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I PRIMI CINQUANT’ANNI DELLA FANTASCIENZA IN ITALIA (SECONDA PARTE)

I PRIMI CINQUANT’ANNI DELLA FANTASCIENZA IN ITALIA (SECONDA PARTE)

(La prima parte della monografia “I primi cinquant’anni della fantascienza in Italia”, di Renato Pestriniero,
si  trova qui.)

fantascienza italiana Nel 1972 esce la terza antologia di Galassia di racconti italiani Sedici mappe del nostro futuro. Nell’introduzione, i curatori Curtoni, de Turris e Montanari, riportano il seguente giudizio espresso da Mauro De Vincentiis su La fiera letteraria del 9 aprile 1971 riguardante la precedente pubblicazione: “C’è chi va rivalutando il ruolo dell’uomo nella società futura, ritornando così sui temi già accennati dalla vecchia guardia, che, pur condizionata dagli schemi di moda, aveva intuito che lo sviluppo della science fiction era tutto nell’elemento umano.

Qualcosa cominciava a muoversi. Alcuni critici, obtorto collo e con il contagocce, furono costretti a parlare di una fantascienza italiana. Il Manifesto del 9 agosto 1986 dedicò un’intera pagina a Urania Millemondiestate e otto righe agli unici due italiani presenti. Su Brescia oggi del 23 dicembre dello stesso anno, in un articolo di sei colonne sulle pubblicazioni natalizie di fantascienza, fu citato un solo italiano senza andare oltre al nome e a un titolo, mentre per il resto l’articolo si addentrava in profili e argomenti di autori stranieri, peraltro cosparsi di inesattezze. Su Millelibri di luglio 1989, in un servizio di ben sei pagine, agli italiani furono dedicate due mezze colonne dal titolo Tra gli italiani c’è Buzzati, nel quale venivano citati alcuni nomi di precursori affiancati dal titolo di una sola opera, tutte comunque risalenti agli anni Sessanta e primissimi anni Settanta. Bastava una piccola indagine per offrire al lettore un’informazione per lo meno aggiornata. Su La Repubblica del 15 ottobre 1992 Renata Moné presentò Cose dell’altro mondo. C’è da chiedersi quale valore culturale possa avere un articolo dove si contano ben otto errori e imprecisioni.

Questa situazione di indifferenza e, diciamo pure, di ignoranza, era in buona parte il risultato di una politica editoriale non attenta solo all’ultima cifra a destra ma anche a certe prese di posizione che avevano fissato in maniera ufficiale i paletti di confine oltre i quali un autore italiano non sarebbe stato in grado di andare.

L’ottica con cui Carlo Fruttero e Franco Lucentini, futuri curatori di Urania, vedevano la fantascienza, è sintetizzata in queste loro parole nella prefazione dell’antologia Il secondo libro della fantascienza edito da Einaudi, trentatré racconti e nessun nome italiano: “Tra i racconti qui contenuti sarebbe possibile operare vari raggruppamenti: innanzitutto quello della fantascienza tradizionale, o ortodossa, in opposizione alla fantascienza cosiddetta sofisticata. È ormai evidente che la prima (che chiameremmo piuttosto avventurosa o epica) ha gli anni, se non i giorni, contati: quando l’astronauta russo o americano tornerà dalla Luna e ci racconterà quello che ha visto coi suoi occhi, le supposizioni extraterrestri degli scrittori di science fiction perderanno molto del loro fascino.

A parte la sconfortante riduttività e il provincialismo della dichiarazione, sembrerebbe a prima vista che la politica dei due curatori fosse indirizzata più verso la corrente impegnata che non quella di consumo. L’impressione verrebbe confermata dalla presentazione del racconto Domenica alla frontiera di Sidney Ward, contenuto nella stessa antologia: “Un racconto che ci offre dell’universo un’immagine apparentemente tutt’altro che paurosa, ma che è in realtà l’ipotesi più atroce fra le molte proposte in questa antologia, un vero e proprio epitaffio a tutto il filone della fantascienza cosmica.” Un piccolo particolare: dietro l’esotico nome Sidney Ward si celava Franco Lucentini, che si presentava come traduttore dell’originale ma inesistente Week-end on the Border.

Nel 1962 Carlo Fruttero prese il posto di Giorgio Monicelli come curatore della mondadoriana Urania. Il nome della rivista era intanto diventato sinonimo di fantascienza, e tutto ruotava intorno alla produzione che essa offriva. I testi americani, unici ospiti della testata a parte qualche raro inglese e francese, subivano amputazioni a seconda del rapporto tra lunghezza originale e numero di pagine fisso della rivista, stravolgendo così anche le traduzioni che spesso se ne andavano per proprio conto. Basterebbe l’esempio di come vennero normalizzati i due romanzi di Clifford D.Simak City e Oltre l’invisibile, ritenuti universalmente due capolavori della science fiction. In un articolo apparso qualche anno più tardi, Leonardo Coen parlerà di “certe traduzioni a volte penose, certi tagli e certi finali manipolati per risparmiare carta e quattrini.”

Intanto nel fandom aumentava l’insofferenza per il rifiuto sistematico di materiale italiano. E allora Carlo Fruttero pensò bene di chiarire una volta per tutte la sua posizione editoriale nei confronti della fantascienza italiana. Durante un’intervista radiofonica, secondo alcuni confermata anche in televisione, pronunciò la famosa frase: “Un disco volante non può atterrare a Lucca.”

Con queste parole Fruttero voleva dire che solo da una società altamente tecnologica si può estrapolare una visione valida di futuro, quindi per un italiano era impossibile produrre fantascienza. Sarebbe bastato ricordargli le parole di Raymond Chandler: “Soffermiamoci più su cosa può provare un uomo che al mattino si sveglia venti centimetri più alto, non cercare di spiegare perché è successo.” E poi Kafka insegna.

Ma poiché Fruttero rappresentava Urania, e Urania rappresentava la fantascienza, questa frase diventò dogma. Quasi tutta la critica ufficiale, per lo più digiuna in materia, si schierò subito al suo fianco e così si consolidò lo spazio entro il quale un autore italiano poteva fare quello che voleva salvo tentare di superare, con riconosciuto successo, gli steccati che lo delimitavano.

Fruttero e Lucentini

Però, affermare che spazio per gli italiani non ce ne fosse proprio per niente in casa Mondadori non è esatto. In appendice a Urania ci fu per un certo tempo una sezione a disposizione degli autori nostrani, poche pagine che ospitavano raccontini, poesiole e disegnetti. La rubrica si chiamava Il Marziano in cattedra e gli aspiranti autori dovevano rivolgersi al Professor Marziano.

Psicologia, simbolismo, filosofia erano materie guardate con sospetto. Solo quando esse venivano trattate negli USA, terra di profitto, sembrava fossero manipolate nella maniera giusta; se venivano usate in Italia, terra di umanesimo, no. Infatti, Algys Budris in Michaelmas, “costruisce un avvincente romanzo soffermandosi sugli aspetti psicologici e simbolici della vicenda e tralasciando invece di concentrarsi sui grossi problemi scientifici impliciti nella ricostruzione meccanica di un uomo (…) Come Sturgeon egli preferisce concentrare la sua attenzione sullo studio psicologico dei caratteri dei personaggi più che sulle parti tecniche della vicenda.”

E non importa che il poeta Andrea Zanzotto, nel suo articolo Sottofondi e implicazioni della Science Fiction, apparso su La Collina, ottima pubblicazione curata da Inìsero Cremaschi e ovviamente scomparsa dopo appena 4 numeri, dicesse: “È giusto quindi che la SF venga chiamata a sempre maggiori responsabilità, nel suo spalancarsi sugli spazi esterni e su quelli interni, sulla res estensa e sulla res cogitans (…) senza che venga perduto il sentimento di ciò che vale (nelle) piccole patrie (…) in cui l’originalità della cultura (…) trova il suo più netto e irripetibile suggello (…). Nulla di questo la SF cancella.”

E non importa che, per rimanere in casa Mondadori, lo stesso Ferruccio Parazzoli dichiarasse in un’intervista apparsa su Panorama di giugno 1991 a cura di Roberto Barbolini, che “forse solo la fantasy e la fantascienza sono ancora in grado di porre quei problemi filosofici ed esistenziali che il romanzo affrontava ai tempi di Dostoevskij.”

Negli anni Sessanta del 1900 nacque in Inghilterra, guarda caso in Europa, il movimento new wave. Lo scrittore James Graham Ballard aveva pubblicato un articolo dal titolo Which way to inner space? col quale sosteneva che le trasformazioni più importanti non si sarebbero verificate sulla Luna o su Marte ma sulla Terra e, di conseguenza, in noi stessi, in quello spazio interno che si sarebbe contrapposto allo spazio esterno. La produzione letteraria ispirata all’inner space era sofisticata, a volte ermetica, faceva uso di moduli espressivi che si richiamavano a scrittori quali James Joyce, John Dos Passos e altri.

Anche da noi ci furono tentativi per avvicinare nomi del mainstream attirati dalle possibilità nascoste di certa fantascienza. Nelle antologie Interplanet curate dal veneziano Sandro Sandrelli negli anni Sessanta troviamo Giovanni Arpino, Dino Buzzati, il già citato Carlo della Corte, Ugo Facco de Lagarda, Ennio Flaiano, Tommaso Landolfi, Elemire Zolla… Altri nomi avrebbero potuto usare, direttamente o indirettamente, i moduli della science fiction, penso a Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Paolo Maffei, Margherita Hack… un po’ come è successo in Inghilterra con Fred Hoyle, Arthur Clarke e altri.

Obiettivamente, si deve dire che a questa mancata nobilitazione ha contribuito buona parte del nostro fandom, che ha sprecato tempo ed energie in sterili guerre tra poveri, in estenuanti indagini su quanti bottoni avevano le divise della serie Star Trek, e manifestando una sorta di lesa maestà nel vedere nomi non appartenenti al loro orticello trattare argomenti sui quali sembrava ci fosse un inviolabile copyright.

Durante il secondo incontro Dieci Nobel per il futuro è stato fatto notare che le capacità emotive dell’uomo sono quelle di 250.000 anni fa, mentre, all’opposto, le sue capacità razionali hanno prodotto una tecnologia che può affidare, per esempio, a qualsiasi capo di governo, antico emotivamente, le più micidiali armi nucleari. Questo incontro si è tenuto a Milano nel dicembre del 1994. Dopo l’11 settembre 2001 ci chiediamo una volta di più se la fantascienza italiana non sia anche in grado di esprimere opinioni sulle conseguenze sociali, politiche, psicologiche, etiche, religiose che una constatazione del genere comporta. Quale corrente letteraria dovrebbe occuparsene? Le situazioni socio-politiche sono sempre più vorticose e frastornanti, e dimostrano quanto presto diventi realtà la speculazione più spinta. Questo inizio di secolo e di terzo millennio è stato prodigo nel fornirci occasioni per riflettere su certe sorti magnifiche e progressive. Inseriti come siamo in un magma di realtà fantastiche e di fantasie realistiche, la nostra giornata si è trasformata in un videoclip di 24 ore, e noi assistiamo come spettatori privi di libero arbitrio.

Vengono alla mente le megalopoli irte di grattacieli rappresentate nelle tavole di Alex Raymond per fare da sfondo alle avventure di Flash Gordon sul pianeta Mongo, le megalopoli altrettanto irte di torri di Robida tra le quali volavano macchine di ogni tipo. Torri che sfidano il cielo e macchine volanti: i due simboli per antonomasia di un progresso tecnologico che ci avrebbe portati in un futuro meraviglioso, nel famoso Duemila. Oggi, sembra che una pulsione al di là e al di sopra di tutti ci spinga a darci una regolata, a liberare la mente dai fumi di una sbornia utopica e rifare i conti su basi più distopiche. Come, d’altra parte, alcuni di noi avevano tentato di fare in tempi non sospetti. Infatti, che cosa se non una fantascienza sociologica con radici umanistiche può rappresentare adeguatamente gli scenari di questo momento storico?

Nel 1982 a Trieste si festeggiò il trentennale della fantascienza italiana. Su Il Piccolo del 10 luglio apparve un’intervista a Carlo Fruttero. La domanda era: “Quale influsso ha avuto la fantascienza sui gusti e il costume degli italiani?” Ecco la risposta: “Sul costume spicciolo la fantascienza letteraria non ha avuto alcun influsso. Ne ha avuto, invece, quella cinematografica, più o meno da Guerre stellari in poi, e questo grazie alla produzione di gadget, giocattoli, magliette e così via. Ma ci sono altre aree su cui il genere ha avuto un suo impatto. Il costume linguistico, per esempio. La parola fantascienza e l’aggettivo fantascientifico vengono usati, in italiano, con connotazioni molto elastiche. Sono, insomma, parole fortunate. Si pensi ai commentatori di calcio quando dicono che un’azione è fantascientifica.”

Da allora sono passati altri vent’anni e siamo al cinquantenario. È trascorso un periodo durante il quale ogni movimento artistico, senza vere basi concettuali, sarebbe morto e dimenticato. Oggi, se siamo qui, vuol dire che, malgrado tutto, la fantascienza italiana ha qualcosa da dire, e che quel qualcosa viene recepito pur nelle sue svariate trasformazioni. Non dimentichiamo infatti che la fantascienza, nata come space opera, nel tempo ha indossato abiti tecnologici, sociologici, new wave, hard e soft, fino a quelli cyberpunk con l’avvento della virtualità elettronica.

Gli spazi culturali non specializzati ma che si interessano alla materia sono in costante aumento. In questi cinquant’anni sono stati scritti migliaia di romanzi e racconti tra i quali moltissimi non hanno nulla da invidiare ai prodotti di importazione, e non pochi si collocano a livelli nettamente superiori.

E poi, con Sergio Leone abbiamo creato un western italiano apprezzato in tutto il mondo, i nostri stilisti hanno portato i jeans alle più sofisticate rassegne di moda, abbiamo inventato un jazz partenopeo… non vedo perché non possa essere apprezzata, seppure con colpevole ritardo, una fantascienza italiana che esiste ed è senz’altro adulta.

In copertina Karel Thole: I mostri all’angolo della strada.

Renato Pestriniero

Renato Pestriniero, veneziano, sposato, una figlia. Fino al 1988 capo reparto presso la filiale veneziana di multinazionale svizzera. Dal suo racconto “Una notte di 21 ore” il regista Mario Bava ha tratto il film “Terrore nello spazio.” Esperienze televisive, radiofoniche, fotografiche e figurative.

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