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Interstellar e oltre il Tempo

Interstellar e oltre il Tempo

Sicuramente ci sarà stato chi, sfuggendo ogni rischio di spoiler, si sarà approcciato alla visione di Interstellar ricordando l’Interstellar Overdrive dei primissimi Pink Floyd: il suo riff discendente e la sua parte centrale free-form.

E lo avrà fatto, quindi, attendendosi uno spiegamento di forze effettistiche ultra-psichedeliche a discapito, se si vuole, della sostanza narrativa, cioè privilegiando l’aspetto visuale in un viaggio che si suppone possa essere un’avventura dell’occhio, proprio come il cinema stesso.

E invece, malgrado la tematica del viaggio tra le stelle sia ovviamente di primaria importanza nel kolossal di Christopher Nolan, il film non si pasce di sperimentalismo avanguardistico né autorizza paragoni incauti con le magnifiche sequenze della sezione Oltre Giove dell’indimenticabile capolavoro di Kubrick Odissea nello spazio.

Piuttosto, la pellicola di Nolan si basa su teorie scientifiche, quelle del fisico teorico americano Kip Thorne, e al tempo stesso vanta, sul piano narrativo, un solido radicamento sulla vecchia, cara Terra, rappresentata però come un pianeta rimasto ormai povero di risorse, i cui abitanti per la maggior parte si dibattono tra le difficoltà di una vita rurale dura che non ha alternative: il mais è rimasto l’unica fonte di cibo.

Uno dei buoni motivi per non mettere a confronto l’Odissea di Kubrick con il viaggio interstellare di Nolan è che nella nostra tanto nebulosa contemporaneità le domande da porsi non sono più le stesse che nei decenni finali del Novecento.

Oggi non si pensa più tanto ad immaginare da dove veniamo e chi in realtà siamo o da dove verrà la minaccia esterna capace di distruggere il pianeta, ma più che altro a come impedire che uno sfruttamento intensivo ed irrazionale delle risorse metta in seria crisi la nostra sopravvivenza come specie.

Siamo noi stessi, in altre parole, il nostro più grande nemico.

Questa realtà, portata alle estreme conseguenze, è quella che accoglie lo spettatore all’inizio del film, che, quasi con le cadenze ed i toni di un post-western, ci mostra un territorio avaro di risorse, proprio perché spazzato da un vento incessante portatore di ricorrenti tempeste di sabbia.

I contadini sono induriti dal lavoro agricolo e però stretti in un forte vincolo di solidarietà, anche se lontano dai sentimentalismi.

Per la verità, Murphy, l’adolescente figlia del protagonista, vedovo, entra spesso in conflitto coi suoi insegnanti a scuola, a causa delle informazioni propagandistiche contenute nei libri di testo “corretti.” Per esempio si smentisce l’allunaggio della missione Apollo, avvalorando la tesi del complotto, come in “Capricorn One”, un film del 1978 per la regia di Peter Hyams, in cui però si parla di Marte e non della Luna.

La ragazza è in disaccordo coi testi ufficiali e coi docenti perché ha la possibilità di consultare le pubblicazioni scientifiche che conserva in casa. E qui veniamo all’anima emozionale del film, al suo lato profondamente umano.

Il padre della giovane è un uomo costretto a fare l’agricoltore, ma solo per ripiego, essendo stato a suo tempo uno degli ultimi e più preparati piloti di mezzi astronautici.

L’uomo si chiama Cooper e, forse non a caso Nolan assegna al personaggio quel cognome, dato che il 15 maggio 1963 uno dei primi 7 astronauti scelti dalla NASA si chiamava Gordon Cooper. Costui intraprese la missione Mercury-Atlas 9 e fu il primo astronauta ad aver orbitato attorno alla Terra per ben ventidue volte. Episodio che, assieme all’evoluzione tecnologica della NASA dal 1947 al 1963, viene narrato nel film Uomini veri (1983) di Philip Kaufman, tratto da un romanzo del 1979.

A ogni modo, questo personaggio è quello che all’inizio fa da congiunzione tra lo scenario terrestre e il vuoto interstellare, in cui egli, insieme ad altri, sarà inviato a cercare nuovi spazi per la razza umana.

Lo situazione in cui versa la Terra nel film è proiezione di quella Waste Land a cui Thomas Stearns Eliot dedicò il celebre poemetto, in cui raffigurava con stile modernista la civiltà europea dopo la prima guerra mondiale, esprimendo la sensazione di estrema inutilità provata dall’uomo in un mondo sterile in cui nulla ha più significato.

Il nuovo approdo per la razza umana è invece l’analogo di quel Graal che ne La terra desolata di Eliot rappresentava, come già nel ciclo bretone, l’oggetto il cui ritrovamento salva dalla sterilità e dalla morte.

Nel mondo di Eliot, però, la ricerca non ha successo, a differenza di quella di Parsifal.

In Interstellar come finirà la missione?

Intanto inizia con un importante sacrificio: Cooper si separa dalla famiglia lasciando l’inconsolabile figlia con la promessa solenne, ma dalla improbabile realizzabilità, di un suo ritorno.

Anche questo è in qualche misura riconducibile all’opera di Eliot, che attinge ampiamente a opere e autori della classicità per sottolineare la perdita di senso della società moderna e il suo scientismo.

Invece in Interstellar il meccanismo narrativo vive proprio del proficuo convergere tra nozioni e mezzi scientifici e profondità emotive risalenti a miti classici.

In effetti Cooper, viaggiatore per vocazione seppure suo malgrado, non è che una riproposizione in chiave futuribile di quell’Ulisse che è alla base della cultura occidentale.

Restando sulla terra, le sue cognizioni possono tutt’al più aiutare a sopravvivere sfruttando a fini agricoli ogni residua possibilità tecnologica, mentre le sue competenze di eccellente pilota possono risultare determinanti per la sopravvivenza della specie, là nello Spazio.

Finché rimane sulla Terra, Cooper mostra comunque un’abilità da post-cowboy inseguendo col suo pick up un drone alla deriva, per poi asservirlo al suo computer portatile con una “cattura al volo,” l’indice sul touchpad, come se fosse una presa al lazo di un puledro selvaggio.

L’investitura per questa missione gli arriva però misteriosamente, dopo aver scoperto cioè una base segretissima della NASA che ospita un gruppo di scienziati, diretti dal dr. Brand, un sempre credibile Michael Caine.

Le coordinate della base sono scoperte in base all’analisi dei segni lasciati da un fantasma o da una più scientificamente fondata anomalia gravitazionale nella stanza della figlia.

Questo si rivelerà un indizio determinante per lo sviluppo del film.

Nonostante l’ambiguità dalla NASA, accaparratrice di finanziamenti statali, nonostante l’ostilità dell’opinione pubblica secondo cui la priorità dovrebbe essere la risposta alla crisi alimentare, la storia entra nella sua fase centrale: dal polveroso e ventoso e depauperato suolo americano, verso l’infinito, alla caccia di pianeti abitabili.

Dalle stalle del Midwest alle stelle, tanto più che Matthew McConaughey, rispetto a quando lo abbiamo visto le ultime volte, ci sembra più maturo e con il volto più segnato e temprato.

L’immedesimazione nell’ennesimo eroe dell’Ultima Frontiera può essere più profonda del solito, perché l’impianto scientifico di fondo è attendibile: in futuro pare che davvero potremo viaggiare alla ricerca di altri lidi nel Cosmo; si tratterà “solo” di trovare la propulsione adatta.

Per il momento si segue sullo schermo l’avventura di Cooper osservando che, nel bozzolo della stazione orbitante Endurance in viaggio, l’equipaggio non pare dei più infallibili, malgrado Anne Hathaway si atteggi all’inizio a fredda esecutrice del programma: un piano A e un alternativo piano B.

La donna, addirittura, è refrattaria a qualunque velato approccio anche solo umanizzante da parte del suo pilota, salvo poi dare spazio a personalismi, e per giunta in modo ben più discutibile, forse…

In questo contesto microcosmico, sempre così fragile, circondato dall’immenso, assediante vuoto circostante, forse stavolta i più affidabili sono proprio i robot, dalla forma improbabile a blocchi che ruotano uno accanto all’altro.

Sono una sorta di monoliti modulari ambulanti, capaci peraltro di sdrammatizzare, in virtù delle loro impostazioni: al 70% umorismo e 90% sincerità, comunque personalizzabili a seconda delle preferenze.

A bordo si discute su quale pianeta debba essere scelto, tra quelli già visitati da altri esploratori.

Il che porta a dissidi tra i membri della spedizione e soprattutto alla spiegazione più affascinante tra quelle, piuttosto difficili per i non specialisti, disseminate nel film: come congiungere due punti molto lontani nello Spazio, piegandolo come un foglio di carta e attraversandolo con una matita infilata in un buco.

Metafora dell’astronave che attraversa il corridoio meta-dimensionale.

Gli esperti avvertono che in realtà ancora oggi pare sia altamente sconsigliabile entrare in un buco nero, perché il rischio è quello di non uscirne affatto.

Ciò è evidenziato anche dal nome che Nolan e il fratello sceneggiatore hanno affibbiato a questo black hole: Gargantua. Infatti, oltre ad essere un evidente omaggio alla letteratura francese, in particolare a Gargantua e Pantagruel di Francois Rabelais (prima metà del Cinquecento), il nome di questo ben noto personaggio di taglia gigantesca, essendo divenuto nei secoli sinonimo di smisurato e insaziabile (dal sostantivo spagnolo garganta, ovvero gola), può essere attribuito anche ad un buco nero, appunto.

Quando la stazione orbitante, in uno stadio avanzato della sua perlustrazione, lambisce il warmhole, il tunnel spazio-temporale che penetrerebbe quella soglia sferica, nel film l’azione conduce a sequenze visive vertiginose di grande impatto, che dovrebbero darci un’idea delle undici dimensioni di cui si comporrebbe la realtà secondo l’attuale teoria delle Stringhe.

Ciò che accade nei pianeti della nuova galassia in cui approda la stazione attiene allo sviluppo della storia oltre che alla sua spettacolarità.

Formidabile, in particolare, la scena con le ondate mostruose su un pianeta interamente ricoperto dalle acque.

Tra le conseguenze del viaggio penta-dimensionale non si può non accennare all’effetto melodrammatico dal punto di vista emotivo, dei videomessaggi che giungono dalla Terra in un tempo completamente sfalsato.

Se, come ci propone il film, esistessero pianeti in cui ogni ora varrebbe sette anni terrestri, allora ogni scelta in merito alla rotta è connessa al legame affettivo con chi è rimasto a casa, perché lo si vedrebbe invecchiare di decine di anni nelle immagini dei messaggi, fino a far perdere all’astronauta la speranza di ritrovare al suo ritorno i propri cari ancora vivi.

Ma ci sarà un ritorno?

Il lato oscuro dello spirito umano viene a manifestarsi, nell’alternanza delle scene, sia tra gli appartenenti alla missione (cruciale anche se secondario, il ruolo affidato a Matt Damon) sia tra coloro che sono ancora sulla Terra.

A quel punto è palese che la missione, volta ad una forse irrealizzabile conquista di spazio nello Spazio, in definitiva potrà rivelarsi solo una perdita di Tempo.

E intanto sulla Terra le condizioni di vita peggiorano e Murphy, adulta ormai (una intensa Jessica Chastain), lavora alla NASA come scienziata…

Mentre però in “Moon” di Duncan Jones o in “Solaris” di Tarkovsky i messaggi dalla Terra portano un dolore cui si può solo restare ricettori passivi o aumentare la propria consapevolezza, in Interstellar l’eroe, superata la fase più convulsa e meno immediatamente comprensibile del film, si sacrifica ancora una volta per permettere alla sua collega Amalia (Anne Hathaway) di proseguire la missione sfruttando il campo gravitazionale del buco nero.

Cooper si ritrova preso nelle maglie spazio-temporali e cerca in qualche modo di interagire con esse e con il “linguaggio” della gravità, cercando di dare un senso concreto ai dialoghi scientifico-barocchi sparsi nel film per conquistarsi così un ritorno cosmico-acrobatico tra mille distorsioni di grande forza visionaria.

Lo accompagnerà, in qualche modo imperscrutabile, uno dei due robot, Tars, che col suo nome da tassa sui rifiuti ed il suo corpo derivato da materiali riciclati si rivelerà, oltre che spiritoso, anche un fedele e utile alleato.

Il finale, che non riveliamo – ma attenzione al fotogramma di apertura, su cui appare il titolo del film – di sicuro raccoglie e riscatta anche l’ambizione secondo alcuni pretenziosa di una macchina narrativa stracarica come l’Endurance.

Nolan ha già dimostrato di non essere per la semplicità e la leggerezza, ma per la ricchezza e l’inventiva.

Il potente afflato spirituale che sospinge Cooper viene visto, in filigrana, nella lirica del grande poeta Dylan Thomas citata nel film, ma c’è stato chi molto acutamente ha osservato che un riferimento al nostro Dante, e a “l’Amor che move il Sole e l’altre stelle” sarebbe stato ancora più appropriato (e forse ancora più “trasparente”).

In definitiva Nolan ha realizzato con Interstellar un prodotto complesso ma anche in buona misura rigoroso nella sua componente scientifica, al tempo stesso accattivante e pregno di umanità senza essere melenso, con passaggi contemplativi alla Terrence Malick (si pensi a I giorni del cielo).

La fuga dalla “terra desolata” conduce dunque in un corridoio escheriano, e non vi diremo di più.

Ma se nell’opera letteraria sopra citata di Eliot la verità etica o perfino religiosa resta inafferrabile, bruciata dalla futile rapacità dei tempi moderni, forse Cooper riuscirà come Parsifal a trovare il Graal.

Nolan – come Faulkner o Steinbeck, altri due autori della Lost Generation come pure Eliot – può idealmente farsi interprete di una “solidarietà narrativa”, in questo caso del cinema e non della letteratura, nei confronti dei terrestri, vittime, in questo caso, della crisi alimentare globale sfruttando l’immaginario fantascientifico e le più avanzate teorie astrofisiche in funzione di ansie contemporanee e prefigurandone eventuali sviluppi.


© 2021 il7 – Marco Settembre

il7 Marco Settembre

Laureato in Sociologia dei Mass Media, giornalista pubblicista dal 2012 pur avendo iniziato nel 2008, con al suo attivo tre libri e quattro partecipazioni ad antologie. Adora, tra gli altri, Dick, Ballard. Burroughs e Douglas Adams...

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