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IL TOMBINO MALEDETTO

IL TOMBINO MALEDETTO

Immagine di copertina fornita da Edizioni Scudo

Davide era pronto per uscire, si stava infilando le sue scarpe senza allacciarsi le stringhe, tanto le portava sempre così’, al volo. Era quasi l’ora dell’aperitivo e Marco era già di là, braccato da sua madre, che lo aspettava per andare a prendere un aperitivo alla baracchina vicino al mare.

“Mamma non gli rompere troppo i coglioni eh, sennò la prossima volta vado io da lui, che su’ madre è meno rompipalle!”

 “Tranquillo Davi, è simpatica tua madre.”

Davide saltò giù dal letto e si infilò la tracolla di stoffa in spalla, prese al volo il suo amico trascinandolo via dalle grinfie della sua vecchia (sua madre aveva 45 anni, quindi vecchia fino ad un certo punto) verso la porta di casa.

“Andiamocene Marco, che devo anche comprare le sigarette!”

Fece per aprire il portone di casa ma si accorse di aver dimenticato le chiavi in camera sua. Sbuffando in maniera troppo plateale per essere seria girò su se stesso e tornò sui suoi passi. entrò in camera e chiaramente non le riuscì ad individuare al volo. Dovette buttare all’aria metà della scrivania per ritrovarle, e nell’operazione rinvenne anche: un accendino, un pacchetto di filtri per sigaretta e tre cartine usate, 3,72 euro, la tessera del codice fiscale e una caramella alla  menta. Si infilò tutto in borsa e ritornò in soggiorno, riprese al volo Marco e aprì il portone di casa.

“Ciao eh, io torno tardi.” urlò alla casa.

“Hai preso le chiavi? I soldi per uscire ce li hai?” chiese con apprensione sua madre.

“Si si, tuttapposto.”

Era già di una gamba fuori di casa quando suo padre urlò dal divano che sarebbe stato il caso, già che usciva, di rendersi utile: poteva portare la spazzatura al cassonetto. Lì per lì Davide stava per rispondergli che poteva benissimo pensarci lui, poi decise che non era una mossa saggia, dato che di lì a qualche giorno avrebbe dovuto chiedergli dei soldi.

Rientrò in casa per l’ennesima volta, estrasse il sacco dalla pattumiera, lo chiuse e cercando di controbilanciarne il peso uscì di casa, seguito dal suo amico che educatamente salutò tutti.

La porta si chiuse dietro di loro e si avviarono verso il cassonetto.

Tale cassonetto era situato a un paio di centinaia di metri da casa sua, motivo per cui nessuno aveva mai voglia di andare a buttarlo, e per arrivarci si doveva girare l’angolo e passare dal giardinetto pubblico. In fondo al giardinetto c’era il cassonetto.

Il giardino era inutilmente illuminato da quattro lampioni, inutilmente perché la luce del giorno era ancora presente, quindi a parte un malfunzionamento delle fotocellule non si capiva bene quale fosse il motivo per cui fossero accesi.

La strada e il parchetto erano deserti, ma era ora di cena, quindi era normale. Quello era un posto di persone abitudinarie: cenavano tutti alla solita ora, poi portavano il cane a spasso tutti insieme e tornavano a stravaccarsi sul divano.

Che gente di merda! Non come loro. Loro erano giovani ed avevano tutta la vita davanti che giornalmente gli si dipanava davanti in un dedalo infinito di possibilità. E loro quindi ora andavano a bersi uno spritz, e poi un altro, e poi un altro, a farsi dei selfie e a parlare di palestra, calcio, donne e fumare sigarette per darsi un tono. Come tutti gli altri ragazzi della loro età. Giovani adulti già abitudinariamente vecchi. 18 anni non sono tanti, ma a volte sono troppi e rischi di assomigliare troppo ai tuoi genitori troppo presto.

Arrivarono al cassonetto in un silenzio comunque tutto sommato irreale, lo aprirono e ci catapultarono dentro il sacco, dopodiché il coperchio si chiuse in un concerto di lamiere e meccanismi alla fine dei loro giorni.

Si voltarono per andare alle biciclette e fu lì che videro: dal tombino in mezzo al parco, quello da cui defluivano le acque della fontanella potabile usciva una luce. Da sotto proprio. Una luce rosso -arancio. Come se ci fosse qualcuno con una torcia a fare uno stupido scherzo.

I due ragazzi si guardarono senza parlare, e Davide si incamminò in quella direzione per vedere più da vicino. Marco restò indietro, più titubante, che in effetti un tombino illuminato da dentro non è una cosa a cui uno è solitamente preparato.

Quando furono ambedue a un paio di metri di distanza dal tombino cominciarono a sentire un sordo mugugnare provenire da lì sotto. Come una sorta di cantilena, ma non riuscivano a capire se la stessero sentendo con le orecchie, o se la stessero intuendo con il cervello.

All’improvviso il tombino saltò in aria a la luce si liberò in tutta la sua potenza: una colonna di luce in mezzo ai cespugli e agli alberelli. Nessuno a parte loro parve accorgersi dell’evento, e neanche del fatto che la cantilena si era fatta più persistente.

“Andiamo a vedere?” Disse Davide all’amico, indicandogli una scaletta che si intravedeva nel tombino. Marco restò lì, inebetito, indeciso se stesse scherzando o se fosse serio.

il Rinocestruzzo.

Evidentemente Davide era serio perché detto-fatto: arrivò proprio sopra al tombino, con un po’ di sforzo tolse la grata che gli stava sopra e cominciò a scendere. Arrivato che fu al momento in cui solo la testa era fuori dal buco,  si girò verso il suo amico e gli disse:

“Oh, io scendo eh. Te che fai, vieni o stai li come un geranio?”

Era come vedere una testa sacra, staccata dal corpo e illuminata da un fascio di luce ascensionale  parlargli dalla gola degli inferi. Invece era quel demente del suo amico che si stava infilando in quello che sembrava un buco in terra ed invece molto più verosimilmente era un bordello di proporzioni galattiche.

“Arrivo.” rispose.

Che fai, hai la possibilità di partecipare a un bordello di proporzioni galattiche e te ne privi? Giammai. E si avviò a sua volta alla scala, mentre Davide era già sceso più in basso.

All’interno della colonna di luce tutto sommato non si stava neanche troppo male, c’era un tepore piacevole e una musichetta tutta di sonaglietti e pifferini. Arrivati sul fondo però la musica, era il caso di dirlo, cambiava. Buio e sgocciolii ovunque, eco lontane di passi e versi di non meglio specificati animali.

Ci ho ripensato, io torno su.” disse Marco

Ed il tombino, come in risposta, si richiuse con un forte rumore metallico. Marco si precipitò su per la scaletta per cercare di aprirlo, ma dopo molti sforzi, tutti inutili, rinunciò.

“Ecco, lo sapevo: siamo prigionieri nelle fogne e tutto perché sei un cretino!” urlò verso Davide, che in tutta risposta preso l’accendino dalla borsa illuminò per un attimo il tunnel per vedere dove andare.

“Se stai calmo troviamo il modo di uscire, è un tombino, mica l’inferno.”

“E te cosa ne sai?”

Davide si incamminò verso la parte destra del tunnel, arrivando in poco tempo ad un angolo retto. Lo voltò e si trovarono, alla luce dell’accendino, in una specie di stanza cubica in cui confluivano due collettori ovoidali per lato.

 “Ecco, e ora dove andiamo?” Marco cominciava a piagnucolare.

“Vedi che non stai attento.” gli rispose Davide “Se guardi bene si vede un bagliore provenire dal tunnel di destra, lì di fronte a te. Io direi di andare lì.”

E così dicendo si incamminò in quella direzione. Marco sempre dietro, sempre più spaventato. Tutto intorno era pieno di rumori di sgocciolii, colpi nei tubi che gli correvano vicino alle orecchie ed alle caviglie e rumori di zampette veloci e squittii da ogni buco. Mano a mano che avanzavano, oltretutto, la luminescenza pareva aumentare, era come se un televisore sintonizzato su un canale morto mandasse in onda una schermata di energia statica.

Finalmente girarono l’angolo e si trovarono in un’altra stanza.

Arredata.

Un televisore mandava in onda un canale morto illuminando tutta la stanza. C’erano poster attaccati alle pareti, un mobile, una poltrona di fronte alla televisione, un divano in un angolo, un tavolo con sopra bottigliette e pezzi di cocomero mangiati.

“Aiuto.” una voce flebile provenne da dietro di loro e girandosi videro uno strano animale con una zampa incatenata a terra. In parte struzzo, di cui aveva le ali, il corpo e le zampe, in parte rinoceronte, di cui aveva la testa. 

“Cosa-cazzo-sei?!” scandì Davide

“Buonasera. Rinocestruzzo, per servirla, messere.”

 Davide e Marco rimasero immobili con le braccia distese lungo il corpo e la bocca aperta.

 “Rinocestruzzo?” Chiese Marco.

“Inevitabilmente. Sarei lieto di servirvi fedelmente, laddove voi vogliate liberarmi da questa prigionia.”

 “E chi ti ha incatenato?” chiese Davide.

“Oh, domanda legittima. È stato il Fato Beffardo.”

“Non è una risposta. Ho chiesto chi è stato.” insistette Davide.

“Il Fato Beffardo, gliel’ho detto messere, e lo ribadisco: ma sia messo agli atti che non ho fatto niente per meritarmi questo. Presto, vogliate prendere in considerazione l’ipotesi di aiutarmi e di farlo immantinente. Prima che il Fato torni e ci colga in flagranza.”

Finito di dire questo sentirono dei gran colpi in terra, come di passi metallici giganteschi. Un’ombra sinistra apparve dal corridoio opposto: un’ombra come di un antico essere incarnato, ricurvo e gigantesco, che si stava avvicinando a loro.

“Ecco, nulla di fatto: arriva il Fato Beffardo. Presto celatevi alla vista sua, prima che vi renda suoi prigionieri!” disse loro il Rinocestruzzo.

Presi dal panico i ragazzi corsero vero l’unico mobile provvisto di ante presente nella stanza, lo spalancarono e lo trovarono vuoto, fatta eccezione per un pezzo di stoffa tirato in terra e un bastone intarsiato. Vi entrarono e chiusero le ante. Lasciarono uno spiraglio per vedere cosa accadeva.

Nella stanza proprio in quel momento entrò il Fato: un orribile accozzaglia di parti corporee: la testa di cinghiale su un corpo da orso, coperto solo da un gonnellino tipo kilt scozzese, con degli stivali rinforzati con placche metalliche. Aveva degli aculei sugli avambracci e un corno simile a quello dei narvali sulla fronte.

Annusò l’aria un attimo, poi si guardò intorno e disse:

“Chi c’è stato?”

La centrifuga del terrore.

“Chi c’è stato?” Chiese ancora il Fato Beffardo.

“Ma nessuno, figuriamoci.” rispose il Rinocestruzzo. 

“Sniff sniff… Tu menti.”

“E perché mai dovrei mentirvi, Signoria? Scusi l’ardire – e se mi permetto – ma non ho sempre dato segno di lealtà nei suoi confronti? Non ho sempre mantenuto fede al nostro accordo? Il nostro accordo fruttuoso per entrambi: lei non mi uccise, e io la servo.”

La discussione andava avanti nella stanza – se si poteva chiamare stanza – mentre Davide e Marco dentro l’armadio cercavano di decidere come muoversi. Lo dovevano fare velocemente, e lo dovevano fare anche in silenzio, dato che fuori dall’armadio i due esseri stavano sì ragionando a voce alta, ma comunque lo stavano facendo a pochi metri da loro.

“Cerca se trovi qualcosa di utile.” Disse Davide a Marco. Lo disse con un filo di voce simile ad un sibilo.

“Vaffanculo: io non cerco proprio un cazzo. Non so se hai notato, ma siamo nella merda fino alle orecchie, e qui mi sa che urge trovare un modo per scappare. Non perdere tempo a rovistare tra le quattro cazzate che ci sono in questo armadio.” Marco era decisamente arrabbiato.

“Ecco!” sussurrò trionfante Davide, impugnando un martello da guerra – peraltro molto simile a quelli dei nani nello Hobbit. “Tu tieni questo che io mi arrangio.” disse passando il martello a Marco.

“Si, benissimo: e cosa dovrei fare?” gli chiese Marco “Uscire dall’armadio sventolando quest’aggeggio?”

“Sempre meglio che stare qui a vita, no?” rispose Davide.

“Ma non sono mica tanto convinto, sai?!”

 SBAM! In quell’istante si spalancò la porta dell’armadio ed i due si trovarono di fronte il testone da cinghiale di Fato. Non sembrava – purtroppo – neanche troppo beffardo mentre sussurrava loro, fra i denti “Eccovi qui, tramezzini.”

Davide scivolò fra le gambe del bestione, mentre Marco impazzito di terrore gli scaricava con tutta la forza che aveva in corpo il martello da guerra sul piede. La bestia urlò di dolore e assestò uno schiaffo col dorso della zampa-mano a Marco facendolo volare per tutta la stanza fino a colpire la parete opposta, di fianco al Rinocestruzzo, che dal canto suo stava cercando di liberarsi dalla catena che lo teneva prigioniero.

Davide dette un morso alla gamba del Fato che urlò nuovamente, lo prese e lo scaraventò dove aveva lanciato il suo amico.

Ci fu un attimo sospeso in cui i quattro si fissarono: il Fato da un lato e Davide, Marco e il Rinocestruzzo dall’altro.

“Siete morti.” disse Fato.

“Parliamone.” disse Rinocestruzzo.

“Fottiti.” Disse Marco.

“Frag-Niggu-SemBlem-figarù.” Disse Davide. E si aprì un vortice in mezzo alla stanza. Un vortice enorme che sprigionava venti e saette, come un buco nero con dentro una collezione di tempeste.

“Andiamo.” Disse.

Marco e il Rinocestruzzo si girarono a guardarlo.

“Ma andiamo dove???” Chiese Marco.

“Nel buco nero. Ovviamente.” Rispose Davide. E aggiunse “Velocemente anche, perché se entriamo e si richiude su di noi vivremo per sempre un’esistenza a metà,”

Si guardarono un secondo, poi il Rinocestruzzo li spinse entrambi nel gorgo nel momento stesso in cui il Fato Beffardo gli si stava avventando contro. Il fato però riuscì a prendere il Rinocestruzzo per una zampa e a strattonarlo all’indietro, impedendogli di fatto di passare oltre, mentre Davide e Marco invece cadevano nella porzione di universo che gli si era spalancata davanti, cadendo a spirale senza possibilità di arresto.

“Aspetta un attimo, perché stiamo cadendo?” Chiese Marco, che aveva sì molti difetti, ma non era un cretino. “Siamo nello spazio. Non esistono punti cardinali. Non possiamo cadere se non c’è un sotto.”

“Esatto.” Rispose Davide. “Ma non stiamo cadendo, è l’inerzia della spinta che ci sposta.”

 “Ah.” Rispose Marco. “Mi pare sensato.”

E si misero ad urlare.

Poi svennero.

L’imperatore dell’universo.

Si risvegliarono.

Il pavimento era gelido e sicuramente inorganico: plastica, o metallo. O qualcosa di analogo. Si alzarono in piedi barcollanti. Il pavimento non c’era. O meglio, certo-stavano poggiando i piedi su un pavimento, ma non era visibile. Niente di quello che avevano intorno era cambiato: erano sempre nello spazio. Ma stavano comunque respirando, erano fermi e poggiavano i piedi su un pavimento.

Che non c’era.

Marco disse: “Io neanche volevo entrarci nel tombino.” Ma non si udì alcun suono. I ragazzi si guardarono esterrefatti e fecero qualche tentativo: urlando, battendo i piedi in terra o le mani fra loro, ma niente, non udivano alcun suono.

Si aprì d’improvviso una botola nello spazio. Lo so, suona strano, ma è quello che successe. Era come se lo spazio che li circondava in definitiva fosse una carta da parati. Una cosa simile.

Una volta aperta la botola videro scavalcare l’argine a un esserino piccolo e grigio. Aveva la testa molto grande , enorme, con occhi giganteschi e il cervello pulsante visibile a occhio nudo sotto la pelle traslucida del cranio.

Aveva una specie di antenna conficcata in fronte e che si estendeva per una trentina di centimetri, come fosse un corno da unicorno.

“Prostratevi, o inutili – e disgustosi – esseri. PROSTRATEVI dinnanzi al Dio dell’antimateria, il Signore del fotone, l’Ammiraglio Supremo della galassia. Faccia a terra di fronte all’Imperatore dell’universo!” poi soffiò in una trombetta di plastica. Perepè.

La botola si riaprì ed entrò un gatto, con la calotta cranica aperta su cui era appoggiata una cupola di vetro contenente un cervello.

“Grazie, gran ciambellano. Chi sono queste due schifezze?”

“Ma chi siete voi!” Urlò Davide.

“Guardie, a me!” disse scocciato l’imperatore.

Arrivarono delle specie di granchi meccanici, erano una dozzina e tutti dipinti di colori diversi.

Il primo, e anche il più grosso, si avventò sui ragazzi, ma quando sembrava che tutto fosse perduto Davide recitò la formula magica “Frag-Niggu-SemBlem-fiammeggiù.”

Una spada fiammeggiante apparve nella mano destra di Marco. Il ragazzo la guardò un attimo e la impugnò con ambedue le mani e cominciò a affondare fendenti a destra e a manca, distruggendo i granchi meccanici ad uno ad uno.

Finiti che furono i granchi Davide si diresse verso il ciambellano e l’Imperatore.

“Riportateci a casa, schifezze astrali.” Intimò loro.

“Non si permetta mai più di rivolgersi a sua Immensità in questi termini!” piagnucolò il ciambellano.

“Fatti indietro o te ne pentirai!” – “Riportateci subito a casa oppure vi apro come due saracinesche.” Marco era al limite della sanità mentale.

“Ma io non ne ho il potere.” Rispose l’Imperatore.

“Posso farlo io.”

 Marco si girò a guardare Davide.

“Cosa vuol dire che puoi farlo tu? Da quando?”

“Da sempre, credo, ma ne ho preso coscienza solo in questo momento.”

“E allora che stai aspettando?”

Davide chiuse gli occhi, mise una mano sulla spalla di Marco e disse:

“Frag-Niggu-SemBlem-Accasah.”

Si ritrovarono fuori, al parco, di fronte al tombino. Davide guardò Marco:

“Buttiamo la spazzatura ed andiamocene.”

“Ok.” Rispose Marco.

Si incamminarono verso la luce dei lampioni.

“Sai fare altre magie?” Chiese Marco a Davide.

“Non lo so.”

Pietro Rotelli

Ho 43 anni e faccio il babbo, l’illustratore, il fumettista, il letterista e il grafico. Scrivo racconti e romanzi.

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