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Autunno Alieno

Autunno Alieno

 

L’autunno e la fine estate sono i momenti di depressione. Avevo ancora negli occhi l’ultima immagine del mare. Le nuvole all’orizzonte il fluttuare delle onde. Un vento caldo che permetteva il surf-aquilone.

Non avevo voglia di guidare. Così la mia compagna Flavia si era messa al volante. Quelle due settimane in un residence erano trascorse veloci.

Siamo insieme da tre anni. Ci siamo conosciuti in un piano bar di Bologna. Lei insegnate di lettere, di sei anni più giovane di me. Io impiegato in una ditta di trasporti, con la passione del piano forte e con qualche ambizione da compositore.

Mi esibisco nei fine settimana, in qualche locale tra Milano e Bologna. Accompagno qualche cantante, oppure faccio da sottofondo alle storie d’amore clandestine. La passione per il Jazz viene per prima, per seconda la lettura: sono un lettore onnivoro.

Mi lascio andare sul sedile, il traffico sulla corsia autostradale del rientro è poco. Afferro un numero di una vecchia rivista che ho trovato su una bancarella al mare, tra i fumetti. È un Dylan Dog dal titolo UFO. Non me lo sono fatto sfuggire.

In altri tempi la bancarella dei fumetti sarebbe stata presa d’assalto dalla gioventù locale, ma quella volta ero solo: nell’epoca di Tik-Tok, gli adolescenti hanno perduto il senso del brivido. Ben presto mi sono perduto nel fumetto.

Penso alla frase “Un alieno che sbarca alla periferia di Milano o nelle nebbie della Bassa padana non è credibile”. Ma nella bassa non ci sono più le nebbie di una volta. Alzo lo sguardo, il sole è coperto, gocce di pioggia cadono contro il lunotto.

Il primo giorno d’autunno è un fine settimana piatto e grigio. Non c’è Flavia con me. Non ci sarà per tutto il fine settimana. Sul display dello smartphone un messaggio “…a lunedì sognami Flavia”.

In questi giorni sto pensando di comporre qualcosa. Magari metterlo in rete. Una canzone che ho ritrovato su YouTube e che ballavo in discoteca nei miei vent’anni, non qui, continua a tamburellarmi nel cervello. Don’t let me go don’t cry tonight, una meteora, un tormentone di quel periodo.

La melodia rallentata, pulita dagli effetti e portata sui tasti del pianoforte magari potrebbe andar bene al piano bar.

Il sole tramonta, il cellulare è spento la musica sembra non finire mai, mi ripete sempre Don’t let me go le mani sui tasti volano.

***

Flavia e io abitiamo in una casa colonica rimessa a nuovo: ci era piaciuta subito. Per raggiungerci si deve percorrere una strada accanto a un canale dalle pareti d’argilla.

Due grossi pilastri all’entrata sorreggono un cancello in ferro battuto. Un vialetto di piccoli sassi bianchi davanti all’abitazione, a cui è attaccata la vecchia stalla, oggi studio. Il fienile adiacente è diventato garage, un tempo lì erano riposti gli attrezzi agricoli.

Guardo lo spartito e ho scritto parecchio. Mi siedo per un ripasso veloce. La suono registrandola e riascoltandola. Il tutto mi convince.

Di solito quando qualcosa mi riesce, ho bisogno di staccare e di fare una passeggiata. Non ho cani da portare in giro. Forse un caffè al bar mi farebbe bene.

Si tratta solo di seguire la strada per meno di un chilometro, fino al bar all’incrocio della chiesa, sulla statale. È sabato sera e c’è il calcio in Pay-TV.

Chiudo tutto, ma lascio la luce accesa dell’entrata. Camminando verso la mia destinazione indosso le cuffie e riascolto il file della mia composizione. Manca qualcosa alle dieci.

Sull’asfalto sconnesso, si sono formate piccole pozzanghere, l’erba della riva del canale è umida. L’acqua scorre, i raggi lunari colpiscono il pelo della corrente. Intravedo l’incrocio, con il bar la chiesa, fari d’auto che sfrecciano sulla statale. Una vettura mi sfiora. Alzo gli occhi e vedo che si porta verso l’incrocio.

D’un tratto, una folata di vento, la corrente del canale ha un sussulto, torna la calma. Una scia luminosa ha da poco solcato il cielo. Cosa è stato? Forse è solo un aereo di linea nel suo volo notturno?

Entro nel bar, sento urlare Gol. Mi avvicino al bancone. La barista cinese mi si avvicina con un sorriso.

“Buona sera un caffè grazie.”

La ragazza inizia ad armeggiare. Intano il primo tempo della partita finisce. Molti del gruppetto di persone nella saletta s’alzano portandosi verso il banco. Intanto arriva il caffè.  Il bar è un vociare di commenti.

“Come sta andando la partita?” chiedo

“Sono sul pareggio al primo tempo, “mi rispondono

Sorseggio il caffè.

“Chi è che va lungo il canale? “

“Oggi sono venute le scialuppe per la pulitura delle rive, ma non penso che si muovano al buio” mi risponde un tipo con gli occhiali e barba, fronte e volto scavati da rughe profonde, capello nero a coprire una calvizie visibile. Se ne sta in disparte su un tavolo in un angolo a giocare un solitario con le carte francesi.

“Ci sono i soliti pescatori di frodo, in genere gente dell’est, di notte, nelle rogge o nei canali collettori, meglio stargli alla larga.” Sorride.

***

Il bar con l’incrocio della statale e la chiesa sono alle mie spalle. Mi giro in un’ultima volta. Non vedo più le sagome. Solo nebbia tutto intorno, la strada sembra sparire nei banchi. Non si vede la mia casa da lì. Noto una barca da pescatore. Squarciata, con attorno carcasse di pesce siluro.

***

Ora sono davanti a casa. Il banco di nebbia termina proprio lì, dove inizia un altro mondo. Oltrepasso il cancello. Tutto tranquillo. In apparenza. Dall’interno del porticato esce una scia luminosa e si perde nel banco di nebbia.

Preso dal panico, corro verso il ripostiglio afferro un’ascia, torno verso la cascina. Sotto il portico nulla. Ora la scena si sposta alla casa.

Le luci sono accese, esce una musica è Don’t let me go in versione pianoforte, la mia composizione. Qualcuno si diverte a farmi paura. Apro la porta, entro. E qui trovo un tipo seduto in poltrona. Lo riconosco è il vecchio che al bar era seduto in un angolo… Sorride sotto la barba.

“Buona sera. Bel pezzo di musica. Su questo pianeta avete una notevole creatività, anche se preferisco quella che voi chiamate musica classica. Un certo Beethoven. Gran genio”

“Che scherzo è questo? Te ne vai di qua o chiamo…”

“Chi la polizia o i carabinieri,” ghigna beffardo.

Alzo l’ascia verso di lui, ma tutto finisce in un attimo. Un raggio viola esce dalla sua manica e incenerisce l’ascia. Io finisco contro la parete.

“Arma troppo primitiva,” ribatte quello. “Come le armi che state usando nelle vostre guerre,” ridacchia.

“Ma chi sei; che vuoi?” urlo.

“Calma terrestre: avete i giorni contati.” Sorride “certo che questo corpo che ho perso da quell’individuo che ho incontrato, appena uscito dalla capsula vicino al canale, mi sta scomodo.” In un attimo, abiti barba e cappello sono sul pavimento.

Ora l’essere che è davanti a me, ha davvero poco di umano. Chiuso in una tuta-involucro, la testa ovale, occhi da insetto esagonali. Dall’interno della tuta, estrae un terzo arto. Afferra un vaso sul tavolo stritolandolo per dimostrazione.

“Ma chi sei? Da dove vieni?” dico e sembro davvero spaventato.

“Be diciamo da qualche milione di anni luce di distanza, come li chiamate voi.” La sua cute assunse un colore giallo. “Vi osserviamo da tempo. All’inizio, con i nostri strumenti visivi, vedevamo sulla superficie di questo mondo che voi chiamate Terra degli strani animali, rettili… poi le nostre sonde hanno risolto il problema del tempo per il viaggio e abbiamo scoperto che questo mondo è abitabile… verremo a prendercelo: da noi siamo in troppi”

“Senti ET eri al bar prima.”

“Ha sì il bar, quelle persone, se ne sono andate tranquille alla fine della così detta partita di Calcio bel gioco.” Rialzai gli occhi: stava di nuovo interpretando l’uomo del bar.

“Son venuto a eliminare un testimone, a preparare la venuta dei… miei amici se così li posso chiamare. Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma tu hai visto troppe cose: hai visto la scia della mia navetta che scendeva e so che l’hai notata. Questo pianeta e troppo bello per farvelo distruggere con le vostre armi primitive…” Alzò la mano verso di me mostrando un’arma cilindrica.

Ma non fece in tempo: il suo cadavere “umano” fu di fronte a me in un attimo. La sua metamorfosi completa non gli dava più il vantaggio, iniziale. Dal futuro da dove venivo, mi ero portato una pistola neutralizzante e il mio compito era sempre stato quello di venire esattamente qui e adesso per bloccare l’invasione all’origine. Per evitare la guerra senza fine contro questi alieni, che volevano scacciarci dalla terra. La correzione del tempo avrebbe messo le cose a posto.

Afferrai quel che restava dell’alieno e lo portai nella stalla. Sotto la botola c’era il forno per eliminarlo e ridurre in cenere le sue sembianze umane.

L’operazione durò pochi secondi. Ora si trattava di trovare la navicella da cui prendere tutti i dati e mandarli nel futuro. Una volta trovati i piani dell’invasione avremmo giocato d’anticipo sulla data che già conoscevamo.

***

Flavia tornò il giorno dopo.

“Come è stato il fine settimana senza di me?”

“Tranquillo “

“La tua composizione?”

“Sta andando avanti molto bene”

Il mio pezzo per pianoforte stava suonando proprio allora. Devo dire che avevo fatto un buon lavoro. Come compositore e arrangiatore non sono male, dati i mezzi disponibili in questo tempo.

Fuori i colori dell’autunno sono sempre più tenui. Le foglie trasportate dal vento danzano sul pelo dell’acqua, a custodire il relitto alieno.

Enrico Grossi
Enrico Grossi

per lui la scrittura è solo un hobby, anche se vorrebbe che diventasse qualcosa di più. Ha cominciato a scrivere racconti fin dall'età di 15 anni, e ancora scrive oggi quando gli anni sono ormai più di sessanta. Ha iniziando la sua cultura letteraria da Verne e H.G.Wells, poi Urania comprati con le mance, le Edizioni Nord e la rivista Robot diretta dal mitico Vittorio Curtoni.

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