collo. Belli a modo loro. Diedi il cartoccio a mia sorella che lo portò dentro per mia madre che avrebbe preparato i piatti. Doveva aver già cominciato, perché dalla cucina veniva un odore del tutto nuovo, non completamente gradevole, ma così strano da far venir voglia di assaggiarlo: mia madre li stava friggendo. I pesci. L’Aio era sempre lì, ma completamente perso nella scena che stava osservando.
Mio padre rimandò il sacchetto alla signora Vanessa che subito pedalò indietro. Disse alla bambina: “Sei ben legata, Astris?” la bambina tirò su e giù il mento in segno affermativo. Pedalò all’indietro molto velocemente e il pallone cominciò a muoversi sensibilmente, allontanandosi. La signora Vanessa girò alla sua destra e si allontanò verso il centro dell’isolato, poi subito a sinistra dove i tetti erano leggermente più bassi e scomparve del tutto alla vista. Non so come potesse aumentare o diminuire l’altezza di volo e lo domandai all’Aio che era rimasto immobile al suo posto. Lui mi guardò: “È una cosa un po’ complicata. Prometto di spiegartelo la prossima volta. Ma ora debbo andare.”
Ci restai male. Pensavo che l’Aio sarebbe rimasto per mangiare i pesci. Tuttavia non mi permisi di insistere. Se mio padre, o la Contessa non glielo avevano chiesto, allora non poteva succedere. Così l’Aio si allontanò, uscì dalla porta verso le scale e noi andammo finalmente in sala da pranzo.
Franco Giambalvo
Appassionato di fantascienza da sempre, ma ha scoperto di esserlo in quarta elementare quando lo hanno portato a vedere "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin: era il 1953 e avrebbe compiuto nove anni in quell'autunno. In seguito ha potuto scrivere con l'aiuto di Vittorio Curtoni e ha pubblicato un romanzo, del tutto ignorato, dagli Editori e dai lettori. Ma non si lamenta troppo: ama la fantascienza!