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COME SIAMO E COME SEMPRE SAREMO

COME SIAMO E COME SEMPRE SAREMO
Questo articolo sui Ricordi è stato scritto da Renato Pestriniero nel 2002 e purtroppo sono menzionati personaggi del mondo fantascientifico che non sono più tra noi.

 

Da tempo appaiono sulle pagine di Nova Sf* degli strani lampeggiamenti mnemonici o, per dirla più tecnicamente, dei flashback. Sono testimonianze di addetti ai lavori che raccontano quello che succedeva nei cosiddetti bei tempi andati, cioè da quando la fantascienza cominciò a far capolino in Italia.

Queste attestazioni, che potrebbero essere definite anche nostalgie, confessioni, sfoghi, rivalse o rivincite, peccati di gioventù (a volte ripetuti anche quando la gioventù se n’era andata da lunga pezza)… insomma tutto il materiale della serie ‘come eravamo’, sembra venga accolto con favore e interesse da parte dei lettori.

È abbastanza intuibile: se qualcosa tira, tutti vogliono saperne di più, vogliono indagare sui meccanismi, sui perché e sui percome fino al pettegolezzo. Figurarsi se si tratta di cosa che esiste dalla bellezza di mezzo secolo! Di peculiarità da raccontare ce ne sono a carrettate.

L’interesse dimostrato riguarda non solo i neofiti ma anche coloro che avrebbero molto meno da scoprire in quanto quei tempi li hanno vissuti: c’è sempre qualche situazione non capita bene, nebulosità, voci vaganti di seconda mano se non di terza o di quarta, e quindi leggere che certe stranezze in effetti non erano per nulla strane o che certi voli pindarici avevano radici di grossolana umanità, destano attese che a volte possono essere, non dico morbose (lo dico?), ma senz’altro attraenti.

A dire che sono passati cinquant’anni sembra impossibile, eppure le prove che ci siamo passati ci sono eccome, basta scartabellare nella polvere e leggere, oppure aprire il baule, quello che contiene la materia grigia.

Dal mio baule è saltato fuori un particolare rimasto tranquillo a dormire sia perché ormai sbiadito dal tempo, sia perché, se preso da solo, di poca o nessuna importanza. Ma a seguito di una concomitanza di fattori, ecco che, novello dracula, si è rifatto vivo con le tenebre del 25 maggio, e mi ha indotto a pormi una domanda banale ma nello stesso tempo grande come un’insegna luminosa tipo Las Vegas. La domanda è: ma adesso, come siamo?

La concomitanza che ha scatenato tutta la faccenda è cominciata con un invito a partecipare a una manifestazione dove, tra tante altre iniziative culturali, venivano onorati i cinquant’anni della fantascienza italiana. La manifestazione si chiamava Bookmark, era alla quarta edizione, si teneva a Potenza e vi partecipavano nomi di tutto rispetto.

Quando ricevetti la proposta di partecipazione dissi subito di sì senza esitazione, senza pensare che Potenza non è a due passi da Venezia, e che il mio intervento si limitava a un’oretta in tutto. Sorvolai anche sul fatto che, dettomi con commovente imbarazzo, non ci sarebbe stato nemmeno un gettone di presenza ma solo il rimborso delle spese. Mi era bastato sentire che in un’iniziativa culturale ‘laica’ venivano commemorati i cinquant’anni della fantascienza italiana. Insomma, per la famosa ricorrenza mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo.

Come mai tanto entusiasmo? Perché, ma forse mi sbaglio, mi sembra che questo avvenimento non sia stato sentito nella misura dovuta. In altre parole, ho l’impressione che a certi soggetti di primo piano, interessati alla cosa ma al di fuori del nostro recinto di appassionati, non gliene abbia fregato un bel niente. E mi sembra che pure nell’ambito degli addetti ai lavori non ci sia stato quel fremito (ma un palpito sarebbe andato bene lo stesso) che ritenevo ovvio e naturale.

Ad esempio, dato che per il fiat lux si è preso il 1952, anno in cui venne alla luce Urania, e poiché Urania era ed è tuttora creatura mondadoriana, ho osato pensare che quel fremito o quel palpito potessero serpeggiare almeno dalle parti di Segrate, che ne so, una bicchierata sotto le arcate di Niemeyer avrebbe certamente attirato qualche telecamera, ne avrebbe parlato qualche testata che conta e, si sa come vanno queste cose, si verifica l’effetto cascata, e allora esperti di costume, presenzialisti, tuttologi, avrebbero voluto dire ognuno la sua con intaccabile sicurezza, cognizione di causa e profondità di concetti come avessero vissuto sulla pelle il movimento e soffiato cinquanta volte sulle candeline, in realtà senza sapere niente e sparacchiando abominevoli cazzate.

Però ne avrebbero parlato. E tanti sarebbero venuti a sapere che da cinquant’anni esistono individui che, anziché far lavorare meningi e fantasia divertendosi a distruggere il mondo in tutti i modi immaginabili, si sono divertiti a speculare sulle sorti dell’uomo, dell’unico pianeta che ha a disposizione e su un mucchio di altre cose e di altri mondi possibili.

Torniamo all’invito ricevuto. Messo giù il telefono e realizzata meglio la cosa, cominciò a farsi strada nella mia mente una certa inquietudine. Dovetti subito scartare l’aereo perché, mi dissero, la posizione geografica non valeva la candela e, in ogni caso, sul volo per Napoli di quel giorno non c’era posto. Non potevo contare sull’automobile perché l’avevo venduta nel lasciare le terre ferme per il definitivo ritorno sulle lagune. Quindi non rimaneva che il treno.

All’ufficio informazioni delle ferrovie, la prima domanda che mi fecero fu: quale Potenza? Venni così a sapere che di Potenze ce ne sono tre, una inferiore, una superiore e una di mezzo. Quella che mi interessava era la inferiore, che in realtà si trova sulla cima a un’altezza di circa novecento metri. Ma questo non ha molta importanza, ha importanza il fatto che il mio intervento era alle sette di sera del 24 maggio e impegni improrogabili mi impedivano di partire il giorno prima. Dovevo quindi trovare il modo di partire quello stesso giorno e, sempre per i suddetti impegni, tornare già il giorno successivo.

La mattina del 24 la sveglia suonò alle quattro e mezza.

Avevo prenotato sull’eurostar un posto singolo, non quelli abbinati a due a due che si guardano, libero così, tra un pisolo e l’altro, di andare avanti con il mio lavoro usufruendo del tavolinetto estraibile.

Ci fu il cambio a Bologna. Poi ci fu il cambio a Foggia. Poi arrivai a Potenza Inferiore dove l’efficientissima Raffella Aliano mi aspettava con la sua Pandina. Erano le diciotto quando scesi al gazebo nella centrale piazza M.Pagano e incontrai Gianfranco de Turris nella veste di relatore e intervistatore. Il tema era ‘Fantascienza: i miei primi 50 anni in Italia’.

Erano passate tredici ore e mezza da quando la sveglia aveva suonato.

Nell’oretta a nostra disposizione parlammo di cinquant’anni di fantascienza.

L’indomani mattina, l’autobus che faceva funzioni di treno partiva da Potenza Inferiore alle undici e venti. L’arrivo a Venezia era previsto per le ventuno e ventisette. Il funzionario di Trenitalia mi aveva consigliato, per il tragitto di ritorno, di non fare sosta a Battipaglia ma a Salerno. Meglio stazioni grandi, disse, danno più affidamento. Non essendo in grado di approfondire la cosa, mi ero abbandonato agli intrecci cronoferroviari che apparivano sul suo monitor.

A Salerno l’altoparlante annunciò che l’intercity per Roma aveva un ritardo di venti minuti. Io potevo contare su un intervallo teorico di trentatré minuti per la coincidenza per Venezia. Mi rimanevano tredici minuti. Dopo un po’ appresi dal display che il ritardo si era ridotto a dieci minuti. Bene, ce l’avrei fatta senz’altro. Passati i dieci minuti, sul display, al posto del dieci, apparve nuovamente il venti. L’intercity arrivò con un ritardo di quasi mezz’ora.

Quando venne il controllore a bucare il biglietto, chiesi se ci fosse possibilità di recupero. Non del tutto ma in buona parte sì, disse. Quando venne un secondo controllore chiesi com’era la situazione (mancava meno di un’ora per arrivare a Roma). Quando ce l’ha il treno? Chiese il controllore. Alle sedici e cinquantacinque, confessai trepido. Fece una smorfia. Se ce la fa dovrà prenderlo al volo, fu la sentenza.

Arrivammo a Termini a tempo scaduto ma tentai. Dovevo però sapere su che cavolo di binario si trovava il treno, e Roma Termini non è Busa di Vigonza. Mentre, incastrato nella folla del sottopassaggio, sbattevo contro valige a ruote, carrelli e borsoni da extracomunitario per sbucare al binario sedici, udii un fischio. Nel momento in cui uscii dal sottopassaggio a riveder le stelle sotto forma di eurostar, la sua linea affusolata scivolava verso Venezia. C’era gente che salutava dalla banchina. Per non fare la figura del pirla mi misi a salutare anch’io, poi cercai un tabellone per vedere quanto avrei dovuto attendere per la prossima partenza. Due ore esatte. Bene. Mi misi in fila nella sezione today departures e contai quante persone c’erano davanti a me. Erano trentasette, avvoltolate in un serpentone ripiegato quattro volte su se stesso lungo i nastri di percorso obbligato. Ma avevo la bellezza di due ore, avrei fatto in tempo a prendermi pure un trancio di margherita e una cocacola fresca.

Gli sportelli erano quattro. Dopo un paio di minuti diventarono tre perché uno degli addetti si alzò, mise il cartello closed e non si fece più vedere. Arrivato a uno dei tre sportelli rimasti, chiesi il cambio di eurostar, possibilmente con posto singolo, così avrei continuato in pace il mio lavoro senza che nessuno sbirciasse su quello che stavo scrivendo.

Con voce piatta l’uomo dichiarò, guardando il monitor, che non solo non c’era il posto singolo ma non c’era posto per niente. Tutto completo. E io come facevo che non c’era nient’altro in serata? Chieda al capotreno, mi disse, può darsi che qualcosa scappi. Avanti un altro.

Un eurostar è piuttosto lungo. Lo percorsi tutto, ancora vuoto e silenzioso, ma non trovai nessuno. Tornato alla radice della banchina, due ferrovieri se la stavano raccontando. Cominciai a spiegare il problema. Uno dei due non rispose, l’altro mi interruppe: è inutile che lo spieghi a me, io sono il macchinista, deve chiedere al capotreno. E dove lo trovo? Questo non lo so, provi a venire una ventina di minuti prima della partenza.

Dovevo trovare una soluzione perché se perdevo quella possibilità mi sarei dovuto fermare a Roma fino alla mattina dopo, e io dovevo assolutamente essere a Venezia. Tornai al tabellone. C’era un eurostar che arrivava fino a Vicenza. Sarebbe partito dopo sette minuti. Cambiare il biglietto nemmeno a pensarci. Di corsa alla banchina tre. Una giovane ferroviaria aveva un foglio in mano e quattro uomini intorno. Due se ne andarono mentre mi avvicinavo di gran carriera. Sentii uno dei due rimasti chiedere se c’era un posto libero. La ferroviera consultò il foglio, disse sì e segnò una croce su una casellina. L’uomo se ne andò tutto contento. L’altro, quello prima di me, chiese se era rimasto ancora qualcosa. Solo due posti, quale voleva? Arrivò un giovane trafelato e si mise di fronte alla ferroviera come se io fossi stato invisibile. Ormai la situazione era chiara e drammatica. Era rimasto un solo posto ed eravamo in due. Il giovane arrivato dopo di me cominciò a parlare prima ancora che la ferroviera facesse l’altra croce sulla casellina. Era uno di quei momenti in cui bisogna mettere da parte il fair play e tirar fuori la bestia che è in noi. Misi fisicamente da parte il giovane e conquistai il posto. Era fatta. Salii. Il treno partì.

Aspettai che mi passasse il fiatone, poi, finalmente con l’animo in pace, tirai fuori carta e penna e tentai di correggere certi testi che avevo portato con me. Ma non mi fu possibile, ossessionato dall’interesse del mio vicino per quanto stavo facendo e dall’incessante trillare di telefonini e scambio di fatti personali di questo homo cellularis che non si rende conto dell’ignobile violenza che fa a se stesso e al prossimo nel trattare in pubblico e a voce alta le proprie faccende, dal classico butta la pasta all’ultimo atto in fatto di corna, il tutto alla faccia del signor Rodotà e della sua privacy del cazzo, con Echelon e i suoi fratelli che ti girano sulla testa per controllare perfino la marca di mutande che usi.

Eliminai scrittura e lettura, incapace di concentrazione, e cercai di dormire.

Arrivai a Vicenza alle ventidue e cinquantatré. Biglietteria ormai chiusa. Prossima partenza per Venezia entro cinque minuti. Perfetto. Ma la banchina appariva stranamente vuota. Il display ridacchiava un ritardo di trenta minuti. Mi accorsi con sorpresa di non provare più disappunto, quindi mi limitai a sedere sulla panchina e ad aspettare. Ormai erano praticamente due giorni che stavo seduto, sdraiato, comunque fermo.

Passati i trenta minuti, il display scattò con un ghigno sui quaranta. Continuai ad aspettare. Pensavo ai cinquant’anni di fantascienza italiana, a chi me l’aveva fatto fare di dire sì, a quante altre volte mi ero trovato in situazioni di disagio per seguire il sogno, per non essere capace di dire no, contaminato da quel maledetto virus alieno che nessuno è ancora stato in grado di rintracciare e che non riusciva a lasciarmi. Poi mi affiorò alla mente (eccolo il ricordo sbiadito resuscitato e uscito dal mio baule come dracula!) lo scenario di quella volta che ero andato a Roma per ritirare una medaglietta vinta in un fantomatico premio Trofeo delle Nazioni al quale avevo partecipato con un racconto di fantascienza e mi ero beccato una segnalazione. Erano gli anni settanta del secolo scorso, e quella medaglietta mi era costata un viaggio Venezia/Roma/Venezia nello stesso giorno. A quel tempo ero giovane, ma adesso che sono vecchio perché continuo a fare queste cose? Avessi almeno un ritorno economico.

Fu a questo punto che pensai a ‘come siamo’ piuttosto che a ‘come eravamo’. Perché raccontare di tempi eroici nel pieno della giovinezza è bello e pure facile, ogni fatto avvolto nell’entusiasmo, nell’impegno, nella lotta per imporre la Verità. Ma adesso? Cos’è che ci spinge a imbarcarci in avventure di questo genere?

Uso il plurale perché non sono certo il solo a non essermi infilato le pantofole. Penso per esempio a Ivo Prandin che, dopo una lunga parentesi di silenzio, beatamente in pensione, torna a nuova vita con immutato entusiasmo, torna a interessarsi attivamente del movimento, torna a scrivere. Penso a Carlo della Corte che, seppure da dietro le quinte, la fantascienza non l’aveva abbandonata mai, e sulla soglia dei settant’anni mi propone di scrivere insieme Cronache dell’arcipelago e si mette alla ricerca di un editore mainstream dato che lui era noto soprattutto come scrittore mainstream. Lo trova, e ancora oggi mi chiedo perché quell’editore ha detto sì dal momento che, una volta stampato il libro, l’ha trattato come se fosse un ingombrante sacco della spazzatura. Si beccò pure una denuncia da parte dell’autore del quadro riprodotto sulla copertina al quale, ignorando i nostri suggerimenti, si era ben guardato dal chiedere il permesso di riproduzione.

Carlo ed io ci facemmo un mazzo così per quel libro, non guadagnammo una lira, il libro non fu distribuito, e per poco non ci siamo trovati in tribunale.

Penso a Vanni Mongini che, anche lui dopo tanti anni silenziosi, torna di prepotenza in campo, magari incazzato contro questo o quello ma anche lui incapace di liberarsi dal maledetto virus.

Penso a Lino Aldani. Lui pure, dopo lungo silenzio di penna (perché come co-direttore di Futuro Europa a fianco di Ugo Malaguti non ha mai smesso di darsi da fare), l’ha ripresa in mano per proporre (me l’ha detto l’uccellino) lavori nuovi, con immutato impegno, tra un salame e un bicchiere di quello buono in quel di San Cipriano Po (c’è qualcuno che si ricorda di un certo ‘pavesismo’?)

Penso a Giuseppe Festino, pictor optimus, tornato alla grande, imperterrito nell’usare i suoi magici pennini in dispregio dell’algido aerografo e dell’asettica computer graphic.

Penso a Vittorio (Vic) Curtoni, che da qualche anno ha ripreso a imperversare sulle pagine e sulla tavole imbandite con impeto ancora maggiore, mantenendo inalterato sia il sacro fuoco che l’ha reso celebre che il fascino sanguigno delle origini…

A proposito di fascino – e a proposito di cinquantenario – credo sia arrivato il momento di far conoscere a quei due o tre che ancora non lo sanno, il progetto che da chissà quanto tempo abbiamo studiato Vittorio ed io. Questo progetto, rimasto per lunghi anni segreto financo alle nostre rispettive mogli, prevede di mettere al mondo un figlio. Il fatto che non si sia ancora verificato il lieto evento dipende dal non aver ancora deciso… come dire, la divisione dei compiti nella fase di concepimento. Ma adesso le speranze di coronare il nostro progetto si stanno realizzando. Il progresso lavora per noi, la genetica ci offrirà la grande occasione. Vittorio, resisti! Non lasciarti tentare da questo brutto mondo, rimaniamoci nei secoli fedeli, le magnifiche sorti genetiche e progressive ci permetteranno finalmente di realizzare il nostro sogno…

Ecco come siamo.

Renato Pestriniero
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Renato Pestriniero, veneziano, sposato, una figlia. Fino al 1988 capo reparto presso la filiale veneziana di multinazionale svizzera. Dal suo racconto “Una notte di 21 ore” il regista Mario Bava ha tratto il film “Terrore nello spazio.” Esperienze televisive, radiofoniche, fotografiche e figurative.

1 Commento

  1. Sergio Giuffrida

    Renato più che un ricordo è un piccolo racconto ovviamente di fantascienza… Per il treno mi viene in mente che una volta di ritorno a Milano proprio da Roma dove avevo avuto un incontro per una mostra con Alex Voglino avevo perso anch’io la partenza (in realtà lo avevano cancellato) e così sono salito sul successivo e mi sono piazzato al bar (ahimè senza sedie ma con tavolini alti) dove tra un caffè un toast e una cocacola (e un po’ di stanchezza accumulata, gli anni passano per tutti…) sono al fine arrivato a Milano seppur con ritardo di quasi mezzora e quindi giusto al pelo per non poter chiedere il famoso rimborso che ai tempi c’era ma solo se si superava la mezz’ora fatidica di ritardo…

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