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La Peste Verde

La Peste Verde
Autore: Stanton A. Coblentz
(The Green Plague, Astounding, febbraio 1934)

Le immagini di questo racconto sono opera originale di Ignazio LeonardiIgnazio Leonardi 2025), prodotte appositamente per Cose da Altri Mondi.

 

Mentre scrivo queste parole nel mio tetro rifugio sotterraneo, alla luce di un camino acceso ma di poco superiore ai falò degli uomini delle caverne, mi dico che è inutile sforzare il mio cervello e le mie dita per scrivere un documento che probabilmente nessuno leggerà mai. Forse non succederà mai che qualche superstite della specie umana, nascosto in qualche sconosciuto labirinto della terra, si faccia strada fino a questa grotta dove io trascino la mia inutile esistenza e trovi queste parole in compagnia delle ossa insepolte di colui che si considera forse l’ultimo uomo vivente?

Eppure è impossibile per me impedire alle mie mani di incidere sulle mura della caverna che è stata casa mia in questi ultimi 7 mesi. Altrimenti come potrei salvarmi dalla follia? Come potrei io, Caxton Brooks, un tempo professore di batteriologia all’Atlantic University, e figura di cattiva reputazione nel mondo, fuggire dal confine della pazzia al pensiero della mia responsabilità nello sterminio dell’umanità?

Non ne sono forse io il responsabile? Qui, accucciato nella semioscurità, sentendo le fiamme che scaldano le gallerie pietrose, e fissando le ombre tremolanti come se avessi paura di vederci un fantasma, mi pongo quella domanda momento dopo momento – e sempre la stessa risposta torna a perseguitarmi.

“Sì, povero, cieco stupido, tu sei responsabile! Mille volte sei responsabile per la sciagura che ha sconvolto il mondo; per lo spopolamento dovuto alla Peste Verde, che ha spazzato via la tua specie come una visita di Satana; e grazie alla scomparsa sul tuo pianeta di formiche, scarafaggi e vermi, tutti gli uccelli e i mammiferi sono sulla via dell’estinzione!”

Ma non lasciatemi continuare con questi inutili sproloqui, che mostrano solo lo sconvolgimento della mia mente. Lasciate che io continui a raccontare, coerente per quanto posso, la serie di catastrofici eventi che ha portato il mondo, in quest’anno di grazia 2444, a questo punto infausto.

Ma da dove comincio? Dovrei scrivere la storia degli ultimi 500 anni solo per spiegare perché io giochi una parte così diabolica nelle vicende umane. Dovrei ripetere i racconti delle guerre in cui centinaia di milioni di persone furono sterminate da germi, mitragliatrici e gas velenosi; dovrei riferire della Conferenza sul Disarmo Batteriologico, che ebbe luogo nell’anno 2334, dopo che ogni grande nazione era stata decimata, e fu firmato solennemente un accordo che bandiva l’uso di gas e microbi in guerra per un periodo di 100 anni. E dovrei descrivere come le nazioni, ricordando le tragiche lezioni dei secoli ventesimo, ventunesimo e ventiduesimo, aderirono quasi al completo, così che fummo in grado, almeno in parte, di recuperare le perdite delle cosiddette ere pestilenziali, e riconquistare qualcosa della cultura, della prosperità e del benessere fisico goduti dai nostri antenati più di cinque secoli fa. Ma passerò sopra tutto questo e mi affretto a dire della crisi dell’anno 2443 e della parte avuta da me nel provocarla.

Ma prima veniamo ai preliminari scientifici.


METTERÓ al primo posto la mia propensione all’investigazione biologica. Disponendo dei ben equipaggiati laboratori dell’Atlantic University, non perdevo opportunità di investigare le attività dei microorganismi, che costituivano il mio principale interesse sin dai tempi di studente universitario; e niente mi rendeva più felice che trattare una qualche coltura di bacilli in nuove condizioni di ambiente e crescita per poter scoprire le loro potenzialità nascoste.

Errore fatale! Se non fosse stato per questa propensione a esplorare l’ignoto non avrei mai pensato allo stimolatore solare batterico – e oggi non dovrei incidere queste parole sulle mura di roccia di una desolata caverna!

I principi dello stimolatore solare sono abbastanza semplici. È risaputo che la maggior parte dei batteri, mentre prosperano in luoghi bui e umidi, non fioriscono ai raggi del pieno sole. Ora supponiamo, mi dissi io, che dovessimo sviluppare batteri che vivono alla luce come nell’oscurità. Non avrebbero fornito un intero nuovo universo all’esplorazione scientifica?

Ero così ebbro di quest’idea – dovevo essere pazzo, riflettendoci adesso – che non ho mai pensato a quello schema se non come a un promettente esperimento scientifico. Non passò molto tempo prima che intuissi le possibili conseguenze nefaste. Con uno zelo che si sarebbe rivelato la maledizione della mia vita, con un fervore per cui dovrei espiare più amaramente che per qualsiasi crimine, mi misi alla ricerca dei batteri resistenti alla luce.

I più importanti eventi che seguiranno rendono necessario sorvolare su questa parte della storia. È necessario solo che dica che fu tre anni prima del mio successo, ma che, molto prima di allora, avevo già indizi su come certi insignificanti batteri, noti nel gergo scientifico come DX Corporeii Sanguinelli, potevano essere trattati con i raggi ultravioletti, in modo da sviluppare un’unica capacità di resistenza al sole – vale a dire che potessero fiorire e propagarsi in un’atmosfera che avrebbe ucciso all’istante i germi ordinari.

Ma avendo fatto tale scoperta, che uso ne dovevo fare? Ammetto che all’inizio non ne avevo idea. Passarono molte settimane mentre permettevo ai batteri di moltiplicarsi senza uno scopo apparente; quando, di colpo, un’occasione sventurata mi fece intuire la loro utilità pratica.


La peste verdeACCADDE un giorno che un nuovo assistente di laboratorio, di nome Reginald Berg, si tolse la maschera protettiva indossata durante le indagini batteriologiche e, prima che potessi avvisarlo, inalò un soffio dell’aria intrisa di germi. E con quel soffio – poveretto! – decise il destino proprio e quello delle nazioni.

Mai dimenticherò ciò che seguì, per quanto negli anni a seguire mi sia ben abituato a scene d’orrore. Meno di un’ora dopo, il mio sfortunato aiutante si contorceva in spasmi mortali.

Le sue ginocchia si erano irrigidite di colpo, finché, lui ancora in vita, esse non assunsero una specie di rigor mortis; il suo respiro divenne corto, pesante, rantolante; i suoi occhi avevano cominciato a gonfiarsi con un’espressione mista di dolore e agonia; i capelli sul suo capo si erano fatti setosi e irti; una schiuma sanguinosa usciva dalle sue labbra; e la sua carnagione, rosea e giovanile fino a un momento prima, aveva assunto il più strano colorito che abbia mai visto su un volto umano: un verde pallido, chiazzato di marrone, che mi ricordava le foglie del primo autunno.

Freneticamente, i miei altri assistenti e io, con l’aiuto di un medico chiamato all’istante, soccorremmo quel povero sofferente. Ma non sapevamo che cosa fare; tutti i nostri sforzi furono inutili. Nemmeno nel giro di due ore, Berg diede il suo ultimo rantolo; ci fissò come per chiederci l’aiuto che non riuscivamo a dargli; poi si girò, chiuse gli occhi e, dopo un tremito convulsivo, si bloccò. E tutti noi restammo immobili e curvi davanti alla prima vittima della Peste Verde.

Ma se lui fu la prima, quanto in fretta arrivarono la seconda, la terza e la quarta! In mezzo alla concitazione causata dal collasso di Berg, solo io ebbi la precauzione di tenere la maschera anti-germi al suo posto. Ricordo che mi domandai: “E se fosse un male contagioso?”, seguendo la mia propensione alla fredda analisi scientifica, anche nei momenti più critici. E buon per me se presi quella precauzione. La malattia era veramente contagiosa – molto più di quanto avrei creduto possibile.

Non mi perdonerò mai per non avere espressamente avvertito i miei due assistenti superstiti e il medico. Dissi loro qualcosa, ricordo, ma nella loro agitazione mi diedero scarsa attenzione. Non appena Berg cessò di respirare tutti e tre i presenti cominciarono a manifestare gli stessi sintomi; il respiro pesante e rauco, la rigidezza alle ginocchia, gli occhi gonfi, i capelli setosi, la strana pelle verdastra a chiazze marroni. Possa il Cielo perdonarmi per quello avevo fatto a loro senza volere! Nel giro di un’ora, nonostante i nostri sforzi frenetici, tutti e tre caddero senza vita.


SE fossi stato dotato di qualcosa vicino al buon senso, a questo punto avrei capito che l’esperimento si era spinto fin troppo avanti; avrei preso i germi resistenti al sole e li avrei sterminati; non avrei dovuto sentirmi soddisfatto finché non avessi distrutto l’ultimo di loro.

Ma purtroppo non ero fatto di quella pasta. Era qualcosa da divulgare, il fatto che avessi dato vita a una nuova specie batteriologica, anche se la mia creazione fosse stata la portatrice di una nuova pestilenza; quindi non potevo uccidere la mia stessa creatura. Inoltre, il pensiero di un uso possibile per la mia invenzione mi saltò alla mente con una rapidità persino diabolica.

I fatti che ho narrato avvennero nella primavera del 2434; e fu proprio in quel periodo, come sa ogni studente di storia, che si teneva la famosa Conferenza di Canton per discutere il rinnovo del Patto di Disarmo Batteriologico, che era quasi scaduto. Pochi fra quelli che si occupavano della questione si aspettavano delle difficoltà nel riaffermare un accordo così fruttuoso, che era stato in gran parte responsabile per i progressi del secolo precedente.

Ma gli ottimisti avevano fatto i conti senza i politici, e senza gli scienziati che trattavano germi. I primi, sempre ansiosi di giocare un grande ruolo, espressero squallide preoccupazioni sui pericoli di “alleanze intrecciate”, e, in chiaro disprezzo dell’evidenza, lodarono “la storica politica isolazionista”; mentre i secondi, ansiosi di nuovi sbocchi per le loro scoperte, espressero un pio “Amen!” ai pronunciamenti dei demagoghi, e pagarono costose campagne, e non pochi sostenitori scientifici, allo scopo di dimostrare che il modo più umano e gentile di sterminare i nemici è soffocarli con un gas letale o abbatterlo con una malattia.

Tutti questi appelli, per quanto vacui e menzogneri, furono creduti dalle masse sulla parola.  Tale, infatti, fu la pressione di un’infiammata opinione pubblica che due delle nazioni leader si ritirarono dalla conferenza con pretesti strombazzati quasi prima che le sessioni cominciassero. Queste nazioni – Transeuropa e America Superiore – comprendevano nei loro territori la maggior parte del Nord America e del continente europeo; e con i loro ritiri non solo resero inutile la continuazione della Conferenza, ma rianimarono un’antica rivalità che più di una volta era sfociata in guerra.

Fu solo alcune settimane dopo l’interruzione della Conferenza che, per caso, scoprii le qualità patogene dei DX Corporeii Sanguineii. E fu allora che, grazie all’orgoglio patriottico che provavo come sovramericano, un pensiero insidioso mi colpì la mente. Dal momento che la prossima guerra non era lontana, e le armi batteriologiche senza dubbio avrebbero giocato un ruolo chiave, un po’ come nei conflitti dei nostri antenati, perché non sviluppare la mia invenzione per il bene della mia nazione?

Grazie alla rapidità e all’inevitabilità con cui procurava la morte si sarebbe dimostrata molto più efficace dei microbi del tifo, della peste bubbonica, della febbre gialla o di qualunque altra malattia nota. Di fatto si sarebbe dimostrata l’arma batteriologica per eccellenza.

A questo punto devo chiarire una cosa. Non che io non mi facessi degli scrupoli; non che non mi sia passato per la testa che lo sterminio di milioni di esseri umani inermi e innocenti sarebbe stata una cosa terribile. Ma quando mai il puro scienziato o l’ardente nazionalista pensano alla preziosità degli esseri umani? Usando qualche frettoloso sofismo, fui capace di spazzar via tutti gli argomenti contrari.

“Perché essere sentimentale? Il fine non giustifica i mezzi?” ragionavo fra me, inconsapevole che stavo solo ripetendo le banalità che avevano mal guidato i miei antenati. “Il bene della maggioranza, il trionfo della causa più nobile devono essere le nostre preoccupazioni.”

Oh, oggi quando mi accovaccio miseramente nella semioscurità della mia caverna, quanto bene realizzo in che maniera abbiamo servito il bene della maggioranza, il trionfo della causa più nobile!

Ma 10 anni fa, purtroppo, non ero dotato di capacità profetiche. Ansiosamente, e con un senso di patriottica virtù – e anche, lasciatemelo dire, con una schietta speranza di ricompensa economica – mi misi a convertire i batteri resistenti al sole in armi militari.

Questa parte di lavoro fu in realtà ridicolmente semplice. Fu necessario solo inventare una piccola fiala trasparente in cui le colture di milioni di batteri potevano essere conservate per periodi di tempo relativamente lunghi; e poi vedere come potevano essere distribuiti in modo da produrre il massimo del danno.

Un mezzo a questo proposito si concretizzò negli aerei telecomandati dalle onde radio, i quali avrebbero portato i germi in territorio nemico, spargendoli a miriadi, quali che fossero le difese contro di essi, spargendoli con la stessa efficacia sia che il velivolo fosse abbattuto o se atterrasse dove previsto ma in modo di spezzare le fiale.

Le difficoltà pratiche erano così poche e lievi che in meno di un mese fui pronto a offrire lo stimolatore solare batterico e i batteri stessi al ministero della Guerra dell’America Superiore.


LA transazione fu conclusa in fretta. Per mezzo di esperimenti con i porcellini d’India, convinsi il ministero dell’efficienza della mia invenzione; e poco dopo furono firmati dei documenti segreti e ci fu il passaggio di una somma di denaro, e me ne andai per la mia strada un po’ più ricco grazie al dono che doveva portare la mia specie alla rovina.

Anche se i fatti non saranno mai conosciuti con certezza, c’è ragione di credere che la Guerra Transeuropea del 2437-2439 si sarebbe potuta evitare se non fosse stato per lo stimolatore solare. Sulle base di informazioni personali e di voci, sono portato a supporre che i chimici e i generali del ministero della Guerra, una volta ottenuta la mia invenzione, erano un po’ come bambini con un nuovo giocattolo; erano ansiosi di usare lo strumento e vedere come si comportava.

Ma per testarla avevano bisogno di una guerra, il che in ogni caso era in linea con le loro ambizioni professionali; perciò fecero di tutto per provocare ostilità con il loro principale rivale, la Transeuropa.

Data l’opposizione della popolazione, ci vollero tre anni prima che potessero fomentare il necessario fervore militare; ma alla fine, dopo molte parate, riviste e dimostrazioni marziali, accompagnate da un’aperta competizione negli armamenti, i nostri leader furono capaci di escogitare che eravamo stati “insultati” dall’azione di una folla transeuropea che aveva sottratto una bandiera sovramericana da un oscuro consolato in Galizia.

Poiché l’episodio non fu sufficientemente spiegato dal governo transeuropeo, seguì un’immediata dichiarazione di guerra e milioni di sovramericani corsero a offrire le loro vite per vendicare l’onore del consolato in Galizia.

Del corso della guerra nei suoi primi 20 mesi non dirò nulla. Grazie alla pressione degli elementi più timidi o più conservatori, che temevano una rappresaglia dalla Transeuropa, l’uso del DX Corporeii Sanguineii fu evitato per quasi due anni. Solo nel ventunesimo mese del conflitto, quando milioni di cittadini di entrambi gli imperi avevano perso le loro vite e il conflitto sembrava chiuso in un vicolo cieco, i sostenitori della guerra batteriologica prevalsero e lo stimolatore solare entrò in campo come una forza attiva.

Ho sempre creduto che se le masse sovramericane avessero avuto davvero idea di quello che passava per la mente dei loro leader, si sarebbero sollevate in rivolte, oltraggiate al pensiero dell’orrore che si stava per perpetrare. Ma le misure che dovevano portare alla distruzione totale continuarono tranquille, senza remore, e senza informazioni diffuse.

Fu nell’agosto 2439 che le bandiere sventolarono esultanti per tutta l’America Superiore e uomini, donne, bambini esultarono ovunque alla notizia di una “schiacciante vittoria” sul fronte transeuropeo. Dieci milioni di caduti, si disse, erano stati inflitti, e molti di più se ne aspettavano.

Quello che i dispacci non dicevano era che i “caduti” includevano donne, vecchi, neonati, scolari – in sostanza, la base della popolazione. Quello che non dicevano, inoltre, era che tutte le vittime erano morte di una particolare, feroce malattia che irrigidiva le ginocchia, gonfiava gli occhi, drizzava i capelli e coloriva la loro pelle di un verde chiazzato.

Ma presto, nonostante i più tenaci sforzi dell’ufficio di censura, qualcosa della verità cominciò a trapelare. Spaventosi oltre ogni dire, i rapporti non ufficiali si diffusero. Dicevano che in tutti i vasti distretti della Transeuropa non si vedeva anima viva; non un contadino nei campi, non un uccello nel cielo o una pecora nei prati deserti.

In tali condizioni la guerra era di certo finita. L’America Superiore aveva vinto; e non fu necessaria neanche una formale dichiarazione di pace. Perciò il grido di gioia per il nostro trionfo fu enorme; intenso fu il giubilo che affondò le proteste scandalizzate; vasta fu l’acclamazione e prolungata la celebrazione per la ristabilita supremazia dell’America Superiore fra le nazioni.

Ma anche mentre le fanfare risuonavano e le truppe vittoriose sfilavano, i più previdenti già potevano vedere i segnali del destino.


FU circa al momento del ritiro delle nostre truppe dalla Transeuropa che il grido “Peste Verde! Peste Verde!” cominciò a echeggiare per il mondo. Era stata taciuta la verità che alcuni dei nostri soldati erano stati contagiati, soccombendo a un contagio che si spargeva come un tornado che non conosceva confini o razze. Nella guerra scatenata dal demone della malattia non esistevano neutralità né tregue.

Portati dai profughi, trasmessi per aria e acqua da aerei e navi, i nuovi batteri crescevano e si moltiplicavano con incalcolabile rapidità. Nelle nazioni che si erano tenute fuori dalla Guerra Transeuropea, il flagello infuriava non meno che sui campi di battaglia; passò meno di un mese prima che le genti di ogni paese combattessero per la sopravvivenza contro il nemico invisibile. Davvero breve era stata la nostra vittoria!

Seguirono così i quattro, cosiddetti anni desolati. Si crederà che sia stato fatto ogni possibile sforzo per combattere la Peste Verde; che nei loro laboratori gli scienziati abbiano tentato qualunque esperimento alla ricerca di mezzi per fermarla; che i singoli cittadini siano stati avvisati in ogni modo e costretti a indossare il più possibile le maschere protettive.

Ma tutti gli sforzi si rivelarono inefficaci. Niente – assolutamente niente – fu fatto per controllare i percorsi del distruttore che, assumendo una forza imprevedibile dalla luce solare che assorbiva, attaccava e avvelenava il flusso sanguigno e causava una morte inevitabile nel giro di una o due ore.

Immaginate l’agonia e il terrore in quelli che sopravvivevano! I germi minacciavano tutti noi, nell’aria che respiravamo, a volte nel cibo che mangiavamo – ed evitarli di continuo era impossibile, poiché non si può indossare una maschera quando si mangia.

Inoltre nessuno voleva indossare una maschera; lo stesso desiderio di sopravvivenza venne dimenticato. Esistere in un costante stato di paura e terrore era peggio della morte.

Da ogni parte si vedevano morire i propri parenti o amici, di malattia o di fame. Le città erano sempre più deserte e le erbacce sbucavano tra i loro abbandonati pavimenti. Si levavano costanti i lamenti dei malati e le baruffe degli uomini che, un tempo prosperi, ora lottavano con i cani randagi per una crosta di pane.

Si sapeva che, nelle campagne, il bestiame cedeva nei recinti a causa della stessa terribile pestilenza e che anche gli animali e gli uccelli dei boschi ne erano colpiti, mentre i contadini, anticipando la loro stessa fine, non avevano più l’ambizione di coltivare i campi.

Si realizzò infine che non nascevano più bambini; del resto chi, nell’aridità di quegli anni, avrebbe dato nuove vite al mondo? La specie umana sembrava destinata all’estinzione.

Un raggio di speranza – per quanto tenue – ci arrivò come una pagliuzza afferrata dall’uomo che annega. Sebbene il germe si fosse rivelato inattaccabile dalla luce del sole, chi poteva dire lo stesso dell’oscurità? Purtroppo, come altri batteri, non fu ucciso dalla mancanza di luce; ma, d’altro canto, ne fu molto indebolito. Quindi il nostro ultimo rifugio parve essere nei rifugi sotterranei e nelle caverne. Ci trascinammo come ratti nelle viscere della terra!

Verso la fine degli anni desolati, di comune accordo, gli sbandati superstiti della nostra specie cominciarono freneticamente a rintanarsi sottoterra. Che miserabili esemplari umani erano! Pallidi ed emaciati, i vestiti a brandelli, barba e capelli incolti, gli occhi inselvatichiti, s’intrufolarono come cani bastonati nelle cantine, nei tunnel, nelle metropolitane, nei pozzi, nelle caverne; e laggiù, se anche sfuggirono ai pericoli della Peste Verde, caddero vittime delle malattie portate dall’oscurità, o semplicemente del terrore, della follia o della fame.

Finché ne fui capace, combattei la tentazione di cercare rifugio sottoterra. Ma alla fine il mondo in superficie divenne troppo spaventoso da sopportare. Lo spopolamento era quasi completo; ovunque andassi, nelle strade cittadine coperte di vegetazione o nelle strade di campagna un tempo battute, non vedevo un solo essere vivente. Proprio io, che avevo scatenato quella catastrofe, dovevo affrontare la sorte di essere l’ultimo superstite?

Alla fine, preso dal panico, vagai fra le montagne e scoprii questa caverna, dove da sette mesi mi nutro di radici e funghi e dei pesci di un lago sotterraneo, senza avventurarmi mai all’aperto se non di notte. E ora, afflitto dagli acciacchi dell’umidità e sentendo la mia fine vicina, tengo la mente occupata scrivendo queste memorie sui muri della caverna, nella speranza che un giorno siano lette da qualcun altro.

Perché, contro ogni ragione, persiste il pensiero che da qualche parte sulla Terra – in qualche deserto o isola o remota foresta tropicale – possano sopravvivere degli uomini così isolati da essere scampati alla Peste Verde; e mi consolo pensando che questi uomini fonderanno una nuova specie, che si spargerà e coprirà la Terra, un giorno troveranno questa caverna, decifreranno queste parole e trarranno insegnamento dalla storia del nostro crollo, evitando di costruire cupole e torri maestose solo per poi soccombere davanti a un germe da loro stessi allevato.

Così finisce la storia del misero uomo che, per quanto ne sa, è forse l’ultimo uomo sulla Terra.

Mario Luca Moretti
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Altri interessi oltre al cinema e alla letteratura SF, sono il cinema e la la letteratura tout-court, la musica e la storia. È laureato in Lingue (inglese e tedesco) e lavora presso l'aeroporto di Linate. Abita in provincia di Milano

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