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LA ROSA DI GERICO, DI ADRIANO MUZZI

LA ROSA DI GERICO, DI ADRIANO MUZZI

L’immagine di copertina è World © by Roberta Guardascione, per Cose da Altri Mondi

Il Racconto della Domenica

«La storia è l’unica barca che abbiamo
per navigare il fiume del tempo»

(Ursula K. Le Guin)

 La ragione è una rete gettata nell’oceano. La verità che riporta in superficie non è che un frammento, un riflesso, una scintilla della verità totale.
Jack estrasse la mano dalla sabbia calda, girò il palmo e l’osservò: i granelli dorati gli scorrevano tra le dita come tanti sciatori indisciplinati. Il tempo fa così, pensò, fugge via senza dare la possibilità all’uomo di stringerlo tra le mani e fermare la sua progressione inesorabile.
Socchiuse gli occhi, accecati dalla luce vivida, e pensò a sua moglie che con le palpebre violacee sempre chiuse scivolava in modo irreversibile verso la morte. Come la rosa che ogni giorno cambiava sul comodino del letto d’ospedale, l’entropia disfaceva ogni cosa mortale si affacciasse fiduciosa sulla Terra.
Lui poteva viaggiare nel tempo con la sua squadra, ma solo verso il passato e senza la possibilità di operare cambiamenti sostanziali nella storia del genere umano; avrebbe voluto poter viaggiare nel futuro, in un futuro dove la malattia rara della moglie sarebbe stata curabile magari solo con una stupida pasticca.
Jack sentì una vibrazione nell’aria, un brivido gli percorse la schiena; abbassò la testa fino a toccare la sabbia con l’orecchio: rombo di cavalli al galoppo; Gengis Khan stava arrivando per ucciderlo come promesso. Si scostò la camicia di lino e premette il bottone di ‘ritorno’. Il deserto si sciolse, ci fu un lampo e tutto divenne nero.

“Jack, ne ho passate tante con te: dalla fuga in moto inseguiti dalle SS di Hitler alla traversata con gli elefanti per arrivare fino all’antico Egitto. Tu sei un bravo agente temporale, unico direi! Ma quest’idea la trovo piuttosto singolare …”
Jack con l’indice della mano destra cercava di allentarsi il colletto della camicia allacciata fino all’ultimo bottone. Si sedette di fronte ad Alfred, un uomo di mezza età appesantito dai troppi pranzi di lavoro e dallo stress dei tanti ‘salti’ temporali’, e rispose:
“Perché? Come sai il nostro motto recita: ‘…non possiamo sentirci moralmente assolti per il sangue versato e l’ingiustizia subita dall’umanità…’ E non è proprio questo il caso? Anzi, non è proprio il caso dei casi?”
“Jack, sei troppo intelligente per non sapere che se la tua missione andrà bene, spazzerai con un solo colpo di spugna millenni di storia e credenze; altrimenti spiazzerai il restante cinquanta percento dell’umanità. Insomma in ogni caso sarà un disastro totale. Ci sarà pure un motivo per cui mai nessuno sia andato, no? Non penso che quelli del comitato temporale approveranno…”
“Parlerò con il capo, e gli parlerò in modo che non metta ostacoli sul nostro percorso. Ho le mie carte da giocare…”
“Vediamo, mi fido di te.”
“Alfred, tu sei parte della mia famiglia, andiamo solo se ci credi anche tu. Io devo sapere, lo devo fare soprattutto per mia moglie Elisa, lo sai.”

Nel laboratorio dell’agenzia temporale, la ‘Sfera’ ronzava come un insetto vivo, sembrava impaziente di accoglierli. Jack e Alfred si vestirono minuziosamente per rispettare le usanze dell’epoca in cui sarebbero stati catapultati: tuniche di lino color panna con cinture di pelle, sandali e kefiah per la testa; indossarono anche il traduttore cocleare simultaneo e la cintura a ‘richiamo remoto’ per il ritorno indietro alla loro epoca.
Al termine delle procedure di vestizione, Alfred digitò dei numeri sulla tastiera di comando della ‘Sfera’ e premette ‘invio’: un allarme sonoro e visivo iniziò a riempire la stanza del laboratorio rendendolo stroboscopico. Jack sentì l’adrenalina aumentare nel corpo. Odiava quel momento: si ha sempre paura prima del grande balzo nell’ignoto; venire dematerializzati e spediti in un pertugio che si apre in una singolarità spazio temporale, non è proprio una passeggiata di salute. Si sistemarono all’interno della ‘Sfera’, dove ci si stava a malapena in due; chiusero gli occhi e premettero il tasto rosso. Ci fu un lampo accecante: il loro tempo cessò in quel preciso istante e tutte divenne di un nero senza fondo.

La prima cosa che vide Jack riaprendo gli occhi fu una chioma d’ulivo con le foglie che stormivano a causa di un leggero vento caldo; delle lame intermittenti di luce abbagliante trafiggevano i rami dell’albero abbacinandogli un occhio. La guancia sinistra era poggiata sulla terra umida e l’odore d’erba gli riempiva le narici. Sentì come in un sogno i lamenti inarticolati di Alfred del dopo ‘salto’.
“Come stai Alfred, amico mio?”
Un gemito stridulo precedette la risposta sbiascicata a voce bassa: “Mi fa male tutto, mi sento le costole nello stomaco e le budella nella gola. La mandibola è più o meno all’altezza del sedere. Però a parte questo… Tu?”
“Tutto ok dai, sto cercando di capire se la data e le coordinate sono corrette.” Ci misero alcuni minuti per raccapezzarsi, poi Jack ebbe le conferme che voleva. Si alzarono in piedi con fatica spazzolandosi le tuniche.
“Andiamo Alfred, mancano pochi minuti all’evento, non voglio perdermi nemmeno un secondo!”
“Ti pare facile correre con questa palandrana”, ripose Alfred caracollando per la discesa della collina sabbiosa. I sandali gli facevano alzare un’enorme quantità di polvere e da lontano si sarebbe vista solo una nuvola che si spostava, una specie di tempesta di sabbia umana.
Alla fine arrivarono sul luogo dove si sarebbe svolto l’evento zero. C’erano tantissime persone assembrate sulla strada e su piccole montagnole di sabbia. Il vociare eccitato formava un rumore forte e cupo. Jack indicò ad Alfred il ballatoio di una piccola casa a due piani. Con cautela ci si issarono sopra finché non ebbero una vista più chiara: si scorgeva un uomo con il viso dalla carnagione scura e una barba incolta, indossava un vestito giallo lungo e aveva le braccia tese verso una grotta. Stava dicendo qualcosa, la bocca si muoveva, ma loro erano troppo lontani per sentirne le parole. A un certo punto, dalla caverna emerse una seconda figura ricoperta di bende bianche e lise; avanzò zoppicando verso la persona con le braccia tese. La folla iniziò a gridare giubili di gioia: “Lazzaro! Lazzaro!”.
Alfred fissò negli occhi Jack con aria interrogativa, si scambiarono un cenno con il capo, era lui.
La persona con la barba, Gesù, strillò verso i Giudei che gli erano accanto: “Scioglietelo e lasciatelo andare!”.
Poi ci fu la confusione totale: centinaia di persone cercavano di raggiungere il centro della scena per toccare Gesù e Lazzaro. Anche Jack si precipitò giù per l’avvallamento. Alfred correva al suo fianco con il fiatone.
“Ehi Jack, ma sei sicuro che sia lui? Non somiglia per niente alle immagini che abbiamo!”
“Lo so,” gli rispose, “ma l’immagine diffusa di Gesù, l’uomo biondo e con gli occhi azzurri, non è mai stata riconosciuta come reale, del resto stiamo parlando di un ebreo e non di uno scandinavo.”
Provarono in tutti i modi ad avvicinarsi a Gesù, ma non ci riuscirono: l’assembramento e il flusso delle persone li facevano oscillare come anemoni in preda alle correnti oceaniche. Alla fine, stremati, desistettero e si accasciarono al suolo. Jack porse una razione di cibo al compagno e gli disse: “Non abbiamo visto abbastanza, non so cosa pensare; comunque l’obiettivo è parlargli qualche minuto da solo.”
“A me pare,” rispose Alfred sorridendo, “di stare in un B-movie: Gesù è molto diverso da come me l’aspettavo, le comparse puzzano e l’audio fa schifo …”

Trovarono alloggio presso una piccola locanda e, grazie al traduttore simultaneo installato nell’orecchio, riuscirono a non destare troppi sospetti negli avventori, anche se alcuni clienti ogni tanto li guardavano con aria interrogativa.
La sera, durante la cena frugale, due soldati romani si misero a parlottare fitto tra di loro guardandoli insistentemente, ma poi uscirono dal locale senza infastidirli. Jack e Alfred consumarono il pasto a base di pane e olive e poi salirono nella stanza che avevano affittato e riposarono qualche ora.
Jack quella notte sognò la moglie: stava bene e gli sorrideva, aveva delle rose rosse al posto dei capelli e due diamanti al posto degli occhi; camminava verso Jack con le braccia aperte come per abbracciarlo. Lui era felice, ma improvvisamente comparvero degli angeli neri che volavano minacciosi, la sollevarono e…
La luce vivida del mattino lo svegliò e quella visione magica svanì come fumo al vento; si sedette sul letto di paglia con il cuore in gola.
“Alfred, oggi è il 27 marzo, secondo le scritture Gesù sarà a Gerico per recarsi a casa di Zaccheo, andiamo!”
Alfred, che si stava finendo di mettere il kefiah con qualche difficoltà, rispose al collega: “Certo, speriamo di riuscire a parlarci di persona. Pensa che emozione sarà trovarsi davanti a Gesù!”
I viali polverosi della piccola cittadina erano costellati dai venditori con i loro sacchi strapieni di datteri e le anfore di latte di cammello; palme e ulivi facevano da cornice a piccole case di mattoni rossi. Camminarono per un po’ coprendosi il viso con i fazzoletti per proteggersi dalla polvere e dagli insetti che cercavano di pungerli in tutti i modi.
Poi, finalmente, videro Gesù tra la folla esultante; un cieco sdraiato in terra stava gridando qualcosa che il traduttore decifrò in: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”
“Ho bisogno di parlare con lui da solo per 5 minuti, ok?” disse Jack al suo collega di missione.
“Ok,” rispose Alfred facendo il segno con il pollice, “Vai! Poi mi racconti.”
Jack tallonò Gesù per i vicoli di Gerico; rimase colpito dalla miriade di umanità che lo seguiva, lo toccava, gli chiedeva indulgenze e favori. Gesù non si scomponeva mai e rispondeva a tutti placidamente. Chi gli faceva veramente da filtro era una specie di scorta, dovevano essere gli apostoli.  Prima che entrasse nella casa di Zaccheo Jack lo fermò con una mano sulla spalla: “Ciao, Gesù, ti posso parlare un minuto? Tu non mi conosci ma ho bisogno di te.”
Subito uno dei seguaci bloccò Jack prendendolo per il braccio e tirandolo via. Ma Gesù fece un cenno con la mano aperta verso l’apostolo, dicendo: “Pietro, per favore, lascialo.”
Gesù lo fissò, Jack ebbe l’impressione che i suoi occhi fossero pozzi senza fondo, ma forse era solo per la suggestione di trovarsi davanti a un tale personaggio storico.
“Dimmi, viaggiatore di un altro tempo. Che cosa vuoi che io faccia per te?”
“Come sai che…”
Gesù non rispose e rimase in attesa fissandolo.
“Gesù, mia moglie sta molto male, non ci sono cure nella mia epoca, ti chiedo aiuto, il suo tempo sta finendo.”
“La farfalla non conta mesi, ma momenti, ed ha tempo a sufficienza. Anche la rosa più bella alla fine perde tutti i suoi petali e il suo profumo, nella vita terrena è così.”
“Per favore io avrei…”
“Hai fatto cose giuste durante la tua vita?” gli chiese Gesù sedendosi su un masso, posando il mento sulle mani giunte.
Jack rifletté per un momento, poi rispose: “Non lo so, penso di sì: ho amato tanto, ho cercato con il mio lavoro di cambiare le cose in meglio, di aiutare gli uomini a commettere meno errori. Ma ho fatto anche grandi sbagli, lo ammetto.” Forse anche questo lo è, pensò Jack.
Gesù si mise a disegnare delle figure sulla sabbia con un bastoncino, poi alzò gli occhi e disse:
“Jack, tu sei un uomo buono, tra qualche tempo ci rivedremo nel regno del Padre.”
“Ma tu sei veramente quello che dicono, il figlio di Dio?”
“Tu l’hai detto.”
Jack si sentì improvvisamente confuso, non sapeva più a cosa credere, ma la sue convinzioni da ateo cercavano di resistere a oltranza.
Gesù si chinò a terra e prese una specie di arbusto secco tra le mani; poi chiese a Jack: “Sai cos’è questo?”
Jack fece cenno con la testa di no.
“È conosciuta come pianta della resurrezione, ‘anastasis-revivescienza’ o ‘Rosa di Gerico’. Muore con la stagione secca e rinasce con le prime piogge. Basta anche una sola goccia, una lacrima. Tu piangerai per me, Jack?”
“Scusami, ma io non credo che tu sia…”
“Il Messia?”
“Sei sicuramente un uomo illuminato, ti ho visto con i miei occhi fare delle cose belle, ma…”
“Io tra qualche giorno piangerò, pensa a me quando sarai in viaggio,” gli disse Gesù abbozzando un sorriso.
Poi si alzò e aggiunse:
“Adesso fammi andare da Zaccheo, non possiamo cambiare ciò che è stato già scritto nelle Scritture.” E così dicendo gli mise una mano sulla fronte, disegnando una croce con il pollice, e se ne andò voltandogli le spalle.
All’inizio Jack non capì, anzi si sentiva in collera con Gesù e soprattutto con se stesso per la sua stupidità. Poi, pian piano, le parole di Gesù gli furono sempre più chiare e vide un puzzle che si componeva e lentamente si svelava.
I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti dall’urlo di Alfred: “Corri, Jack, i soldati romani ci hanno scoperto!”
Jack girò la testa e vide i due militari della locanda della sera prima: avevano sguainato le spade e stavano correndo verso lui e Alfred, urlavano degli ammonimenti: “Fermatevi! Siete in arresto!”
I due agenti temporali si misero a correre veloci per le stradine di Gerico, schivando carretti e animali di vario genere, saltando ceste e sacchi. A una svolta a gomito si trovarono davanti a una strada chiusa da un muro, Alfred non ce la faceva più, era paonazzo in viso. Jack allora si aprì il vestito e schiacciò il bottone di ‘ritorno d’emergenza’. Tutte le cose attorno a loro svanirono; la spada e il soldato si sgretolarono come polvere al vento. Un lampo accecante precedette un nero assoluto.

Jack abbracciò la moglie che respirava debolmente, era ancora più magra, se possibile, di quando era partito una settimana prima. Le carezzò la guancia, il contatto gli provocò dei brividi. Non sapeva se poteva sentirlo ma le parlò lo stesso: “Elisa, amore mio, sono tornato. L’ho visto e ci ho parlato. Era come dicevi tu, almeno penso, o forse spero, solo ancora prima di crederlo.”
Si mise una mano in tasca e sentì ancora dei granellini di sabbia tra le dita; ‘Tempus fugit’, pensò piangendo, una lacrima cadde sulle palpebre di lei. “La mia rosa di Gerico,” sussurrò Jack.
La baciò sulla fronte e le staccò dolcemente i cannelli delle flebo. Poi la prese in braccio e si avviò verso la porta; allarmi vari iniziarono a suonare nella stanza austera. Jack s’incamminò velocemente verso l’ascensore di servizio che li avrebbe portati alla sua auto parcheggiata nel garage. Sapeva di avere ancora poco tempo.

“Alfred, sto ancor aspettando il resoconto della vostra missione temporale, vorrei avere il rapporto entro domani sera, grazie.” Alfred alzò la testa dalle scartoffie e fissò il suo capo: un uomo con un viso irrigidito dai troppi anni di lavoro senza un amore di qualsiasi genere: moglie, figli, gatto, cane. Le teorie di Alfred erano le più disparate, ma tutte convergevano sull’aridità della sua anima come prodomo, e non come conseguenza, della sua solitudine.
“Va bene capo, ma il problema è che da ieri non riesco a contattare Jack, è introvabile. Lo scriverò io, intanto, mi ci metto subito.”
Alfred non sentiva Jack da giorni; era andato al suo appartamento che però era disabitato. Alfred aveva un sospetto a riguardo, che nelle ultime ore stava crescendo e spingendo sulla sua coscienza come un fiore che spunta da sotto la neve. Decise di verificare.
S’incamminò verso il laboratorio e dopo aver passato vari livelli di sicurezza automatica, come il riconoscimento della retina e del Dna, arrivò alla ‘Sfera’. La porticina del modulo temporale era chiusa, una luna di luce fredda proveniente dall’oblò disegnava un’ellisse sulla parete scarna della stanza. Alfred digitò qualcosa sulla tastiera di comando e comparvero dei numeri: 28-03-30 dc. Poi si girò e vide un vaso di fiori colmo di rose rosse appena recise; una gocciolina di rugiada brillava su un petalo rosso, quasi fosse una lacrima. C’era un post-it giallo incastrato tra i fiori; lo prese e aprì il foglietto: “Amico, ho fatto quello che dovevo , stiamo bene, e sai cosa intendo. Ti abbraccio, ci si rivede nella prossima vita.”
Non può tornare, pensò Alfred. Non può violare le leggi del Tempo. Buona vita, amico mio! Il viso di Alfred s’illuminò con un sorriso. Cancellò la cronologia nella memoria della Sfera, prese il mazzo di fiori e uscì.
Il suo lavoro all’ufficio temporale era terminato, aveva una moglie e un figlio che lo stavano aspettando a casa. Si strinse nel soprabito, la pioggia scendeva fitta, lassù qualcuno stava piangendo.

Adriano Muzzi

Nato a Roma il 25 ottobre 1966, dove lavora presso una società di telecomunicazioni. È sposato con Alessandra, che è medico e che lo “cura” con amore. Ha frequentato la scuola di scrittura creativa Omero di Roma e, successivamente, ha partecipato a vari gruppi di “lavoro” sulla narrativa creativa. Nella sua pur breve carriera da scrittore è riuscito a vincere qualche concorso e a pubblicare alcuni libri.

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