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L’atelier del signor Qshan

L’atelier del signor Qshan

Il Racconto della Domenica

L’atelier del signor Qshan è un racconto che Mirco Goldoni ci propone dopo aver prodotto diversi Twincipit e racconti da Twincipit. Ci è sembrato un racconto davvero fresco e una fantasia piacevole da proporre ai nostri lettori.

Prima di sfociare nel tranquillo Allawn, le limpide e tortuose acque dell’Azraq formano tre imponenti e ampie anse che, viste dall’alto, cingono la piccola cittadina di Taj di un’azzurra corona.

Mentre l’area attorno è brulla e spoglia, Taj sorge nella zona in cui l’apporto di acqua e terreno fertile del fiume consentono la crescita di una rigogliosa vegetazione. I suoi alberi ad alto fusto attenuano i potenti raggi solari rendendo piacevole passeggiare nelle sue strette vie mentre i rigogliosi cespugli fioriti le danno un’apparenza allegra e vivace.

Pur essendo unica in questa regione, non è l’aspetto ambientale che rende Taj famosa in tutto il mondo, bensì la presenza dell’atelier di pittura del signor Qshan.

Qshan non ha mai fatto nulla per raggiungere questa fama, ha semplicemente preteso da tutti i suoi allievi una perfezione maniacale nel rappresentare ciò che vedevano. I quadri dei suoi migliori discepoli sono ricercati ovunque cosicché la fila per accedere al suo laboratorio è lunga quanto la sua bianca barba.

Con la sua inseparabile pipa e il suo buffo berretto a tre punte, si stava aggirando nell’ampio salone osservando l’operato dei propri allievi, consigliandoli e richiamandoli, ove fosse necessario, con il suo fare pacato.

Il salone aveva tre ampie vetrate che consentivano agli allievi di usufruire della migliore luce possibile. «La luce – soleva ripetere il maestro – è viva. È lei che anima gli oggetti dando loro un aspetto gioioso, triste o pensieroso a seconda della sua intensità. Senza di essa saremmo morti. Rispettatela sempre, così come dovete rispettare ciò che i vostri occhi grazie a essa vedono e ammirano».

Poi c’era il giovane Berq’as.

Lo aveva accettato al proprio laboratorio per esaudire un desiderio del padre che, sul letto di morte, gli aveva chiesto questo ultimo grande favore, ma se ne era ben presto pentito. Berq’as aveva talento, possedeva una pennellata morbida e decisa, giocava a proprio piacimento con i chiaroscuri, le ombre e la prospettiva, ma non era realistico. Le sue opere contenevano sempre dei dettagli improbabili, assurdi.

Raccogliendo tutta la propria pazienza, Qshan si fermò alle spalle del ragazzo osservandone il dipinto. La tela riproduceva un fitto bosco che ricordava molto quello all’ingresso di Taj: i tronchi degli alberi erano perfettamente definiti, tanto da poterli toccare, le foglie delle loro fronde sembravano muoversi di una brezza impercettibile e ci si aspettava, da un momento all’altro, veder spuntare dal loro interno un uccello.

Poi, quell’assurda palla in cielo.

«Cosa sarebbe quella?»
«È la luna, maestro».
«La cosa?»

«Un satellite che gira attorno al nostro pianeta, raccoglie, accudisce e soddisfa tutti i nostri desideri più intimi. L’ho chiamata Luna: luce riflessa. Maestro, lei ci ha sempre insegnato a rispettare la luce, io le ho voluto dare forma».

«Ma vi ho anche sempre detto di riprodurre fedelmente ciò che vedete. Le vostre opere devono rispecchiare questo bellissimo mondo, non devono storpiarlo con la vostra fantasia» ribatté paziente l’insegnante.

«Ma io la vedo! È lassù, alta nel cielo e lo rischiara».

«Vieni con me, Berq’as». L’anziano maestro prese per mano il ragazzo e lo accompagnò fuori dal laboratorio, attraversarono la trafficata strada e arrivarono ad un’ampia piazza circolare. «Ora dimmi, dov’è questa tua fantomatica luna?»

«Ora non c’è, maestro. La si vede solo di notte».

«La vedi solo tu, quindi non è reale. Inoltre un satellite di tali dimensioni, sai che effetti avrebbe sul nostro pianeta? Le maree innanzi tutto: sarebbero molto maggiori e distruggerebbero gran parte delle nostre cittadine costiere».

«Io non so nulla delle maree, io so solo che lei esiste e mi tiene compagnia!»

«Capisco, – rispose l’anziano pittore – in questo caso torniamo al laboratorio».

Rientrati nell’atelier Qshan decise di fare un ultimo tentativo; accompagnò il ragazzo davanti al dipinto e poi chiese agli altri allievi: «Qualcuno di voi ha mai visto questa enorme palla nel cielo sopra le nostre teste?»

Tutti scossero la testa.

«Vedi Berq’as, se nessuno ha visto quello che vedi tu, probabilmente non esiste».

«Immagino che nessuno abbia mai visto gli squali del Mar Grande» ribatté il ragazzo.

«Alcuni pescatori li hanno visti Berq’as».

«Anch’io ho visto la Luna, maestro, e anche il mio papà».

Qshan accarezzò dolcemente la testa del ragazzo e senza più aprir bocca si avviò ad osservare i dipinti degli altri allievi.

Berq’as rimase alcuni istanti immobile davanti al proprio dipinto poi prese un pennello, lo intinse di un grigio scuro e macchiò quella liscia palla celeste riempendola di tristi crateri.

***

Quella notte Qshan non riusciva a prendere sonno. Scese dal letto, indossò una sottile vestaglia e uscì sulla terrazza del proprio appartamento. Appoggiandosi al muretto di mattoni iniziò a scrutare il cielo: da diverse ore la calda Aldebaran era tramontata a ovest lasciando il posto a un cielo nero, di un nero mai visto; in lontananza si intravedeva il tremolio di migliaia di stelle. «Cosa stai facendo amore?» domando la moglie dall’interno della stanza.

«Nulla cara, nulla, non riuscivo a prendere sonno e ho voluto guardare il nostro magnifico scuro cielo stellato». Così dicendo rientrò in camera, si tolse la vestaglia e prese rapidamente sonno.

***

Nei giorni seguenti Qshan evitò lo sguardo del ragazzo. Si vergognava di quanto fosse successo quella notte e temeva che gli occhi del giovane riuscissero a leggergli dentro l’anima.

Il corso terminò e ogni allievo poté portare a casa il proprio dipinto. Qshan salutò pazientemente ogni allievo dispensando complimenti e consigli. Quando fu il turno di Berq’as il vecchio tentennò un attimo, poi disse: «Hai talento figliolo, peccato che lo rovini con la fantasia».

***

Quella notte Berq’as era seduto sul verde prato del giardino di casa sua. Il dipinto di fronte a sé. Una lacrima gli scese e cadde su quella bellissima luna piena.

Un fruscio e una leggera brezza lo sfiorarono.

«Cosa c’è che non va, figliolo?»

«Il maestro non crede che io veda la Luna».

«Ti sei mai chiesto, Berq’as, perché ognuno di noi ha due occhi? Uno è collegato al cervello, l’altro al cuore. C’è chi dà più importanza a uno, chi all’altro».

«Ma qual è più importante, papà?»

«Sono entrambi importanti. Dobbiamo imparare a usare sia l’uno sia l’altro. Alcuni giorni è il cervello che ci indica la giusta via, altri il cuore: sta a noi capire quale ascoltare in ogni istante della nostra vita».

«Sembra difficile».

«Lo è figliolo. È quello che si chiama crescere. Verrai attratto da uno e dall’altro, individuerai la giusta strada per poi perderti in scelte errate. Seguirai il cuore e tenterai di far tacere il cervello, ragionerai con uno e sceglierai con l’altro. Diventando adulti la mente prenderà sempre più il sopravvento, ma non diventar miope con l’altro occhio».

«Oggi ho tanta voglia di seguire l’occhio che porta al cuore».

«Allora seguimi» disse il padre porgendo il braccio al ragazzo.

Stretti per mano volarono via.

 

© 2021 Mirco Goldoni

 

Mirco Goldoni
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nasce presso questo sito come autore inizialmente di Twincipit e successivamente pubblicando un primo racconto tratto dal Twincipit di un altro Autore. Ha uno stile sicuro, che lo potrà lanciare verso mete più importanti.

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