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“IL ROSSO”, UN RACCONTO DI FANTASCIENZA DI JACK LONDON

“IL ROSSO”, UN RACCONTO DI FANTASCIENZA DI JACK LONDON

Mondi Passati – Vintage

Il rosso
di Jack London
autore di
La Valle della Luna, Jerry delle isole,
Michael, fratello di Jerry, etc.

MILLS & BOON, limited
49 RUPERT STREET
LONDON, W.1.


Forse non tutti sanno che Jack London ha scritto anche racconti di fantascienza. Tra questi The Red One, scoperto tra le proposte del Project Gutenberg. Ve lo presentiamo in una nuova traduzione per la rubrica Mondi Passati.

Pubblicato nel 1919 Copyright negli Stati Uniti d’America di Jack London.
Questa traduzione è © di Franco Giambalvo (2019)

 

Ecco! L’improvvisa esplosione del suono!

Ascoltato nei giusti tempi pare la tromba di un arcangelo.

Egli pensava: le mura di una città possono benissimo cadere di fronte a una chiamata così enorme e impellente.

Per la millesima volta tentò vanamente di analizzare la qualità del tono di quell’enorme rombo che dominava la terra fin lì dov’era lui, dentro le fortezze delle tribù accampate.

Udita con la mancanza di volontà di un uomo malato, la gola del monte che lo generava, risuonò come marea incombente, fino a traboccare e a inondare la terra, il cielo e l’aria.

Quel suono potente gli parve all’improvviso il grido di un Titano del Vecchio Mondo, tormentato da infelicità, o rabbia. Sorgeva sempre più  forte una sfida, una richiesta che doveva essere intesa da orecchie al di fuori dei miseri confini del sistema solare.

In esso si percepiva anche il clamore di una protesta, ma non c’erano orecchie per sentirla, o per comprenderla.

Era la fantasia di un malato che ancora si dibatteva per analizzare il suono. Esso era forte come un tuono, morbido come un campanello d’oro, sottile e dolce come fosse prodotto da corde d’argento…in realtà non era affatto così. Non c’erano parole, né esperienze che potessero descriverlo completamente.

Passò il tempo. I minuti divennero quarti d’ora e poi mezzore e il suono persisteva, cambiando sempre rispetto all’esplosione iniziale, ma ricevendo sempre nuovo impulso: si smorzava, diminuiva e calava con la medesima forza con cui era nato.

Divenne una confusione di borbottii e colossali sospiri.

Lentamente si ritrasse, singhiozzo dopo singhiozzo, all’interno di quel grande e sconosciuto petto che lo aveva originato, fino a piangere sussurri di rabbia e gorgoglii di piacere, cercando in tutti i modi di farsi sentire, di trasportare chissà quali segreti cosmici, comprensioni di infiniti significati e valori.

Diventò un suono appena percettibile senza più minacce, né promesse, una cosa che pulsava nella coscienza dell’uomo malato per qualche minuto per poi cessare. Quando non lo udì più, Bassett gettò uno sguardo all’orologio. C’era voluta un’ora perché la tromba dell’arcangelo sprofondasse nel silenzio.

Era questa, dunque, la sua torre nera?

La fantasia di Childe Roland che portava un corno alle labbra con un braccio debole come il suo lo fece sorridere. E si domandò, sono stati mesi o anni da quando ha sentito per la prima volta questa misteriosa chiamata sulla spiaggia di Ringmanu?

Per la sua stessa salvezza non lo poteva dire. La malattia era sembrata lunga e ancora tanto più lunga.  Nel conteggio cosciente del tempo lui sapeva di mesi, molti mesi, ma non aveva modo di stimare i lunghi intervalli tra delirio e stordimento. Si domandò: Cosa ne sarà stato del capitano Bateman della nave Nari? e il compagno ubriaco del capitano sarà ormai morto di delirium tremens?

Assurde speculazioni in cui Bassett provava pigramente a rivedere tutto ciò che era accaduto da quel giorno sulla spiaggia di Ringmanu quando aveva sentito per la prima volta il suono e si era gettato subito dopo nella giungla.

Sagawa aveva protestato.  Poteva vederlo ancora, il suo ridicolo volto da scimmia sconvolto dal terrore, la schiena gravata da cassette di campionature, tra le mani la rete per le farfalle di Bassett e il fucile da naturalista.

La parlata nel suo inglese Beche-de-mer: “Io uomo troppo paura di bosco. Cattivo uomo troppo possibile trovare nel bosco.”

Bassett sorrise tristemente al ricordo.

Il piccolo uomo di New Hanover si era spaventato, ma si era dimostrato fedele, seguendolo senza esitazione nella boscaglia alla ricerca della fonte di quel suono meraviglioso.

Nelle profondità della giungla non trovò nessun tronco d’albero scavato dal fuoco, che secondo l’ipotesi di Bassett sarebbe servito a richiamare le popolazioni alla guerra.

Si era anche rivelata errata la sua successiva conclusione, secondo cui la fonte, o causa del suono, non doveva trovarsi più lontano di un’ora di cammino: in quel caso avrebbe potuto facilmente tornare a metà pomeriggio, per essere raccolto dalla barca baleniera del Nari.

“Non buono grandi passi di uomo, è solo demonio-demonio”, aveva decretato Sagawa.

E aveva ragione.

Anche Bassett avrebbe potuto perdere la testa quello stesso giorno?  L’uomo rabbrividì.  Senza dubbio Sagawa era proprio stato mangiato dagli “uomini non buoni” che si erano nascosti nel bosco.

Lo aveva sempre negli occhi, così come lo aveva visto l’ultima volta, spogliato dello speciale fucile da naturalista e di tutte le cose che egli portava per il suo padrone: disteso sullo stretto sentiero, dove era stato decapitato pochi istanti prima.  Sì, la cosa era successa all’improvviso.

Un minuto prima, Bassett si era voltato e lo aveva visto arrancare pazientemente sotto i suoi fardelli.  Poi erano cominciati i guai.

Bassett fissò i monconi del primo e del secondo dito della sua mano sinistra ormai guariti e li strofinò piano sull’intaccatura che si era formata nella parte posteriore del cranio. C’era stato il lampo del tomahawk lanciato con sapienza, ma lui era stato abbastanza veloce da schivarlo abbassando la testa, per poi deviarlo parzialmente con la mano alzata.  Il prezzo richiesto per la sua vita furono due dita e un profondo taglio nel cuoio capelluto.

Una canna della doppietta calibro dieci aveva spezzato la vita dal selvaggio che lo aveva quasi ucciso; l’altra canna aveva falciato i barbari chini su Sagawa e lui con soddisfazione aveva colpito soprattutto quello che teneva in mano la testa di Sagawa.

Tutto era accaduto in un baleno. Nella stretta pista disegnata dai cinghiali era rimasto solo lui, il selvaggio ucciso e ciò che restava di Sagawa.

Dalla giungla oscura non veniva alcun fruscio, nessun rumore che indicasse una presenza.  Lui aveva subìto un grande e terribile shock.  Per la prima volta aveva ucciso un essere umano, e mentre contemplava il disastro che aveva provocato fu colto dalla nausea.

Poi era iniziata la caccia.

Ripiegò sulla pista di cinghiali dietro ai suoi cacciatori, che stavano tra lui e la spiaggia.  Non poteva sapere quanti fossero.  Potevano essere uno, o cento, per quanto lui avesse visto.

Era certo che alcuni di loro avessero usato la via degli alberi, viaggiando attraverso la cupola della giungla, anche se lui non li vide mai, se non per qualche occasionale movimento di ombre.

Ogni tanto delle piccole frecce fischiavano davanti a lui, colpivano i tronchi, o volavano a terra non lontano, anche se non le sentiva partire, né vedesse da dove arrivano.  Avevano la punta d’osso e le piume, strappate dal petto dei colibrì, erano iridescenti come gioielli.

Questo era stato, ma ormai passato da parecchio tempo: rise allegramente al ricordo del momento in cui sopra di lui aveva notato un’ombra che si era immobilizzata all’istante mentre alzava lo sguardo.

Non riusciva a capire, ma decise di rischiare e sparò una pesante carica di cinque cartucce.

Strillando come un gatto infuriato, l’ombra si schiantò dopo aver attraversato felci e orchidee e piombò a terra ai suoi piedi.

Sempre strillando di rabbia e di dolore costui aveva affondato i denti nella caviglia del suo stivale frusto.

D’altra parte, lui non restò immobile e con il piede libero alla fine ridusse al silenzio quell’urlatore.  Da quel momento Bassett era diventato insensibile alla ferocia e ridacchiò ancora a quell’orribile ricordo.

Che notte fu quella!  Aveva accumulato malattie varie e strane febbri, pensò, ricordando quella notte insonne e tormentata, quando il battere doloroso delle sue ferite non era nulla in confronto alle miriadi di punture di zanzara.  Non era stato possibile evitarle e non aveva osato accendere un fuoco.  Avevano letteralmente dissanguato il suo corpo pieno di veleno e all’arrivo del giorno gli occhi gonfi quasi gli si chiudevano. Era inciampato perché non vedeva più, non gli importava più che gli spaccassero la testa, né che la sua carcassa fosse mandata al fuoco di cottura assieme a quella di Sagawa.

Ventiquattro ore avevano fatto di lui un relitto, di mente e corpo.  Aveva a stento mantenuto la coscienza, ormai folle per la grande quantità di veleno che aveva ricevuto.  Più volte aveva sparato col fucile sulle ombre che lo seguivano.  Durante il giorno insetti e moscerini lo pungevano aumentando il suo tormento, mentre le ferite sanguinolente attiravano schiere di mosche ripugnanti che si aggrappavano tenaci alla sua carne e che lui doveva spazzare e schiacciare.

Quel giorno sentì una volta ancora il suono meraviglioso, ma pareva più remoto, anche se si ergeva imperioso nel bosco al di sopra dei tamburi di guerra non lontani.  E a quel punto aveva fatto il suo grande errore.  Pensando di essere passato oltre e che, quindi, il suono si trovasse tra lui e la spiaggia di Ringmanu, aveva cercato di tornare verso la riva, ma in realtà stava entrando sempre più profondamente nel misterioso cuore dell’isola inesplorata.  Quella notte, strisciando tra le radici contorte di un albero di banyan, aveva dormito per esaurimento mentre le zanzare avevano fatto scempio su di lui.

Seguirono giorni e notti che erano vaghi incubi nella memoria.  In una delle poche immagini chiare nella sua mente, Bassett si ritrovava improvvisamente in mezzo a un villaggio nel bosco e vedeva vecchi  e bambini in fuga nella giungla.  Erano fuggiti tutti, tranne uno.

Vicino a lui e al di sopra, sentì un mugolio spaventato, come di un animale ferito e terrorizzato.  Alzando gli occhi l’aveva vista, una ragazza, o piuttosto una giovane donna, sospesa con un braccio sotto il sole cocente.  Forse erano giorni che stava appesa così.  Aveva la lingua gonfia e sporgente e parlava.

Era ancora viva e lo fissava con il terrore negli occhi. Decise che non era possibile aiutarla, notando il gonfiore delle gambe che indicava lo schiacciamento delle articolazioni e la frattura delle grandi ossa.

Decise di spararle e lì la visione terminava.  Non gli riusciva di ricordare se lo avesse davvero fatto, non più di quanto potesse ricordare come fosse arrivato in quel villaggio, o come fosse riuscito ad allontanarsi.

Molte immagini, non collegate, andavano e venivano nella mente di Bassett mentre ricordava quel periodo delle sue terribili peregrinazioni.

Un altro ricordo, quando era piombato in un nuovo villaggio di una dozzina di case, spingendo tutti gli abitanti davanti a lui sparando in alto con il fucile. Ma un vecchio, troppo debole per fuggire, gli sputò addosso piagnucolando, poi brontolo’ aprendo un forno sotterraneo dalle pietre calde, tirando fuori un maiale arrosto che fumigava la sua deliziosa essenza attraverso l’involucro di foglie verdi.

È stato in questo luogo che egli fu colto una terribile ferocia.  Dopo aver banchettato, pronto a partire con un quarto di maiale in mano, diede deliberatamente fuoco al tetto d’erba secca di una casa concentrando il sole con la sua lente.

Ma il cervello di Bassett è piagato più di tutto dalla giungla umida e rumorosa.

In realtà la giungla puzzava di male, ed era sempre come fosse notte.

Raramente un raggio di luce penetrava quella cupola a chiazze un centinaio di metri più in alto.  E sotto quella cupola c’era una spolverata aerea di vegetazione, un mostruoso gocciolamento di forme di vita parassite e decadenti che nascevano e vivevano della morte.

In tale situazione egli si allontanava, sempre inseguito dalle ombre svolazzanti degli antropofagi, essi stessi fantasmi del male che non osavano affrontarlo in battaglia, perché comunque sapevano che presto o tardi si sarebbero nutriti di lui.  Bassett ricordò che in quel periodo, nei pochi momenti lucidi, gli era sembrato di essere un toro ferito, inseguito dai coyote delle pianure, troppo codardi per combattere per la sua carne, ma sicuri dell’inevitabile morte.

Alla fine si sarebbero finalmente ingozzati.  Le corna e gli zoccoli del toro calpestavano i coyote, così come il suo fucile da caccia teneva lontani gli isolani delle Salomone, questi boscimani dell’isola di Guadalcanal dai colori crepuscolari.

Ma un bel giorno riecco l’erba.

Improvvisamente, come spaccata dalla spada nella mano di Dio, la giungla era finita.

Il bordo, perpendicolare e nero come l’infamia, era alto una trentina di metri da sopra a sotto.  E, a partire dal bordo era cresciuta l’erba, dolce, morbida, tenera, erba di pascolo che poteva deliziare gli occhi e gli animali di qualsiasi agricoltore e si estendeva di qua e di là, per molte vellutate leghe, fino alla spina dorsale della grande isola, l’imponente catena montuosa spinta in alto da qualche antico cataclisma, seghettata e incisa e non ancora levigata dalle piogge tropicali erosive.

Ma l’erba! Basset aveva strisciato nel prato per dieci di metri, aveva sepolto il viso nell’erba, in quell’odore e infine era esploso in un impetuoso pianto spontaneo.

Mentre piangeva, ecco rimbombare il suono meraviglioso; ma era rimbombo? Da allora aveva spesso cercato una descrizione adeguata per poter esprimere un suono così vasto che poi si scioglie in tanta dolcezza come nessun altro egli avesse mai udito.  Era vasto, di una risonanza così potente che avrebbe potuto provenire dalla gola di un mostro di bronzo.  Eppure lo chiamava attraverso tutte quelle leghe di savana, come una benedizione per il suo spirito afflitto e torturato dal dolore.

Pensò a quando giaceva lì nell’erba, con le guance bagnate, ma senza più piangere, ascoltando il suono e chiedendosi se era lo stesso che aveva sentito sulla spiaggia di Ringmanu.  Qualche particolare effetto di pressioni e di correnti d’aria riflesse, gli avevano permesso di arrivare così lontano?

Condizioni che non avrebbero potuto ripetersi in mille o in diecimila giorni, ma l’unico giorno in cui era successo era stato quando lui era sbarcato dal Nari alla ricerca soprattutto della famosa farfalla della giungla, trenta centimetri dalla punta di un’ala all’altra, di nerissimo velluto come se le avessero tolto ogni colore, buia come la notte, di abitudini arboree alte, tali da frequentare solo la volta scura della giungla e poteva essere abbattuta solo da una bella dose di  cartucce.  Per quello Sagawa aveva portato il fucile calibro dieci.

Aveva trascorso due giorni e due notti strisciando in quella cintura d’erba soffrendo molto, ma l’inseguimento era cessato al bordo della giungla e sarebbe morto di sete se al secondo giorno non ci fosse stato un forte temporale a rianimarlo.

E poi era arrivata Balatta.

Al primo buio, dove la savana cedeva alla fitta giungla di montagna, lui era crollato a terra per lasciarsi morire.

La donna aveva gioito in un primo momento vedendolo impotente e avrebbe voluto spappolargli il cervello con un grosso ramo preso nella foresta.

Ma forse fu proprio la totale impotenza dell’uomo a colpirla e fu la sua curiosità umana a trattenerla perché quando lui aveva riaperto gli occhi aspettando il colpo mortale, vide che lei lo stava studiando.

La donna restò colpita soprattutto dai suoi occhi azzurri e dalla pelle bianca.  Accovacciata sulle cosce, sputò sul braccio di lui e con la punta delle dita strofinò la sporcizia di giorni e di notti, di fango e di giungla, che macchiava il candore della sua pelle.

Lui era rimasto molto colpito, perché non c’era niente di convenzionale in lei.

Rise piano al ricordo: era vestita come Eva prima che scoprisse la foglia di fico.

Bassa e allo tempo stesso magra, con arti asimmetrici, muscoli tesi come corde, coperta dallo sporco che aveva accumulato fin dall’infanzia salvo casuali lavate di pioggia: per l’occhio scientifico di Bassett era la donna più brutta che avesse mai visto.

I suoi seni mostravano contemporaneamente maturità e giovinezza; se non altro, il suo sesso era evidenziato dall’unico articolo vezzoso di cui era ornata, cioè la coda di un maiale infilata in un buco dell’orecchio sinistro. Quella coda era stata recisa così recentemente, che la parte tagliata trasudava ancora sangue, che le colava sulla spalla, come la cera di una candela.

E la sua faccia!  Un insieme contorto e avvizzito di caratteristiche scimmiesche, narici perforate mongoloidi, aperte, una bocca che calava da un enorme labbro superiore a un mento che scivolava via invisibile, occhi queruli che lampeggiavano come quelli di una scimmia in gabbia.

Nemmeno l’acqua che lei gli portò in una foglia della foresta, né il marcio pezzo di maiale arrosto, poteva riscattare minimamente la grottesca bruttezza di lei.

Dopo aver mangiato piano per un po’, Bassett chiuse gli occhi per non vederla, ma la donna ogni tanto gli metteva le dita negli gli occhi per farglieli aprire e vedere quell’azzurro.

Poi era arrivato il suono.  Più vicino, molto più vicino, e lo sapeva bene, ma non abbastanza: nonostante le sue condizioni di estrema stanchezza sapeva altrettanto bene che era ancora a molte ore di cammino.  L’effetto del suono su di lei era stato sorprendente.  Si era rannicchiata su se stessa, con il viso rivolto altrove, gemendo e blaterando per la paura.  Ma Bassett, dopo aver vissuto in un’ora tutta la sua vita, chiuse gli occhi e si addormentò, mentre Balatta gli scacciava le mosche.

Quando si svegliò era notte, e lei non c’era ma era consapevole di una forza rinnovata. Troppo era stato il veleno che le zanzare gli avevano inoculato e non soffriva più di alcuna infiammazione. Chiuse gli occhi e dormì ininterrottamente fino al sorgere del sole.  Poco dopo tornò Balatta, portando una mezza dozzina di donne che, pur essendo tutte brutte, non erano palesemente orribili come lei.  Da come si comportava dimostrava di considerarlo una sua scoperta, la sua proprietà, e dimostrava orgoglio nel mostrarlo alle altre, il che sarebbe stato ridicolo se la situazione non fosse stata tanto disperata.

Più tardi, dopo quello che per lui era stato un viaggio terribile di molte miglia, Bassett era infine crollato davanti alla casa del demonio-demonio all’ombra di un albero del pane. Lei aveva esplicato in modo assai vivace il fatto di avere su di lui pieno possesso.

Ngurn, che Bassett avrebbe in seguito conosciuto come il dottore demonio-demonio, prete e uomo medicina del villaggio, aveva chiesto la sua testa.

Altri uomini-scimmia sorridenti e chiacchieroni, tutti privi di vestiti e di aspetto bestiale come Balatta, avrebbero voluto il suo corpo per arrostirlo in forno.

A quel tempo Bassett non capiva la loro lingua, se lingua potevano essere definiti i suoni sgradevoli che usavano per rappresentare le idee.

Ma Bassett aveva compreso benissimo il punto in questione, specialmente quando gli uomini cominciarono a tastarlo, pungolarlo e pizzicare la sua carne come se lui fosse una bestia nella stalla del macellaio.

Balatta aveva perso rapidamente autorità, quando accadde l’incidente.  Uno degli uomini, esaminando con curiosità il fucile di Bassett, aveva premuto il grilletto senza volerlo.  Il rinculo del calcio nello stomaco dell’uomo non era stato il risultato più terribile, perché il tiro aveva invece spappolato la testa di uno dei presenti a un metro di distanza.

Anche Balatta fuggì assieme a tutti gli altri, ma nel frattempo Bassett aveva ripreso possesso del fucile, prima che i suoi sensi crollassero per l’attacco delle febbri.

Poi, anche se batteva i denti per la malaria e i suoi occhi incerti riuscivano a vedere a malapena, si aggrappò a quel po’ di coscienza che gli restava per stupire i boscimani con le sue semplici magie, operate con bussola, orologio, lente ustoria e fiammiferi.

Alla fine, con la dovuta enfasi solenne e un po’ di orrore, aveva ammazzato un maialino usando il fucile e subito dopo era svenuto.

Bassett fletté i muscoli del braccio cercando di  recuperare un po’ di forza dalla sua estrema debolezza, alzandosi lentamente in piedi e trascinandosi barcollante.

Era incredibilmente magro; però, durante le varie convalescenze nei molti mesi della sua lunga malattia, non aveva mai riacquistato un grado di forza come in quel periodo.

Temeva tuttavia un’altra ricaduta come aveva già sperimentato.  Senza medicine, senza chinino, era riuscito finora a vivere malgrado la combinazione di febbri perniciose e maligne, della malaria e della febbre dell’acqua nera.

Ma poteva continuare a lungo?  Se lo chiedeva ogni giorno.  Perché, da vero scienziato quale lui era, non avrebbe potuto morire prima di aver risolto il mistero del suono.

Sostenendosi con un bastone, Bassett percorse i pochi passi verso la casa del demonio-demonio, dove nell’oscurità regnava la morte e a suo parere, era malvagia e cupa quasi come la giungla.

Anche se lì trovava il suo amico di chiacchiera, Ngurn, sempre disposto a parlare e a discutere, seduto tra le ceneri di morte, nel fumo in cui ruotavano lente delle teste umane sospese agli spiedi.  In quel lungo intervallo della sua malattia, Bassett aveva imparato alla perfezione la psicologia e la lingua della tribù di Ngurn, Balatta e Vngngn – costui era lo svampito giovane capo guidato da Ngurn e si sussurrava fosse addirittura suo figlio.

“Oggi il Rosso parlerà?” chiese Bassett. In attesa della sua risposta riuscì persino a interessarsi alla raccapricciante affumicatura delle teste, mentre Ngurn con occhio esperto ne esaminava attentamente una.

“Ci vorranno dieci giorni prima di finire” disse.  “Nessun uomo ha mai avuto teste belle come queste.”

Bassett sorrise perché il vecchio era riluttante a parlare del Rosso con lui.  Era sempre stato così.  Mai, nemmeno per caso, Ngurn o altri membri della tribù avevano divulgato una sua qualsiasi caratteristica fisica, ma doveva possedere un fisico particolare per emettere quel suono meraviglioso, e Bassett non poteva nemmeno essere sicuro che egli fosse davvero del colore corrispondente al suo nome.

Le sue azioni e i suoi poteri erano abbastanza forti a giudicare dagli indizi che aveva raccolto.

Non solo, Ngurn lo aveva informato che il Rosso era il più bestiale e potente degli dei tribali, sempre  assetato del sangue di sacrifici umani, e gli stessi dei delle altre tribù vicine addirittura si sacrificavano per placarlo.

Era il dio di almeno dieci villaggi alleati mentre il suo, che era il villaggio centrale, comandava la federazione.  Per placare la sua sete, molti villaggi alieni erano stati devastati, o addirittura spazzati via e i prigionieri sacrificati al Rosso.  Anche oggi,  attraverso il passaparola, generazione, dopo generazione, avviene la stessa cosa.

Quando Ngurn, era stato giovane, le tribù al di là delle terre erbose avevano fatto un’incursione.  Nel contrattacco, lui e i suoi guerrieri avevano fatto molti prigionieri.  Erano stati dissanguati davanti al Rosso tutti i bambini soli di età superiore ai cinque anni, e molti, molti altri uomini e donne.

Il Tonante era un altro dei nomi che Ngurn utilizzava per la divinità misteriosa.  A volte lo chiamava anche Colui che Urla, La Voce di Dio, Gola d’Uccello, Colui con la Dolce Gola come quella dell’Uccello di Miele, Uccello di Miele, Cantore Solare e Nato da Stella.

Perché Nato da Stella?  Bassett aveva interrogato Ngurn a lungo.

Secondo quel vecchio demonio-demonio, il Rosso era sempre stato, dove si trovava anche adesso, da dove aveva sempre cantato e tuonato la sua volontà agli uomini.

Ma il padre di Ngurn, ancora oggi avvolto in una stuoia secca e appeso tra quelle teste in mezzo alle travi fumose della casa del demonio-demonio, la pensava diversamente.

Quel saggio defunto aveva creduto che il Rosso nascesse da una notte stellata, altrimenti perché, così egli argomentava, gli uomini vecchi e dimenticati avevano detto che il suo nome fosse Nato da Stella?  Bassett non poteva che riconoscere valida tale argomentazione.

Ma Ngurn affermava che nei lunghi anni della vita, in cui aveva guardato molte notti stellate, aveva cercato e mai ritrovato una stella, né sulla terra erbosa, né nelle profondità della giungla.

È vero, aveva visto stelle cadenti (questo in risposta a quel che diceva Bassett); ma allora aveva anche visto la fosforescenza dei funghi e della carne marcia e delle lucciole nelle notti buie, e le fiamme dei fuochi di legna e delle noci indiane; eppure cosa restava delle fiamme e dei bagliori quando erano bruciate e avevano brillato?

Risposta: ricordi, solo ricordi di cose che avevano cessato di esistere, ricordi di accoppiamenti mai compiuti, di feste dimenticate, di desideri che erano i fantasmi dei desideri, fiammeggianti, ardenti, ma non realizzati alla ricerca di conforto e soddisfazione.

Dov’è finito l’appetito di ieri? La carne arrosto del maiale selvatico, la freccia del cacciatore che non è riuscito a uccidere? La serva, mai sposata e morta prima che il suo amore la conoscesse?

Un ricordo non è una stella, contestava Ngurn.

Come può un ricordo essere una stella?  Inoltre, in tutta la sua lunga vita aveva ben osservato la volta stellata della notte e il cielo mai si mutava.  Non aveva mai notato l’assenza di una sola stella dal suo posto abituale.

Inoltre, le stelle erano il fuoco e il Rosso non era il fuoco… eppure quest’ultimo involontario tradimento non diceva nulla a Bassett.

“Il Rosso parlerà domani?” chiedeva.

Ngurn si stringeva nelle spalle come chi non volesse dire.

“E il giorno dopo?” insisteva Bassett.

“Vorrei poter curare la tua testa,” cambiò argomento Ngurn.  “La tua testa è diversa da qualsiasi altra.  Nessun demonio-demonio ha una testa come la tua.  Sono sicuro che la curerei bene.  Ci vorrebbero mesi e mesi.  Le lune vengono e le lune vanno, e il fumo deve essere molto lento, e io stesso dovrei raccogliere le giuste erbe per il fumo di stagionatura.  La pelle non si corrugherebbe.  Sarebbe liscia come la tua pelle adesso.”

Si alzò, e dalle cupe travi dove di giorno non c’era altro che buio, impregnate dal fumo di innumerevoli teste, prese un pacco avvolto in una stuoia e cominciò ad aprirlo.

“È una testa come la tua”, disse, “ma è mal curata”.

Bassett aveva drizzato le orecchie sentendo che quella doveva essere la testa di un uomo bianco: per la verità aveva da tempo immaginato che questi abitanti della giungla, nella zona più centrale della grande isola, non avessero mai avuto rapporti con gli uomini bianchi.

Per esempio nessuno di loro usava il quasi universale inglese bêche-de-mer del Pacifico sud occidentale.  Non conoscevano il tabacco, né la polvere da sparo.  I loro pochi e preziosi coltelli, era costruiti con ferro di scarto, e i  preziosi tomahawks, con asce commerciali a buon mercato.

Secondo Bassett, gli oggetti e le terre depredate in guerra agli uomini della giungla che a loro volta, avevano rubato agli uomini dell’acqua salata che si frange sulle spiagge di corallo, casualmente venuti in contatto con gli uomini bianchi.

“La gente di fuori non sa come curare le teste”, spiegò il vecchio Ngurn, mentre tirava fuori quella cosa dalla sudicia tela, ponendola nelle mani di Bassett: certamente la testa di un uomo bianco.

Che fosse un reperto antico era fuori discussione; un uomo bianco perché aveva i capelli biondi.  Avrebbe potuto giurarlo: una volta quella testa era appartenuta a un inglese… e di parecchio tempo prima, per via dei pesanti cerchi d’oro ancora infilati nei lobi delle orecchie rinsecchite.

“Per cui la tua testa… ” il demonio-demonio voleva parlare del suo argomento preferito.

“Ti dirò una cosa,” interruppe Bassett, colpito da una nuova idea.  “Quando morirò ti lascerò la testa affinché tu la curi, ma prima, tu mi porti a vedere il Rosso.”

“Quando sarai morto avrò comunque la tua testa,” contestò Ngurn.

Poi, con la franchezza brutale del selvaggio: “Inoltre, non hai molto da vivere.  Ormai sei quasi un uomo morto.  Sarai sempre meno forte.  Fra non tanti mesi ti farò girare e rigirare sul fumo.  È piacevole girare per lunghi pomeriggi la testa di uno che hai conosciuto così come io ti conosco.  E allora ti parlerò e ti rivelerò i molti segreti che vuoi sapere.  Tanto a quel punto non avrà importanza perché sarai morto!.”

“Ngurn,” urlò Bassett improvvisamente inferocito.  “Sai il Piccolo Tuono di Ferro che io possiedo.”  (Si riferiva al suo potente e spaventoso fucile.)  “Con quello posso ucciderti in qualsiasi momento, e allora tu non avrai la mia testa.”

“Non fa differenza. Vngngn, qualcun altro della mia gente avrà la tua testa,” Ngurn si compiacque per la sua astuzia.  “E alla fine girerà nella casa demonio-demonio del fumo.  Prima mi ucciderai con il tuo Piccolo Tuono, prima la tua testa girerà nel fumo.”

E Bassett sapeva di essere stato battuto nella discussione.

Che cos’era il Rosso?

Bassett se lo era chiesto mille volte la settimana dopo, quando a ogni giorno gli pareva di stare meglio. Qual era la fonte del suono meraviglioso?

Che cosa era questa divinità misteriosa, Voce del Sole, o Nato dalle Stelle,  che guidava in modo bestiale questi bruti umani dalla nera testa di scimmia che lo adoravano, colui che emetteva quel suono argentino e dolce, da toro cantante e imperioso, che per così tanto tempo aveva sentito a distanza?

Non era riuscito a corrompere Ngurn offrendogli la stagionatura della sua testa quando fosse morto, ché era una cosa comunque inevitabile.

Vngngn, era un imbecille anche se era il capo, troppo scemo, troppo manovrato da Ngurn, per prenderlo in considerazione.

Rimaneva Balatta, che dopo averlo trovato gli voleva trafiggere gli occhi azzurri e Bassett ben si ricordava della sua grottesca bruttezza, ma lei aveva continuato ad adorarlo.

Era una donna e lui aveva sempre saputo che l’unico modo per ottenere il tradimento della tribù era attraverso il cuore di lei.

Bassett era un uomo schizzinoso.

Non aveva mai cambiato idea circa l’orrore iniziale per l’aspetto scarsamente femminile di Balatta.

Quando viveva in Inghilterra, il fascino femminile non era mai stato importante, nemmeno quello della migliore donna possibile.

E ora, deciso, votato alla causa della scienza, capace addirittura di martirio, come solo uno scienziato può esserlo, decise di violare la sua signorilità e delicatezza d’animo arrivando a fare l’amore con l’imprevedibile e disgustosa boscimana.

Rabbrividì voltando il viso altrove, nascose il suo schifo, ingoiò e mise il braccio intorno a quelle spalle incrostate di fango, accettando il contatto dei suoi capelli oleosi, arricciati e rancidi contro il collo e il mento.

Ma quasi gli venne da urlare di disgusto quando lei soccombette al primo corteggiamento, mugolando e mormorando e poi gridando come un maiale emettendo versi gorgoglianti di soddisfazione.  E

ra troppo.  E il passo successivo del corteggiamento fu quello di portarla giù al torrente per sottoporla a un vigoroso lavaggio.

Da allora si dedicò a lei come un vero amante, molto spesso, ammesso che la sua volontà riuscisse a ignorare la ripugnanza.

Ma il matrimonio, che lei aveva abilmente suggerito in osservanza di tutte le usanze tribali, fu messo in discussione.

Fortunatamente, i tabù erano potenti nella tribù.  Per esempio, Ngurn non avrebbe mai potuto toccare ossa, o carne, o pelle di coccodrillo.  Il che gli era stato ordinato alla nascita.

A Vngngn era negato qualsiasi contatto con una donna.  Tale possibile scandalo, se si fosse verificato, poteva essere epurato solo con la morte della femmina incriminata.

Era successo una volta, da quando era arrivato Bassett, quando una ragazza di nove anni, correndo per giocare, era inciampata ed era caduta addosso al capo sacro.

La povera bambina non si era più vista in giro. Balatta aveva detto sussurrando a Bassett che la ragazzina era stata tre giorni e tre notti davanti al Rosso prima di morire rassicurandolo poi che il suo tabù era il frutto dell’albero del pane. Cosa sarebbe successo se fosse stato l’acqua!

Bassett aveva costruito un tabù speciale per se stesso.

Disse a tutti che avrebbe potuto sposarsi solo quando la Croce del Sud fosse stata nel punto più alto del cielo.

Conoscendo bene l’astronomia, sapeva di aver così ottenuto una tregua di quasi nove mesi; confidava che nel frattempo sarebbe finalmente morto o fuggito verso la costa, dopo aver risolto il mistero del Rosso e della  fonte della voce meravigliosa.

All’inizio aveva immaginato che il Rosso fosse una statua enorme, una specie di Colosso di Memnone che, in determinate condizioni di temperatura e di luce solare, potesse essere percorso da correnti sonore.

Ma poi il Rosso era stato più sonoro del solito, dopo un raid di guerra, quando un gruppo di prigionieri, di notte, fu portato in mezzo alla pioggia per il sacrificio.

Le condizioni erano tali per cui il sole non avrebbe potuto svolgere alcun ruolo: Bassett scartò dunque tale ipotesi.

Quando era in compagnia di Balatta, con gli uomini e con le donne, Bassett era libero nella giungla per tre quadranti di bussola.  Ma il quarto quadrante, quello dove si trovava il Rosso, era tabù.  Fece sempre più spesso l’amore con Balatta, che addirittura si lavò più spesso.

Era eternamente femmina, capace di ogni trucco pur di amare.

La vista della donna gli dava la nausea e i suoi atteggiamenti provocanti erano fonte di disperazione per Bassett che non poteva dimenticare quanto fosse orrenda, e la vedeva nei suoi incubi quando la sognava, però comprendeva la verità cosmica del sesso che la animava, per cui la sua stessa vita valeva meno della felicità del suo amante con cui voleva accoppiarsi.

Giulietta o Balatta?

Dov’era la differenza?  Il prodotto morbido e dolce della super civiltà, o il suo prototipo bestiale di centomila anni fa?

Bassett non era un umanista, ma uno scienziato.

Nel cuore della giungla di Guadalcanal mise in atto un esperimento, come se fosse in un laboratorio per qualsiasi reazione chimica.  Accentuò il suo falso ardore per la boscimana, aumentando anche il senso del suo desiderio, affinché lei lo conducesse a vedere faccia a faccia il Rosso.

Una vecchia storia, lo sapeva bene, che sarebbe stata la donna a pagare, e così fu. Un giorno, i due avevano catturato piccoli pesci neri non classificati e senza nome, lunghi meno di tre centimetri, mezze anguille e mezzi squamati, pienotti, con uova d’oro di salmone, un pesce d’acqua dolce molto ricercato, consumato crudo e intero, fresco, o in salamoia, una prelibatezza assoluta.

Sdraiata nel fango della giungla in decomposizione, Balatta si allungò ad afferrare le caviglie di Bassett baciandogli i piedi, emettendo suoni disperati che, a sentirli, gelavano la spina dorsale .

Lei lo pregò di ucciderla piuttosto che compiacere il pegno d’amore che lui le chiedeva.

Balatta provò a spiegargli quale fosse la pena per chi spezzava il tabù del Rosso: una settimana di terribile tortura, i cui dettagli si capivano solo guardando la sua espressione e per quanto era in difficoltà a parlarne.

Bassett si rese conto di essere solo un principiante nell’arte di terrorizzare un essere umano,  eppure insistette perché la sua volontà di uomo fosse soddisfatta, a scapito della donna, purché potesse risolvere il mistero del canto del Rosso.

Che importava se lei avesse dovuto morire urlando orribilmente, dopo lunga tortura.

E Balatta, che era una donna semplice, cedette.

Fu così che lo condusse nel quadrante proibito.

Una montagna impervia, che entrava da nord per incontrare un simile sperone a sud, dove il turbinoso torrente in cui avevano pescato si insinuava in una gola profonda e cupa.

Dopo un miglio nella gola, la strada si lanciava bruscamente verso l’alto, fino ad attraversare una sella di calcare grezzo che attrasse l’occhio del geologo Bassett.

Continuava la salita e l’uomo dovette fermarsi spesso per via della sua debolezza fisica. Scalarono montagne rivestite di foreste, fino a quando non emersero su una mesa, un altipiano scabro.

Bassett capì che il terreno era composto da sabbia vulcanica nera, e sapeva che un magnete tascabile avrebbe potuto catturare un bel po’ dei granelli molto aguzzi che calpestava.

Poi, tenendo Balatta per mano e spingendola avanti, la vide: una fossa enorme, evidentemente artificiale, nel cuore dell’altopiano.

Una storia già vista: nei portolani dei Mari del Sud, decine di dati tenuti a mente e connotazioni veloci e nervose che gli attraversarono il cervello.

Era stato Mendana ad aver scoperto le isole che aveva chiamato Salomone, perché credeva di aver trovato le favolose miniere di quel re.

Avevano preso in giro il vecchio navigatore per la sua credulità bambinesca… eppure eccolo qui Bassett, proprio adesso… sul bordo di una miniera di diamanti grande come le più grandi fosse del Sud Africa.

Ma quando guardò là sotto non vide nessun diamante.

Il Rosso

Vide invece una perla; l’oggetto possedeva la profonda iridescenza di una perla, ma era di una dimensione tale che tutte le perle della terra e del tempo, unite tra di loro a farne una sola, non avrebbero potuto uguagliarla; di un colore mai visto in una perla, né in qualsiasi altra cosa, perché quello era il vero colore del Rosso.

E Bassett lo aveva capito subito che era Lui.  Una sfera perfetta dal diametro di sessanta metri, la parte superiore era una trentina di metri sotto il bordo del pozzo.

Quel colore aveva la qualità della lacca.

Infatti, Bassett all’inizio aveva pensato che si trattasse di una specie di lacca applicata dall’uomo, ma quella era una vernice troppo meravigliosamente perfetta per essere un prodotto dei boscimani.

Era più luminosa del rosso ciliegia, possedeva una ricchezza di colore di un rosso dipinto sul rosso.  Brillava al sole di luce iridescente, come se fosse luminosa da sotto, appoggiata sul rosso.

Invano Balatta si sforzò di dissuaderlo dallo scendere.

La donna si buttò per terra; ma, quando Bassett proseguì lungo il sentiero che calava a spirale lungo le pareti del pozzo, lei lo seguì, strillando e piangendo tutto il suo terrore.

Era evidente che la sfera rossa fosse stata portata alla luce come una cosa preziosa.  Considerando la scarsità di uomini nei dodici villaggi federati e i loro strumenti e metodi primitivi, Bassett sapeva che nemmeno mille generazioni avrebbero potuto originare quell’enorme scavo.

Trovò il fondo della fossa tappezzato di ossa umane, in mezzo alle quali c’erano divinità di legno e pietra malconce e deturpate, provenienti dal villaggio.

Alcuni idoli erano ricoperti di figure e disegni osceni, scolpiti su grandi tronchi d’albero lunghi fino a dieci, quindici metri.  Egli notò l’assenza delle divinità squalo e tartaruga, comunissime nei villaggi costieri, ma rimase stupito dalla costante presenza dell’immagine dell’elmo.

Cosa potevano sapere degli elmi questi selvaggi della giungla dal cuore oscuro di Guadalcanal?  Gli uomini d’arme di Mendana avevano indossato elmi ed erano penetrati fin qui secoli prima?  Altrimenti i boscimani da dove avevano preso quell’immagine?

Avanzando sullo strato di ossa e totem, con Balatta sempre dietro che piagnucolava, Bassett entrò nell’ombra del Rosso e passò sotto la sua gigantesca curvatura fino a toccarlo con la punta delle dita.  Quella non era lacca.  La superficie non era liscia come poteva sembrare.

Al contrario era una superficie ondulata e bucherellata, con delle macchie che indicavano un’esposizione al calore e segni di fusione.  Inoltre, l’oggetto aveva un aspetto metallico, anche se pareva fatto di un metallo molto diverso da qualsiasi metallo, o lega metallica che Bassett avesse mai visto.

Per quanto riguardava il colore, era evidente che non fosse stato applicato esternamente, ma era senz’altro il colore naturale di quella sostanza.

Bassett mosse la punta delle dita lungo la superficie, ché fino ad allora le aveva solo appoggiate e sentì l’intera gigantesca sfera fremere, prendere vita e rispondere.

Una cosa incredibile!  Solo un minimo tocco su una massa così enorme!

Eppure l’oggetto fremeva sotto la carezza delle sue dita, con vibrazioni ritmiche che si trasformavano in sussurri, fruscii e borbottii, con suoni molto suggestivi; così esageratamente sottili da sembrare quasi una luce sibilante; dolce da impazzire, un soffio come un corno di elfo… Bassett pensò che non poteva essere che questa la musica divina che giungeva sulla terra attraverso lo spazio.

Lanciò a Balatta un rapido sguardo interrogativo; ma la voce del Rosso che lui aveva evocato, la obbligò a tenere gli occhi bassi e lei piangeva tra quelle ossa.  Bassett tornò a contemplare il prodigio.

Concluse che probabilmente era cavo, e fatto di un metallo del tutto sconosciuto sulla terra.  Giustamente gli uomini del passato avevano detto che fosse Nato da Stella.  Poteva arrivare solo dalle stelle e non era venuto per caso.  Era una creazione di artisti e di grandi menti.

Tale perfezione di forma, con quella cavità che di certo esisteva, non poteva essere il risultato di mera casualità. La cosa era figlia di intelligenze remote e inimmaginabili, capaci di lavorare i metalli.

Bassett lo fissò stupito, il cervello un vortice di ipotesi per spiegare questo lontano viaggiatore che aveva superato la notte dello spazio, facendosi strada tra le stelle e ora torreggiava di fronte a lui, su di lui, esumato da pazienti antropofagi, pittato e laccato in un bagno di fuoco dopo aver attraversato due atmosfere.

Insomma, il colore era una lacca generata dal calore su un metallo noto?  O era una qualità intrinseca di quel metallo?  Estrasse dalla tasca un coltello con punta dura per testare la costituzione dell’oggetto.

Immediatamente l’intera sfera esplose in un potente sussurro, tagliente come una protesta, quasi un trillo dorato, ammesso che un sussurro possa essere considerato un trillo, che saliva sempre più, poi scendeva sempre più, raggiungendo i due estremi del registro dell’orecchio umano, rischiando di completare il cerchio, fondendosi infine nel muggito del toro che aveva così spesso sentito tuonare da lontano, oltre la distanza tabù.

Non pensava più alla sicurezza, alla sua stessa vita, affascinato dalla meraviglia dell’oggetto impensabile e imprendibile, per cui alzò il coltello per colpire forte, ma Balatta glielo impedì.  Si mise in ginocchio, visibilmente e incredibilmente terrorizzata e strinse Bassett alle ginocchia, supplicando di non farlo.  Per meglio impressionarlo, la donna afferrò il suo stesso braccio tra i denti e li affondò fino all’osso.

Egli vide a malapena quel gesto, anche se cedette automaticamente al suo lato più gentile trattenendo la coltellata.  Ormai, per lui, la vita umana era poca cosa, un’inezia, di fronte a questo immenso portento, testimonianza di una vita superiore che aveva attraversato le distanze siderali.

Prese a calci la brutta piccola boscimane ai suoi piedi come se lei fosse stata un cane e la costrinse a fare con lui tutto il giro attorno.  Dopo un po’, vide altri orrori.

Riconobbe i resti rinsecchiti della bambina di nove anni che aveva accidentalmente toccato il capo Vngngn.  E non tutti erano trapassati: un uomo non era ancora del tutto morto.  I boscimani si riconoscevano nel nome del Rosso e vedevano in lui la propria immagine cercando di placarlo e compiacerlo con tali offerte insanguinate.

Più avanti, sempre calpestando le ossa di esseri umani e le immagini di divinità al fondo di questo antico ossario dei sacrifici, si imbatté nel dispositivo con cui il Rosso inviava la sua chiamata, modulando il tuono oltre la cintura della giungla e la prateria fino alla lontana spiaggia di Ringmanu.

L’artificio usato dal Rosso era semplice e primitivo.  Una grande trave centrale, lunga quindici metri, istoriata con secoli di superstizione, immagini di dinastie di dei, uno accanto all’altro, tutti con l’elmo, tutti seduti nella bocca aperta di un coccodrillo.

La trave era legata con delle corde costruite con rampicanti, su un treppiede assemblato su tre enormi tronchi,  scolpiti con figure vagamente umane, sorridenti e grottesche, scarso esempio del moderno concetto dell’arte e degli dei.

Sospese alla grande trave c’erano delle corde fatte di liane a cui gli uomini potevano appendersi per far muovere la trave nella direzione più opportuna.  La trave poteva essere così spinta come un ariete, avanti e indietro contro la potente sfera rosso-iridescente.

Qui Ngurn officiava le funzioni religiose per sé e per le dodici tribù.  Bassett rise forte, una risata da folle, al pensiero di questo meraviglioso messaggero, che aveva attraversato con precisione lo spazio, per cadere in una roccaforte di boscimani e infine, essere adorato da selvaggi simili a scimmie, mangia-uomini e cacciatori di teste.

Era come se il Paradiso di Dio fosse caduto in un abisso fangoso, in fondo all’inferno; come se i comandamenti di Geova fossero stati presentati alle scimmie dello zoo su una pietra scolpita; come se il Discorso della Montagna fosse stato fatto in un ruggente baraonda di pazzi.

* * *

Le settimane trascorsero lente.  Bassett aveva scelto di passare le notti sul pavimento di cenere nella casa del demonio-demonio, sotto le teste che ruotavano lente, oscillando in continuazione.

Lui diceva che era per via del suo tabù per il sesso con la donna, e quindi, doveva nascondersi da Balatta, che lo perseguitava sempre più e diventava insistente man mano che la Croce del Sud  si alzava nel cielo, segnando l’imminenza delle sue nozze.

I giorni di Bassett trascorsero su un’amaca che dondolava all’ombra del grande albero del pane, di fronte alla casa del demonio-demonio.

Ci furono alcune pause in questa sequenza, quando, afflitto dal coma dei devastanti attacchi di febbre, egli giacque per giorni e notti nella casa delle teste.

Bassett non smise mai di lottare contro la febbre, voleva continuare a vivere, diventare più forte giorno per giorno, fino a quando lo fosse abbastanza da affrontare la prateria e la giungla, raggiungere la spiaggia, dove avrebbe potuto trovare lavoro su un ketch a due alberi o su una goletta, per ritornare alla civiltà e agli uomini suoi pari, ai quali avrebbe potuto raccontare del messaggero proveniente da altri mondi, che giaceva, sconosciuto e adorato da uomini bestia, proprio nel cuore di Guadalcanal.

Certe notti, sdraiato fino a tardi sotto l’albero del pane, Bassett trascorreva lunghe ore a guardare il lento tramontare delle stelle occidentali al di là della nera parete della giungla, oltre la radura da cui lo avevano trovato per portarlo al villaggio.

Era attratto da qualcosa di più della conoscenza dell’astronomia, aveva piuttosto il piacere ossessivo di immaginarsi mondi invisibili attorno a quei soli incredibilmente remoti, dalla cui luce, a un certo momento, era uscita la vita, un timido visitatore, nato dalle buie cripte della materia.  Non era più in grado di distinguere i limiti del tempo dai limiti dello spazio.

La sconvolgente scoperta del radio non aveva scosso la sua fede scientifica relativa alla conservazione dell’energia e all’indistruttibilità della materia.

Le stelle devono essere sempre esistite e sempre esisteranno. Sicuramente, in quell’immenso fermento cosmico, tutti i corpi debbono essere relativamente simili, fatti più o meno della stessa sostanza, o delle stesse materie, salvo i mostri del cosmo.  Tutti devono obbedire, o rispettare, le medesime leggi che hanno funzionato senza eccezioni attraverso l’intera esistenza dell’uomo.

Pertanto, sosteneva e accettava, che la vita debba essere presente in tutti i mondi di tutti i soli, così come era successo in particolare nel nostro sistema solare.

Bassett giaceva sotto l’albero del pane: un’intelligenza che fissava i golfi stellati dell’universo. In quel momento altri innumerevoli occhi come i suoi, di intelligenze molto simili, eppure decisamente diverse, osservavano senza sosta il cosmo, mettendolo in discussione e cercandone la spiegazione e il senso.

Così ragionando, sentì la sua anima volare, apparentata con quella augusta compagnia, quella moltitudine il cui sguardo era sempre puntato sull’opera dell’infinito.

Chi erano, o cosa erano, quelle lontane e superiori esistenze che avevano attraversato il cielo con il loro gigantesco messaggero rosso-iridescente, per portarci un canto celestiale?  Sicuramente, e da tempo, loro avevano percorso la via su cui l’uomo, secondo il calendario del cosmo, aveva solo recentemente iniziato il viaggio.

E per poter inviare un messaggio attraverso le profondità dello spazio, certamente avevano raggiunto quelle altezze per cui noi, in lacrime e travagli, sudore e sangue, nell’oscurità e nella confusione di molti governi, stavamo lottando troppo lentamente.

Cosa succedeva all’interno delle loro altissime civiltà?  Avevano conquistato la Fratellanza?  O avevano imparato che la legge dell’amore imponeva la pena della debolezza e del decadimento?  La vita, era una guerra?  La regola spietata della selezione naturale, era la stessa di tutto l’universo?

Inoltre, cosa più importante e struggente, le loro lontane rivelazioni e la saggezza da tempo conquistata, chiusa nell’enorme cuore metallico del Rosso, in attesa che il primo uomo della terra imparasse a leggerla?  Di una cosa era certo: la sfera rossa del suono non proveniva da una goccia di rugiada scossa dalla criniera di qualche sole tormentato.

La sua forma non era casuale e conteneva il racconto e la saggezza delle stelle.

Quali motori, elementi e grandi forze, quale tradizione, misteri e controlli del destino potevano essere racchiusi al suo interno!

È chiaro che se si può racchiudere così tanto in una piccola prima pietra di un edificio pubblico, questa enorme sfera dovrebbe contenere innumerevoli storie, ricerche di grande profondità realizzate al di là delle più incredibili congetture, leggi e formule che, sapendole padroneggiare, potrebbero dare una grande spinta, individuale e collettiva, alla vita sulla terra elevandola, dalla palude in cui siamo in questo momento, ad altezze inconcepibili di purezza e di potere.

Era il più grande dono del Tempo per l’uomo cieco, insaziabile e desideroso di raggiungere il cielo.  E proprio lui, Bassett, aveva avuto la fortuna di essere il primo a ricevere questo messaggio dagli esseri affini all’uomo, oltre le stelle!

Nessun uomo bianco, e certo nemmeno uno delle tribù dei boscimani, aveva guardato il Rosso ed era sopravvissuto. Tale legge era stata raccontata a Bassett da Ngurn.  Ma esisteva una cosa come la fratellanza di sangue.  Bassett, peraltro, aveva spesso contestato tale legge in passato.

Eppure Ngurn aveva solennemente dichiarato che non si poteva.  Anche la fratellanza di sangue era fuori dai favori del Rosso.  Solo un uomo nato all’interno della tribù poteva guardare il Rosso e sopravvivere.

Ora la situazione era diversa: col suo segreto colpevole, noto solo a Balatta, a cui il timore di essere immolata davanti al Rosso aveva istantaneamente sigillato le labbra,  l’unica cosa da fare era di riprendersi dalle terribili febbri che lo indebolivano, e raggiungere la civiltà.  Poi avrebbe guidato una spedizione per tornare lì e, a costo di uccidere tutta la popolazione di Guadalcanal, avrebbe estratto dal cuore del Rosso il messaggio proveniente da altri mondi.

Ma le ricadute di Bassett divennero più frequenti, le sue brevi convalescenze sempre meno vigorose, i suoi periodi di coma più lunghi e a un certo punto egli stesso capi’, che non avrebbe mai più potuto sopravvivere, attraversare le terre erbose e superare la giungla pericolosa, fino al mare.

Non c’è ottimismo per una costituzione debole come la sua. Quando la Croce del Sud si alzò più in alto nel cielo, lui era molto smagrito: anche Balatta ormai sapeva che sarebbe morto prima della data delle nozze, determinata dal tabù dichiarato da Bassett.

Ngurn fece personalmente il pellegrinaggio per raccogliere le erbe fumose per operare una buona stagionatura della testa e lo annunciò orgogliosamente a Bassett, parlandogli della perfezione artistica del suo lavoro, quando egli  sarebbe morto, si capisce.  Bassett non era sconvolto per quel che lo riguardava.

La vita era corsa via velocemente e troppo lo aveva colpito: ora non poteva più ferirlo con la paura di una morte imminente.  Continuò a sopravvivere, alternando periodi di incoscienza con altri di semi-coscienza e sogni nei quali dubitava perfino di aver mai visto davvero il Rosso; o non era anche quello un delirio.

Ma venne il giorno in cui tutte le nebbie e le ragnatele si dissolsero: in quel momento il suo cervello ebbe tutto chiarissimo e comprese finalmente la debolezza del suo corpo.

Non poteva sollevare più la mano, né il piede.  Aveva così poco controllo del corpo, da essere appena consapevole di possederne uno.  Infatti la sua carne era appena attaccata alla sua anima, la quale, in un breve istante di chiarezza, sapeva bene che il buio della fine era ormai prossimo.

Consapevole che tutto era finito ma anche di aver visto davvero il Rosso con i suoi occhi, il messaggero tra i mondi; certo che non sarebbe sopravvissuto per portare quel messaggio al mondo: un messaggio che peraltro, aveva già dovuto attendere diecimila anni, prima che un uomo lo scoprisse al centro di Guadalcanal.

Bassett si mosse senza rimpianti. Chiamò Ngurn all’ombra dell’albero del pane, e con il vecchio stregone demonio-demonio discusse i termini e le volontà del suo ultimo atto di vita, la sua ultima avventura nella carne.

“Conosco la legge, O Ngurn”, terminò.  “Colui che non è della gente non può guardare il Rosso e vivere.  Non vivrò dunque.  I vostri giovani mi porteranno davanti al volto del Rosso, e io lo guarderò, e sentirò la sua voce, e lì morirò, per tua mano, O Ngurn.  Così le tre cose saranno soddisfatte: la legge, il mio desiderio e il tuo immediato possesso della mia testa per la quale tutti i tuoi preparativi sono stati già fatti”.

Ngurn acconsentì, aggiungendo:

“È meglio così.  Un uomo malato che non riesce a stare bene è sciocco che viva ancora.  Inoltre per i vivi è più giusto che lui debba andare.  Sei stato molto impedimento negli ultimi tempi.  Ma non per me, ché è stato bene parlare con uno saggio come te.  Ma per molte lune e giorni abbiamo avuto poco di che chiacchierare.  Invece, hai preso spazio nella casa delle teste, facendo rumori come un maiale morente, o parlando molto e ad alta voce nella tua lingua che non capisco.  Questa è stata confusione per me, perché mi piace pensare alle grandi cose della luce e del buio mentre giro la testa nel fumo.  Il tuo gran rumore è stato quindi un disturbo per il mio apprendimento e per la rivelazione della saggezza finale che sarà mia prima di morire.  Per quanto riguarda te, su cui l’oscurità è già calata, è bene che tu muoia ora.  E ti prometto che, nei lunghi giorni a venire, mentre girerò la tua testa nel fumo, nessun uomo della tribù verrà a disturbarci.  E allora ti dirò molti segreti, perché io sono vecchio e molto saggio, e aggiungerò saggezza a saggezza mentre girerò la testa nel fumo”.

Così fu preparata una  barella che una mezza dozzina di uomini portarono in spalla. Bassett partì per l’ultima piccola avventura che sarebbe stata per lui l’ultima con la quale avrebbe terminato la sua vita.  Si sdraiò sulla barella barcollante con un corpo di cui era appena consapevole, perché anche il dolore era ormai finito, ma il suo cervello era chiaro e luminoso, avviato a un’estasi tranquilla e lucida di puro pensiero. Mentre passava guardò il mondo dissolversi, vide per l’ultima volta l’albero del pane davanti alla casa del demonio-demonio, il giorno che svaniva sotto il tetto della giungla intricata, la gola cupa appoggiata alle montagne, la sella di calcare crudo, e la mesa di sabbia vulcanica nera.

Poi lo portarono lungo il sentiero a spirale nella fossa, tutto attorno la lucentezza, incandescente del Rosso che sembrava sempre dover esplodere dopo una nuova iridescenza di luce e di colore, nel dolce canto e nel tuono.  Lo portarono sopra le ossa degli uomini immolati e sui tronchi, oltre gli orrori di altri immolati che ancora non erano morti, fino al treppiede dei tre-alberi e all’enorme pendolo reale.

Qui Bassett, debolissimo, aiutato da Ngurn e Balatta, si sedette, oscillando sui fianchi e fissò il Rosso, con i suoi occhi chiari, risoluti, che non perdevano una sola immagine.

“Una volta sola, o Ngurn,” disse, senza distogliere gli occhi da quella superficie scintillante e vibrante in cui tutte le sfumature del rosso ciliegia giocavano senza sosta, un tremito pronto a diventare un suono, fruscii di seta, sussurri argentei, dorati strimpellii di corde, trombe vellutate, dolci tuoni distanti.

“Io aspetto,” disse Ngurn dopo una lunga pausa, il tomahawk dal lungo manico pronto in mano, tranquillo.

“Una volta sola, o Ngurn,” continuò Bassett, “lascia tu che il Rosso parli in modo che io possa vederlo parlare, ma anche sentirlo.  Poi colpisci, così, quando alzo la mano; perché, quando alzo la mano, piegherò la testa avanti per rendere più facile colpire alla base del collo.  Ma, o Ngurn, io che sto per uscire dalla luce del giorno per sempre, vorrei trapassare con la voce meravigliosa del Rosso che canta nelle mie orecchie.”

“Ma io ti prometto che mai una testa sarà così curata come la tua,” lo rassicurò Ngurn, segnalando allo stesso tempo ai membri della tribù di afferrare le corde sospese al battacchio del treppiede.  “La tua testa sarà il mio più grande capolavoro nella cura delle teste.”

Bassett sorrise tranquillo per l’orgogliosa sicurezza del vecchio, mentre il grande tronco scolpito fu tratto indietro per almeno dieci metri e poi rilasciato.  Un attimo dopo Bassett si perse nell’estasi alla brusca e fragorosa liberazione del suono.

Un tuono!  Ma dolce, riecheggiando la preziosità di tutti i metalli.  Gli Arcangeli parlavano in quel suono; era magnificamente bello più di tutti gli altri suoni; era avvolto nell’intelligenza di super uomini che venivano da pianeti di soli diversi; era la voce di Dio, era seducente: esigeva di essere ascoltato.

Ecco… l’eterno miracolo di quel metallo interstellare! Bassett vide con gli occhi il colore e poi i colori trasformarsi in suono, finché l’intera superficie della vasta sfera ne brulicò, solleticata e vaporosa con ciò che lui non sapeva più distinguere se fosse colore o suono.  In quel momento percepì tutti gli interstizi della materia, gli intrecci e le mescolanze della materia e della forza.

Il tempo passava.

Infine Bassett fu scosso dalla sua estasi da un movimento di impazienza di Ngurn.  Si era dimenticato del vecchio demonio-demonio. Un improvviso lampo, una fantasia lo fece ridere di gola, solo per un istante.  Il fucile giaceva accanto a lui nel tappeto di ossa.  Non doveva far altro che portarlo alla testa, premere il grilletto per distruggere del tutto quella sua testa preziosa.

Ma perché imbrogliarlo? Fu il successivo pensiero di Bassett.  Quel cannibale cacciatore di teste, un essere umano in forma di bestia, ché era tanto scimmia quanto uomo, il vecchio, secondo i suoi principi, aveva giocato pulito.  Ngurn era di fatto un esempio di etica, uno che rispettava i contratti, un uomo pieno di considerazione, e di dolcezza.

No, decise Bassett; alla fine sarebbe stato orribile e disonorevole ingannare il vecchio.  La sua testa apparteneva a Ngurn, e sarebbe stata la testa di Ngurn a curarla.

E Bassett, sollevò la mano in un segnale, piegando in avanti il collo come stabilito in modo da esporre molto bene l’articolazione del suo midollo spinale, dimenticando del tutto Balatta, che era una donna,  sola e indesiderata.

Seppe, senza vederla, che l’ascia dai bordi rosa affilati si era sollevata dietro di lui.  E in quell’istante, un attimo prima della fine, prima che piombassero su Bassett le ombre dell’Ignoto, provò un senso di imminente meraviglia, che prendeva forma di barriera davanti all’inimmaginabile.

Sapeva che il colpo era stato lanciato e un istante prima che il bordo di acciaio gli mordesse la carne e i nervi, credette di fissare il volto sereno di Medusa, la verità…

Poi, proprio quando lo raggiunse il morso dell’acciaio sull’onda delle tenebre, in un lampante istante impossibile, vide la sua testa girare lentamente, in continuazione, nella casa del demonio-demonio accanto all’albero del pane.

Fine

Waikiki, Honolulu, 22 maggio 1916.

Copertina per Jack London, tratta da una delle poche edizioni italiane, Leone Editore.

 

Franco Giambalvo
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Appassionato di fantascienza da sempre, ma ha scoperto di esserlo in quarta elementare quando lo hanno portato a vedere "La Guerra dei Mondi" di Byron Haskin: era il 1953 e avrebbe compiuto nove anni in quell'autunno. In seguito ha potuto scrivere con l'aiuto di Vittorio Curtoni e ha pubblicato un romanzo, del tutto ignorato, dagli Editori e dai lettori. Ma non si lamenta troppo: ama la fantascienza!

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